"Ho conosciuto 'l'altro
Scarpati' in occasione della mostra postuma che il Comune di
Giussano gli ha dedicato. Invitata a collaborare alla
presentazione del catalogo, andai nella sua casa, dove viveva
ancora la moglie e tutto era rimasto come lui l'aveva lasciato:
tele iniziate, ultime opere, opere giovanili, acquarelli,
tempere, olii e soprattutto tanti disegni. Mi aprirono i
cassetti di un comò colmi di fogli e foglietti di ogni forma e
dimensione, spesso piccolissimi, alcuni molto vecchi. Schizzi
senza data, senza titolo, senza firma: giochi della mano che
scorreva libera sull'onda di una musica, di un ricordo, di
un'emozione di fronte ad angoli di paese, animali, persone reali
o immaginarie. Appunti, spunti, evasioni. Inaspettati, anche nel
loro disordine, nel loro apparente disimpegno: mi è rimasto così
il ricordo piacevole dell'incontro con un artista più
fantasioso, più libero e commosso di quello ufficiale, ossia il
decoratore e illustratore del sacro e dell'epico; un uomo che,
al di là del rigore scelto ed autoimposto, ammiccava suo
malgrado a ciò che era fresco e spontaneo, come fiori, animali,
santi giullari e uomini fieri e un po' folli, come il Don
Chisciotte che amava.
Ma Scarpati a un certo punto della sua vita - non si sa bene
quando e nemmeno del tutto perché - si è imposto una scelta. Se
l'è imposta con la volontà e la ragione, più che con l'istinto e
il sentimento; una scelta pressoché univoca, unidirezionale:
uomo di fede, esigente con se stesso, si staccò dall'indagine
della realtà viva, dalle visioni di una natura luminosa e
colorata, com'egli la vedeva da buon napoletano, e affidò la sua
notorietà e il suo impegno di lavoro esclusivamente ai temi
sacri, morali, affrontando le rigide leggi estetiche e formali
che il dogma impone all'arte.
Si è così in gran parte negato la vacanza dello spirito, il
vagabondare fantastico, forse credendo che avrebbe mancato di
impegno e coerenza se avesse ceduto alle lusinghe dell'arte
libera, al creativo puro. Ma perché, vien da chiedersi, Dùrer
era forse meno Dùrer quando disegnava con amore un coniglietto
palpitante?
Certo è difficile oggi fare arte sacra e illustrare testi sacri
o poemi epici evitando il rischio e la tentazione di una
rigidità medioevale che ovviamente non ci appartiene. Se mai ci
appartiene quella del robot, ma non c'entra con l'arte, checché
se ne dica.
Certo Scarpati era fortemente attratto dall'eroico, dal sublime,
dai temi gravi del destino umano e dai severi richiami dello
spirito. Ed ecco quindi i grandi cicli: l'illustrazione della
Commedia, dei Trionfi del Petrarca, l'Apocalisse. E le grandi
composizioni a mosaico e ad affresco, vetrate, pale d'altare e
Vie Crucis, temi evangelici e immagini di santi per chiese,
cappelle, centri di vita religiosa.
Si poneva, a questo punto, il problema dello stile e Scarpati se
lo è posto, anzi se lo è imposto, ancora una volta con un atto
della volontà guidata dalla ragione. Del resto Scarpati non è un
artista che, già stilisticamente maturo e liberamente aperto a
esperienze creative diverse, si sia imbattuto a un certo punto
anche nei temi a soggetto sacro: sembra che egli sia nato
all'arte, almeno ufficialmente, entro i limiti di questo genere
e che sia stata questa la sua scelta poetica, questo il suo
impegno d'artista, con la conseguente assunzione di stilemi atti
a rispondere a esigenze illustrative e celebrative molto
condizionanti.
