UN'INVENZIONE
VISIONARIA
Giorgio
Scarpati è una figura atipica nel contesto dell'arte italiana
degli ultimi decenni. Anacronistica addirittura. E non nel
senso, in questi ultimi anni divulgato, di una pittura di
citazione, che dal passato derivi stilemi e tecniche, con
accenti, nei casi migliori, di rivisitazione concettuale (e nei
peggiori, la maggioranza purtroppo, con esiti indesiderati di
manifestazione, più che altro, di incapacità). Invece per il suo
porsi costante fuori del clima culturale dominante. A cominciare
dalla formazione e dai primi saggi, negli iniziali anni Trenta,
quando Scarpati è nella sostanza estraneo al clima novecentista
e ai suoi miti, come d'altra parte alle preoccupazioni
strutturali degli astratti o alla discrezione
naturalistico-intimista di altre situazioni. Ma poi soprattutto
nella maturità, quando va prendendo corpo una sua originalissima
visionarietà, che piuttosto che al bello punta al sublime.
Nel senso che il pittore tende a travalicare l'esperienza di un
sensibile circoscritto nel contingente per dar forma alla
tensione all'assoluto, all'infinito: nella definizione di spazi
incommensurabili col metro del fenomeno, e quindi anche con il
suggerimento di una temporalità altra, dove il simbolo può
agevolmente proporre la sua alta significanza, oltre la mera
constatazione del qui ed ora. Fuori della cronaca quindi, e
dell'illustrazione, o della proposizione tautologica. Ma pure
oltre il brivido del sentimento. Non però dell'emozione, giacché
questa è anzi la dimensione entro cui, kantianamente, lo slancio
al sublime si esplica.
Con tutte le implicazioni che una tale posizione ha, anche in
senso morale, e sempre kantianamente, per la determinante
rilevanza, nel processo, della "disposizione d'animo" (ed è poi
qui la ragione della sfortuna d'una siffatta linea, estranea al
formalismo e all'autoriflessività del linguaggio nell'arte
contemporanea prioritari). E con le conseguenze, va aggiunto
subito, sul piano espressivo, che è quanto poi conta -e quanto
deve in definitiva esser giudicato - in un pittore, sia pur
entro le qualità umane, spirituali e financo teoretiche.
Scarpati, infatti, nelle opere in questo senso non solo più
riuscite, ma più "sue" (o, se si vuole, anche, più riuscite
perché più sue) dà corpo di immagine a tale posizione forte di
frontiera tra il visibile e l'invisibile, il terreno e il
celeste, il naturale e il soprannaturale. Offrendoci sì
creazioni cariche di senso, ma risolte - nei raggiungimenti
maggiori - in una inventività figurale di solida e suggestiva
efficacia. Per cui ci pare riduttivo il commento di Carlo Bo
alle tavole dell'artista su soggetti tratti dalla Divina
Commedia di Dante: opera che ha naturalmente attratto Scarpati,
che con essa ha instaurato un dialogo che non è come invece
appunto afferma l'illustre critico, di semplice "umile e fedele
lettura".
L'artista ha infatti sì "rispettato" il testo dell'Alighieri,
studiandolo in profondità, e non lo ha usato solo come
occasione. Ma - lo ha colto bene Gian Alberto Dell'Acqua - su di
un registro di libera, e visionaria, invenzione, ben diverso da
quello degli illustratori tardo romantici e accademici che con
la Commedia si sono cimentati. Certi tagli audaci in diagonale,
certe spericolatezze prospettiche, come le ardite soluzioni
cromatiche (e basti ricordare l'abbacinante saturazione luminosa
delle immagini finali per la terza cantica) provano il vigore
propositivo dell'autore: come le analoghe - nell'efficacia -
tavole per l'Apocalisse, che pure non poteva non affascinare
Scarpati, a suo agio su questi piani dagli orizzonti dilatati,
ben più che nei territori, per lui angusti, del colloquio con la
vita di ogni giorno, che infatti frequenta con reticenza, e con
conseguente più gracile e modesta qualità di forma.
Luciano
Caramel
|