AL LETTORE
E' con questo
spirito che ci avviciniamo ai Promessi Sposi: essi ci permettono
una lettura piana di quel grande romanzo che merita di essere
riletto come un'opera fondamentale per la conoscenza del costume
di un'epoca e per l'apprendimento di un genere letterario che
forse capovolse la narrativa del nostro stile letterario.
Anche qui osserviamo una sensibilità tutta di Scarpati che giova
al lettore per penetrare tutta la vicenda: le figure stupende, e
ne cito solo due, dei monatti e la madre che consegna loro la
propria bambina morta di peste "scendeva dalla soglia" sono
quadri che non si dimenticano facilmente.
L'occasione di poter usufruire delle tavole in esposizione è un
privilegio da non perdere perchè , per noi, difficilmente si
ripeterà facendo parte di una collezione privata a cui va il
merito del prestito.
Alla fine del capitolo XXXII dei Promessi sposi il Manzoni, dopo
aver a lungo parlato di untori, dice che di un processo contro
alcuni di essi vale la pena che egli tratti a parte, in un nuovo
lavoro: sia per l'importanza di quel processo, sia perchè non è
cosa da uscirne in poche parole, e il lettore, tutto preso da
questa nuova vicenda, potrebbe - scrive sempre il Manzoni - non
curarsi più di conoscere ciò che rimane del ... racconto. Con
parole più o meno simili, l'autore rinviava il lettore ad una
successiva storia non soltanto nel Fermo e Lucia (la prima
redazione non pubblicata del romanzo), ma anche nella prima
edizione del 1827.
Di che si trattava? Accingendosi a narrare nel romanzo i casi
della pestilenza del 1630, il Manzoni non si era limitato a
consultare gli scritti di cronisti e storici del Seicento e del
Settecento, ma aveva voluto studiare il maggior numero di
testimonianze dirette. Si era così imbattuto in verbali o
estratti di verbali di un clamoroso processo, quello appunto che
egli ha ricostruito, con tanta ricchezza di particolari e tanto
evidente partecipazione, in questa Storia della colonna infame.
Siamo a Milano, nel pieno della peste del 1630. Un Commissario
della Sanità, tale Guglielmo Piazza, viene sorpreso da due donne
mentre, secondo loro, sta ungendo un muro. Tanto basta perchè il
malcapitato sia tradotto davanti ai giudici. Si viveva allora
nel terrore che alcuni criminali, forse per un patto stretto col
demonio, si adoperassero, con polveri o unguenti, a diffondere
la peste per la città. L'aspettativa generale era che qualcuno
di questi untori venisse esemplarmente punito.
I giudici milanesi, che, come osserva il Manzoni, non cercavano
una verità, ma volevano una confessione, ricorsero a tutti i
mezzi, non esclusa la tortura, per ottenere questa confessione.
Il Piazza resistette agli interrogatori più stressanti, non
cedette a nessuna delle astuzie cui i giudici ricorsero;
sottoposto alla tortura una prima e una seconda volta, continuò
tenacemente a negare ogni addebito. Allora gli fu promessa
l'impunità se avesse ammesso la propria colpevolezza. Il
poveretto si lasciò piegare dalla speranza, cominciò a parlare,
dovette, per coerenza, fare anche un nome, quello di chi gli
aveva consegnato l'unguento da spargere. E la vittima designata
fu un innocente barbiere, Giangiacomo Mora.
A quei tempi, com'è noto, i barbieri facevano anche della bassa
chirurgia (praticavano salassi, strappavano denti, curavano
ferite) e spacciavano pomate ed unguenti vari. Non fu dunque
difficile agli sbirri, immediatamente spediti alla casa del
Mora, scoprire vasi, vasetti, ampolle; di più c'era in cortile
una grossa caldaia di rame con gli avanzi sudici di un bucato di
qualche giorno prima: più che sufficiente per arrestare lui e
suo figliolo che era lì con lui.
Il Mora viene interrogato. Il Piazza viene nuovamente sottoposto
alla tortura, blanda questa volta, perchè si possa dire che,
anche torturato, non ha ritrattato nessuna delle accuse mosse al
povero Mora: e, come volevano i giudici, l'accusatore conferma
tutto, particolarmente la faccenda del vasetto avuto dal Mora
per ungere i muri della città. Dal canto suo il Mora ammette di
aver consegnato il vasetto, ma precisa che conteneva un rimedio
contro la peste. Quando però intuisce che stanno coinvolgendolo
in qualcosa di spaventoso, allora nega, nega con tutte le sue
forze; ma torturato una prima e una seconda volta, crolla e
mormora stremato: "Mi dica Vostra Eccellenza quello che vuole
che io dica: lo dirò!" Ed arriva ad accusarsi di un delitto
orribile che non aveva commesso, e inventa successivamente dei
particolari raccapriccianti, che possano rendere più credibile
la sua confessione.
