I PROMESSI SPOSI DI GIORGIO SCARPATI - Rassegna di studi grafici e di bozzetti preparatori - dal 14 al 29 aprile 2007

 

Inaugurazione sabato 14 aprile 2007, ore 17.00 - Salone Giovanni Paolo II – Robbiano di Giussano (MI)

LA MOSTRA

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Come raggiungerci

- Il Circolo Culturale

 

LA VITA

- Biografia
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Autoritratto a carboncino (1946)
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Autoritratto a olio (1948)
 

I PROMESSI SPOSI DI SCARPATI

- Analisi di Dom Giovanni Brizzi
-
Le tavole grafiche
-
I bozzetti
-
Critica di Mario Monteverdi

- Illustrare Manzoni di G. Gaspari
-
Documenti della Casa del Manzoni

- Opere delle 5^ Isa Giussano
 

CATALOGO DELLE OPERE

- Presentazione del Sindaco Cassina
-
Critica di Luciano Caramel

 

STORIA DELLA COLONNA INFAME

- Introduzione di Edilio Marelli
-
Disegni
 

BIBLIOGRAFIA

- I Quaderni del Ballerini
- Bibliografia

 

TESTIMONIANZE

- Il Sindaco Franco Riva

- Claudio Scarpati
-
Erminio Barzaghi
-
Ivana Mononi Montani

- Istituto Statale d'Arte di Giussano
- Edilio Marelli
 

 

 

AL LETTORE

 

 

E' con questo spirito che ci avviciniamo ai Promessi Sposi: essi ci permettono una lettura piana di quel grande romanzo che merita di essere riletto come un'opera fondamentale per la conoscenza del costume di un'epoca e per l'apprendimento di un genere letterario che forse capovolse la narrativa del nostro stile letterario.
Anche qui osserviamo una sensibilità tutta di Scarpati che giova al lettore per penetrare tutta la vicenda: le figure stupende, e ne cito solo due, dei monatti e la madre che consegna loro la propria bambina morta di peste "scendeva dalla soglia" sono quadri che non si dimenticano facilmente.
L'occasione di poter usufruire delle tavole in esposizione è un privilegio da non perdere perchè , per noi, difficilmente si ripeterà facendo parte di una collezione privata a cui va il merito del prestito.
Alla fine del capitolo XXXII dei Promessi sposi il Manzoni, dopo aver a lungo parlato di untori, dice che di un processo contro alcuni di essi vale la pena che egli tratti a parte, in un nuovo lavoro: sia per l'importanza di quel processo, sia perchè non è cosa da uscirne in poche parole, e il lettore, tutto preso da questa nuova vicenda, potrebbe - scrive sempre il Manzoni - non curarsi più di conoscere ciò che rimane del ... racconto. Con parole più o meno simili, l'autore rinviava il lettore ad una successiva storia non soltanto nel Fermo e Lucia (la prima redazione non pubblicata del romanzo), ma anche nella prima edizione del 1827.
Di che si trattava? Accingendosi a narrare nel romanzo i casi della pestilenza del 1630, il Manzoni non si era limitato a consultare gli scritti di cronisti e storici del Seicento e del Settecento, ma aveva voluto studiare il maggior numero di testimonianze dirette. Si era così imbattuto in verbali o estratti di verbali di un clamoroso processo, quello appunto che egli ha ricostruito, con tanta ricchezza di particolari e tanto evidente partecipazione, in questa Storia della colonna infame.