Un destino comunque non facile: mi si dia oggi un artista che
abbia saputo rinnovare il linguaggio del sacro o rivivere in
qualche modo, con autenticità, quelli del passato: da più di due
secoli i soggetti religiosi hanno avuto solo soluzioni
stilistiche di tipo revivalistico, in tutti i campi dell'arte,
perché da più di due secoli la nostra cultura è essenzialmente
laica. Il revival ci ha infatti proposto, sia in pittura che in
architettura e scultura, tanta arte 'neo-romanica, neo-gotica,
neo-rinascimentale e persino neo-barocca dopo le rigidezze del
peraltro più autentico neo', ossia il Neo-classicismo, che però
con l'arte chiesastica ha avuto ben poco a che fare. Unica altra
alternativa fu, nel nostro secolo, l'astratto, l'informale, che
però non ha soggetto realistico ed è una sorta di passe-partout,
il pozzo dove si getta ogni aporia estetica. Lucio Fontana, che
allora era arrabbiato con Manzù, mi disse un giorno: che bisogno
c'è di fare un Cristo crocefisso? Anche il mio taglio è un
crocifisso!
Certo lo stile a cui si attinse maggiormente fu il romanico,
ovviamente, ma era uno stile essenziale ed è difficile ispirarsi
all'essenziale senza correre il rischio di cadere nella
retorica, nel vuoto dell'imitazione, e l'imitazione
dell'essenziale si riduce fatalmente a fredda formula. Nel
Medioevo la civiltà trasudava fede e l'assoluto era pane
quotidiano. Se guardiamo le sinopie e i cartoni per mosaici e
vetrate degli artisti medioevali, o i loro libri di disegno
eseguiti per scopi didattici, non troviamo mai un cedimento al
soggettivo, il minimo cenno allo schizzo, alla realtà colta
nell'attimo. E questo perché non esisteva la pittura del tempo
libero e quella dell'obbligo: alta astrazione vi era
nell'affresco o nella grande pala d'altare come nella tavoletta
della predella o nell'iniziale del codice miniato. Dove il tema
si faceva magari più intimo, meno solenne, ma lo stile restava
fermo.
Nell'opera di Scarpati c'è invece un grande divario tra le
realizzazioni, diciamo così, impegnate - anche nei confronti di
una committenza legata da tradizioni e da esigenze di propaganda
religiosa - e il suo andare col segno vagabondo tra volti
d'uomo, gesti di animali, angoli dismessi e dimessi di case
rustiche e cortili, il suo passare accanto con affettuosa
curiosità a chi soffre e a chi è lieto cogliendo con arguzia
attimi fugaci, espressioni spontanee: una realtà, umana e no,
colta passando. Due occhi sgranati, tra stupiti e arroganti,
sotto la visiera di una coppola, lo scatto di un fantaccino
improvvisato - gambe divaricate, fare da gradasso - o galline
chiocciolanti accoccolate nella buca scavata per terra. E poi
musi di animali e musetti di bambini, che si affacciano da
chissà dove e ti guardano; scorci di lago, macchie d'alberi,
vecchi tetti. E frati (o santi?) e donne (o Madonne?) col bimbo
in braccio, che si fermano o vanno, si incontrano e ti
incontrano, così, per via.
Penso, oltre ai disegni, a un certo tipo di quadri, una
produzione degli ultimi anni, spesso di piccole dimensioni,
eseguiti con una tecnica speciale: colori a olio, un caldo
monocromato giocato tra seppia e terra di Siena, steso su una
superficie trattata con caolino granulato e colla,
particolarmente efficace; forse perché non permette al segno di
irrigidirsi. Ne nasce una pittura mossa, un fare più libero,
cordiale, che Scarpati aveva ottenuto anche nei rari ritratti e
autoritratti, cioè sempre quando l'incontro è autentico, la
presa è diretta e non vi sono imposizioni o pre-meditazioni,
formalità e schermi. Cosicché anche il divino, dove c'è, si fa
umano e spontaneo.