Il giorno dopo ritratta tutto. Ripete più volte, anche dopo aver
recitato una preghiera, che non è vero niente di quello che gli
hanno fatto dire con 1 tormenti. Condotto subito nella stanza
della tortura e legato, l'infelice, sopraffatto dal terrore, si
dice pronto a confermare la confessione del giorno prima;
slegato, nega ancora tutto; posto di nuovo alla tortura, ripete
quella confessione che i giudici volevano, confermandone i
particolari. Tutto quello che egli dice - osserva il Manzoni - è
inverosimile, ma ai giudici importa soltanto di convincere il
Mora della sua grave colpa.
Il Senato milanese conferma le decisioni dei giudici, ordina un
altro interrogatorio del Mora e del Piazza, perchè forniscano
nomi di mandanti e complici. Al Piazza i giudici dicono che, non
avendo egli detto tutta la verità, non potrà beneficiare
dell'impunità promessa: lo sventurato, per ricuperare la sua
unica speranza, va alla disperata ricerca di altri particolari,
così come altri ne aggiunge il povero Mora. Tutto inutile.
Vengono comunicati ai due gli atti del processo e dati due
giorni per la rituale difesa. Dei due difensori d'ufficio,
quello del Mora si scusa e rifiuta l'incarico; quello del Piazza
chiede qualche giorno per leggere gli atti. Il Piazza approfitta
del rinvio per tentare una via di salvezza: accusa di complicità
un ufficiale spagnolo, figlio del comandante del Castello di
Milano. L'ufficiale viene arrestato, ma il processo contro i due
malcapitati continua autonomamente, tra nuovi interrogatori e
nuove torture, fino alla sua fatale conclusione.
L'infernale sentenza - come la definisce il Manzoni - merita di
essere trascritta per esteso. Decretava che i due condannati
messi su un carro, fossero condotti al luogo del supplizio;
tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la
mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con
la ruota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo
sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel
fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta
una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di
rifabbricare in quel luogo.
Così,
con quella mostruosa sentenza, si concludeva la pietosa e
tremenda vicenda dei due sventurati, e col testo della sentenza
vogliamo concludere questa esposizione della Storia della
colonna infame. La Storia, per la verità, continua ancora:
racconta le ultime ore dei due condannati; riferisce di altri
processi collegati a quello del Mora e del Piazza; ci dice che
la colonna infame fu atterrata nel 1778 e che nel 1803 su
quell'area proibita fu costruita una casa; termina con una
rassegna degli scritti, che, da varie angolazioni, narrarono la
storia di quell'infame processo. Forse anche questo séguito, al
quale il Manzoni dedica non poche pagine, meritava
un'esposizione meno sbrigativa. Ma ci sembra che, dopo aver dato
una notizia abbastanza ampia dei fatti essenziali, sia opportuno
aggiungere, specialmente per i più giovani lettori, qualche
giudizio orientativo.
E, per cominciare, è opera storica questo scritto che il Manzoni
volle come appendice ai Promessi Sposi?
La polemica attorno a questo punto ebbe inizio appena la Storia
fu pubblicata, nel 1842. La riassunse Benedetto Croce nel suo
saggio sul Manzoni storiografo, in cui, mettendosi dalla parte
di tutti quelli che si erano espressi negativamente sulla
validità della Colonna infame come opera storica, scriveva che
nel Manzoni l'interesse morale ha soverchiato l'interesse
storico ... sviandone il giudizio e che l'autore della Colonna
infame non è ingegno storicamente conformato. Da buon discepolo
del Croce, Fausto Nicolini si impegnò in una lunga e minuziosa
analisi per provare quanto si fosse ingannato il Manzoni nello
studiare peste ed untori e come egli non faccia opera di
storico.
Ma i giudizi del Croce e del Nicolini, e degli infiniti altri
che li avevano preceduti, appartengono a tempi ormai lontani. Ed
anche se il Croce non ha ritrattato i suoi giudizi negativi sul
Manzoni storiografo - come invece tanto lodevolmente ritrattò
quelli negativi sul romanzo - la maggior parte degli studiosi di
oggi non negano alla Storia della colonna infame il carattere di
opera storica. Soltanto possiamo dire che, scrivendo questa
storia, mentre si adoperava con tanto impegno nella ricerca
della verità, il Manzoni non poteva "lasciare fuori della porta"
la sua personalità, i suoi principi, i suoi sentimenti.
Così, per quel suo vivo senso della giustizia, che egli esprime
in tutte le sue opere e segnatamente nel romanzo, il Manzoni non
poteva assistere indifferente alla lunga serie di ingiustizie e
di illegalità che si perpetrarono contro il povero commissario e
lo sventurato barbiere. E fin dall'introduzione parla di un gran
male fatto senza ragione da uomini a uomini, di un atroce
giudizio, di un'orrenda vittoria dell'errore contro la verità,
del furore potente contro l'innocenza disarmata.