Siamo a Milano, nel pieno della peste del 1630. Un Commissario della Sanità, tale Guglielmo Piazza, viene sorpreso da due donne mentre, secondo loro, sta ungendo un muro. Tanto basta perchè il malcapitato sia tradotto davanti ai giudici. Si viveva allora nel terrore che alcuni criminali, forse per un patto stretto col demonio, si adoperassero, con polveri o unguenti, a diffondere la peste per la città. L'aspettativa generale era che qualcuno di questi untori venisse esemplarmente punito.
I giudici milanesi, che, come osserva il Manzoni, non cercavano una verità, ma volevano una confessione, ricorsero a tutti i mezzi, non esclusa la tortura, per ottenere questa confessione. Il Piazza resistette agli interrogatori più stressanti, non cedette a nessuna delle astuzie cui i giudici ricorsero; sottoposto alla tortura una prima e una seconda volta, continuò tenacemente a negare ogni addebito. Allora gli fu promessa l'impunità se avesse ammesso la propria colpevolezza. Il poveretto si lasciò piegare dalla speranza, cominciò a parlare, dovette, per coerenza, fare anche un nome, quello di chi gli aveva consegnato l'unguento da spargere. E la vittima designata fu un innocente barbiere, Giangiacomo Mora.
A quei tempi, com'è noto, i barbieri facevano anche della bassa chirurgia (praticavano salassi, strappavano denti, curavano ferite) e spacciavano pomate ed unguenti vari. Non fu dunque difficile agli sbirri, immediatamente spediti alla casa del Mora, scoprire vasi, vasetti, ampolle; di più c'era in cortile una grossa caldaia di rame con gli avanzi sudici di un bucato di qualche giorno prima: più che sufficiente per arrestare lui e suo figliolo che era lì con lui.
Il Mora viene interrogato. Il Piazza viene nuovamente sottoposto alla tortura, blanda questa volta, perchè si possa dire che, anche torturato, non ha ritrattato nessuna delle accuse mosse al povero Mora: e, come volevano i giudici, l'accusatore conferma tutto, particolarmente la faccenda del vasetto avuto dal Mora per ungere i muri della città. Dal canto suo il Mora ammette di aver consegnato il vasetto, ma precisa che conteneva un rimedio contro la peste. Quando però intuisce che stanno coinvolgendolo in qualcosa di spaventoso, allora nega, nega con tutte le sue forze; ma torturato una prima e una seconda volta, crolla e mormora stremato: "Mi dica Vostra Eccellenza quello che vuole che io dica: lo dirò!" Ed arriva ad accusarsi di un delitto orribile che non aveva commesso, e inventa successivamente dei particolari raccapriccianti, che possano rendere più credibile la sua confessione.
Il giorno dopo ritratta tutto. Ripete più volte, anche dopo aver recitato una preghiera, che non è vero niente di quello che gli hanno fatto dire con 1 tormenti. Condotto subito nella stanza della tortura e legato, l'infelice, sopraffatto dal terrore, si dice pronto a confermare la confessione del giorno prima; slegato, nega ancora tutto; posto di nuovo alla tortura, ripete quella confessione che i giudici volevano, confermandone i particolari. Tutto quello che egli dice - osserva il Manzoni - è inverosimile, ma ai giudici importa soltanto di convincere il Mora della sua grave colpa.
Il Senato milanese conferma le decisioni dei giudici, ordina un altro interrogatorio del Mora e del Piazza, perchè forniscano nomi di mandanti e complici. Al Piazza i giudici dicono che, non avendo egli detto tutta la verità, non potrà beneficiare dell'impunità promessa: lo sventurato, per ricuperare la sua unica speranza, va alla disperata ricerca di altri particolari, così come altri ne aggiunge il povero Mora. Tutto inutile. Vengono comunicati ai due gli atti del processo e dati due giorni per la rituale difesa. Dei due difensori d'ufficio, quello del Mora si scusa e rifiuta l'incarico; quello del Piazza chiede qualche giorno per leggere gli atti. Il Piazza approfitta del rinvio per tentare una via di salvezza: accusa di complicità un ufficiale spagnolo, figlio del comandante del Castello di Milano. L'ufficiale viene arrestato, ma il processo contro i due malcapitati continua autonomamente, tra nuovi interrogatori e nuove torture, fino alla sua fatale conclusione.
L'infernale sentenza - come la definisce il Manzoni - merita di essere trascritta per esteso. Decretava che i due condannati messi su un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con la ruota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo.