Ma qual era lo Scarpati più autentico? Lui forse lo sapeva, la
sua arte certamente lo sa. E sembra risponderci: tutti e due in
un certo senso lo sono; anche se questo svela il limite e non il
rapporto tra l'uomo di fede e l'artista. Strano artista, che ha
castigato i suoi mezzi in nome di una fede 'all'antica'.
Ma qualche volta i suoi mezzi l'hanno premiato, laddove
interveniva nel tema un coinvolgimento autentico e soprattutto
dove l'elemento luce poteva diventare interprete, liberarsi e
librarsi oltre i vincoli di un segno tiranno. Si tratta di
tecniche e soluzioni formali che gli hanno permesso di
raggiungere, pur nella solennità e austerità dei temi e delle
sedi e nella monumentalità delle dimensioni, un'espressione più
diretta e intensa dell'emozione
creativa. Una è il mosaico a grosse tessere bugnate e
irregolari, di formato vario, volute così dall'artista,
assoggettate al suo disegno. Ne derivano effetti di colore-luce
mossi, suggestivi, dove le figure deformate, lacerate, senza
perdere la nota di misticismo che è propria del mosaico,
esprimono una drammaticità sofferta. Sembra quasi che Scarpati
'con la scusa' della tecnica - peraltro tutta sua - affidi alla
materia, a quell'impasto magmatico al di fuori di ogni
ortodossia, i rovelli interiori dell'uomo moderno di fronte al
mistero. Tant'è che i cartoni preparatori non rispecchiano
assolutamente la qualità dell'opera finita. Un valido esempio è
nel Cristo risorto della cappella Gavazzi nel camposanto di
Giussano.
L'altra è la vetrata eseguita col metodo 'Dalles'. Si tratta di
spessi vetri dai colori intensissimi, resi più fondi dallo
spessore e più luminosi per un effetto di fessurazioni interne
che moltiplicano le vibrazioni. Scarpati ha esaltato questi
effetti con colpi di martello al fine di creare varianti
luminose e tonali che danno alle scene una forza plastica e
spaziale insolita nel genere. Inoltre la maggiore saldezza della
materia, nei confronti del vetro tradizionale, entro le vaste
aperture, permette alle suture di cemento di reggere a un
disegno audace, molto essenziale.
A Grandate, nella chiesa del Monastero delle Benedettine, egli
realizza così un'opera di ampio respiro, di grande forza
espressiva che, pur rispettando la sobrietà dell'architettura,
ne amplifica e articola gli spazi, e suscita un'intensa
partecipazione alla preghiera col sapiente equilibrio di colori
accesi, di forme contratte o espanse in perfetta sintonia con i
temi: quelli drammatici della Passione, l'irrompere dall'alto
dell'Immacolata, i Santi composti e frementi di luce, l'inno
liberante della Trasfigurazione.
In quest'opera si realizza una sintesi tra epico e fantastico:
vi troviamo uno Scarpati grande e umile artigiano che, come un
artista medioevale, offre una meditazione e una preghiera fatte
di lavoro appassionato, dove l'atto di fede diventa 'poiein'.
Ma troviamo anche la stessa vis creativa, pur nella differenza
di destinazione e di impegno creativo e realizzativo, dello
Scarpati vero, commosso, delle piccole immagini. L'altro
Scarpati, appunto."
Ivana Mononi Montani*
*Ivana
Mononi Montani
è nata a Venezia nel 1929
e si è laureata in Lettere Moderne nel 1956
con una tesi in Storia dell'arte.
Ha insegnato Lettere e Storia dell'arte
in diversi istituti privati
(fu anche al Ballerini dal 1956 al 1959).
Ha collaborato con diversi giornali e riviste d'arte,
tra cui Arte Lombarda, di cui è stata anche
direttore responsabile.
Ha esercitato ad ampio raggio il suo magistero critico,
dedicandosi anche all'arte contemporanea,
con interessanti studi su Fontana, Manzù e Giacometti.
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