Così, con quella mostruosa sentenza, si concludeva la pietosa e tremenda vicenda dei due sventurati, e col testo della sentenza vogliamo concludere questa esposizione della Storia della colonna infame. La Storia, per la verità, continua ancora: racconta le ultime ore dei due condannati; riferisce di altri processi collegati a quello del Mora e del Piazza; ci dice che la colonna infame fu atterrata nel 1778 e che nel 1803 su quell'area proibita fu costruita una casa; termina con una rassegna degli scritti, che, da varie angolazioni, narrarono la storia di quell'infame processo. Forse anche questo séguito, al quale il Manzoni dedica non poche pagine, meritava un'esposizione meno sbrigativa. Ma ci sembra che, dopo aver dato una notizia abbastanza ampia dei fatti essenziali, sia opportuno aggiungere, specialmente per i più giovani lettori, qualche giudizio orientativo.
E, per cominciare, è opera storica questo scritto che il Manzoni volle come appendice ai Promessi Sposi?
La polemica attorno a questo punto ebbe inizio appena la Storia fu pubblicata, nel 1842. La riassunse Benedetto Croce nel suo saggio sul Manzoni storiografo, in cui, mettendosi dalla parte di tutti quelli che si erano espressi negativamente sulla validità della Colonna infame come opera storica, scriveva che nel Manzoni l'interesse morale ha soverchiato l'interesse storico ... sviandone il giudizio e che l'autore della Colonna infame non è ingegno storicamente conformato. Da buon discepolo del Croce, Fausto Nicolini si impegnò in una lunga e minuziosa analisi per provare quanto si fosse ingannato il Manzoni nello studiare peste ed untori e come egli non faccia opera di storico.
Ma i giudizi del Croce e del Nicolini, e degli infiniti altri che li avevano preceduti, appartengono a tempi ormai lontani. Ed anche se il Croce non ha ritrattato i suoi giudizi negativi sul Manzoni storiografo - come invece tanto lodevolmente ritrattò quelli negativi sul romanzo - la maggior parte degli studiosi di oggi non negano alla Storia della colonna infame il carattere di opera storica. Soltanto possiamo dire che, scrivendo questa storia, mentre si adoperava con tanto impegno nella ricerca della verità, il Manzoni non poteva "lasciare fuori della porta" la sua personalità, i suoi principi, i suoi sentimenti.
Così, per quel suo vivo senso della giustizia, che egli esprime in tutte le sue opere e segnatamente nel romanzo, il Manzoni non poteva assistere indifferente alla lunga serie di ingiustizie e di illegalità che si perpetrarono contro il povero commissario e lo sventurato barbiere. E fin dall'introduzione parla di un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, di un atroce giudizio, di un'orrenda vittoria dell'errore contro la verità, del furore potente contro l'innocenza disarmata.
Queste ultime parole ci portano a ricordare un altro atteggiamento costante del Manzoni: la sua simpatia per gli umili, per i perseguitati, per gli oppressi. Ed è così anche qui. Egli, fin dall'inizio della drammatica vicenda, è idealmente al fianco del Piazza e del Mora. Ne segue momento per momento l'inarrestabile cammino verso la fine orrenda; li chiama compassionevolmente meschini, poveretti, infelicissimi, sventurati; li presenta alla fine come vittime e martiri, assassinati dall'iniquità dei giudici.
Ancora sappiamo della scarsa fiducia del Manzoni nella giustizia umana. Nel romanzo questa cosiddetta giustizia si incarna nell'indimenticabile figura del dottor Azzeccagarbugli, che accoglie affabilmente Renzo quando lo scambia per un ribaldo e lo scaccia invece infuriato quando scopre che si tratta di un poveraccio, vittima di un sopruso. È la stessa giustizia che, a Milano, si accanisce contro l'ingenuo e innocuo montanaro e, senza l'intervento provvidenziale della folla, lo porterebbe all'impiccagione, mentre lascia che prepotenti signorotti e i loro bravi compiano ogni sorta di violenze. Questo pessimismo manzoniano trova la sua più completa ed appassionata espressione qui, in questa Storia della colonna infame, in cui il Manzoni non tralascia occasione per sottolineare e commentare amaramente la iniqua condotta dei giudici milanesi nel processo contro il Piazza e il Mora, le loro basse frodi, le loro violazioni della legge, i loro continui sforzi d'ingegno per respingere la verità che ricompariva ogni momento, il loro comportamento sfrontatamente bugiardo, e infine l'orrendo assassinio da loro commesso.
Non possiamo infine dimenticare che il Manzoni, anche per la sua formazione illuministica, assegna come funzione essenziale allo scrittore quella di insegnare, di dare ammaestramenti. Lo scriveva già appena ventenne, indicando tra i fini primari di un vero scrittore il diffondere delle utili verità, purgare le passioni e muoverle al bene, ingentilire i costumi... giovare insomma. (Lettera ad Andrea Mustoxidi, 11 febbraio 1805). A questa linea programmatica il Manzoni si attenne sempre, dagli Inni Sacri ai Promessi sposi ed oltre. E la segue anche qui, commentando, giudicando, cercando di trarre dai fatti contingenti insegnamenti universalmente validi.
Tutto questo non piacque nè poteva piacere a certi critici, ma il Manzoni era fatto così e non avrebbe potuto scrivere una Storia diversa senza venir meno ai suoi principi.


Opera storica dunque questa della Colonna infame, opera storica ma col suggello evidente di uno dei più grandi scrittori della nostra letteratura. Ed è stata una felice intuizione quella degli Amministratori del Comune di Giussano, che hanno voluto ricordare il secondo centenario della nascita di Alessandro Manzoni facendo ristampare la Storia della colonna infame soprattutto per farla conoscere ai giovanissimi studenti. I quali la potranno intendere ed apprezzare ancor meglio grazie ai disegni di Giorgio Scarpati. Questo pittore, che ormai da decenni dedica gran parte della sua intensa e geniale attività a interpretare le opere di grandi autori ed a tradurre in segni ed immagini e colori le loro pagine immortali - si pensi, per citare solo qualche titolo, alle sue interpretazioni della Divina Commedia e dei Promessi sposi - anche di fronte alla Storia della colonna infame è stato all'altezza delle sue migliori creazioni. Come già trenta e più anni fa davanti ai cento canti di Dante, così ora Scarpati ha letto con intelligenza e passione le pagine di questa drammatica Storia, ha condiviso i sentimenti di orrore, di compassione, di umana e cristiana pietà che il Manzoni esprime per quegli sventurati, e da questi suoi sentimenti - profondi, sofferti, presenti con estrema chiarezza alla sua mente di artista - ha tratto le immagini che illustrano e impreziosiscono questa eccezionale edizione della Colonna infame.
Mi pare che l'intensità del sentimento e la efficacia di un'arte affinata dall'esperienza e dalla lunga consuetudine coi Maggiori, trovino la loro più alta espressione nella tavola della tortura - vigorosa, sentita, sconvolgente -, in quella che presenta - soli, indifesi, vittime designate - i volti scavati e muti del Mora e del Piazza, ed ancor più in quella del povero Mora che, tentando di commuovere i giudici, si butta in ginocchio e recita una preghiera: si osservi la forza di quelle mani, che a quel Crocifisso sembra vogliano strappare un miracolo, e il contrasto tra lo sventurato in primo piano, scosso da tremiti disperati, e i giudici, fermi, impassibili, già fissi nel loro disegno orrendo.
Ma tutte queste tavole sono suggestive ed espressive al massimo, da quelle ancora legate al racconto manzoniano della carestia e della peste a quelle che, a partire dalla figura del Commissario con cui si apre il capitolo primo, seguono ed interpretano e commentano i drammatici sviluppi della Storia. E mentre accendono o accrescono nei lettori il desiderio di leggere e di capire quest'opera manzoniana, offrono ulteriore testimonianza di una vocazione non tradita mai e della appassionata dedizione ad un'arte coltivata per tutta la vita.

 

Edilio Marelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CIRCOLO CULTURALE "DON RINALDO BERETTA" - ROBBIANO DI GIUSSANO (MI)