Queste ultime parole ci portano a ricordare un altro
atteggiamento costante del Manzoni: la sua simpatia per gli
umili, per i perseguitati, per gli oppressi. Ed è così anche
qui. Egli, fin dall'inizio della drammatica vicenda, è
idealmente al fianco del Piazza e del Mora. Ne segue momento per
momento l'inarrestabile cammino verso la fine orrenda; li chiama
compassionevolmente meschini, poveretti, infelicissimi,
sventurati; li presenta alla fine come vittime e martiri,
assassinati dall'iniquità dei giudici.
Ancora sappiamo della scarsa fiducia del Manzoni nella giustizia
umana. Nel romanzo questa cosiddetta giustizia si incarna
nell'indimenticabile figura del dottor Azzeccagarbugli, che
accoglie affabilmente Renzo quando lo scambia per un ribaldo e
lo scaccia invece infuriato quando scopre che si tratta di un
poveraccio, vittima di un sopruso. È la stessa giustizia che, a
Milano, si accanisce contro l'ingenuo e innocuo montanaro e,
senza l'intervento provvidenziale della folla, lo porterebbe
all'impiccagione, mentre lascia che prepotenti signorotti e i
loro bravi compiano ogni sorta di violenze. Questo pessimismo
manzoniano trova la sua più completa ed appassionata espressione
qui, in questa Storia della colonna infame, in cui il Manzoni
non tralascia occasione per sottolineare e commentare amaramente
la iniqua condotta dei giudici milanesi nel processo contro il
Piazza e il Mora, le loro basse frodi, le loro violazioni della
legge, i loro continui sforzi d'ingegno per respingere la verità
che ricompariva ogni momento, il loro comportamento
sfrontatamente bugiardo, e infine l'orrendo assassinio da loro
commesso.
Non possiamo infine dimenticare che il Manzoni, anche per la sua
formazione illuministica, assegna come funzione essenziale allo
scrittore quella di insegnare, di dare ammaestramenti. Lo
scriveva già appena ventenne, indicando tra i fini primari di un
vero scrittore il diffondere delle utili verità, purgare le
passioni e muoverle al bene, ingentilire i costumi... giovare
insomma. (Lettera ad Andrea Mustoxidi, 11 febbraio 1805). A
questa linea programmatica il Manzoni si attenne sempre, dagli
Inni Sacri ai Promessi sposi ed oltre. E la segue anche qui,
commentando, giudicando, cercando di trarre dai fatti
contingenti insegnamenti universalmente validi.
Tutto questo non piacque nè poteva piacere a certi critici, ma
il Manzoni era fatto così e non avrebbe potuto scrivere una
Storia diversa senza venir meno ai suoi principi.
Opera storica dunque questa della Colonna infame, opera storica
ma col suggello evidente di uno dei più grandi scrittori della
nostra letteratura. Ed è stata una felice intuizione quella
degli Amministratori del Comune di Giussano, che hanno voluto
ricordare il secondo centenario della nascita di Alessandro
Manzoni facendo ristampare la Storia della colonna infame
soprattutto per farla conoscere ai giovanissimi studenti. I
quali la potranno intendere ed apprezzare ancor meglio grazie ai
disegni di Giorgio Scarpati. Questo pittore, che ormai da
decenni dedica gran parte della sua intensa e geniale attività a
interpretare le opere di grandi autori ed a tradurre in segni ed
immagini e colori le loro pagine immortali - si pensi, per
citare solo qualche titolo, alle sue interpretazioni della
Divina Commedia e dei Promessi sposi - anche di fronte alla
Storia della colonna infame è stato all'altezza delle sue
migliori creazioni. Come già trenta e più anni fa davanti ai
cento canti di Dante, così ora Scarpati ha letto con
intelligenza e passione le pagine di questa drammatica Storia,
ha condiviso i sentimenti di orrore, di compassione, di umana e
cristiana pietà che il Manzoni esprime per quegli sventurati, e
da questi suoi sentimenti - profondi, sofferti, presenti con
estrema chiarezza alla sua mente di artista - ha tratto le
immagini che illustrano e impreziosiscono questa eccezionale
edizione della Colonna infame.
Mi pare che l'intensità del sentimento e la efficacia di un'arte
affinata dall'esperienza e dalla lunga consuetudine coi
Maggiori, trovino la loro più alta espressione nella tavola
della tortura - vigorosa, sentita, sconvolgente -, in quella che
presenta - soli, indifesi, vittime designate - i volti scavati e
muti del Mora e del Piazza, ed ancor più in quella del povero
Mora che, tentando di commuovere i giudici, si butta in
ginocchio e recita una preghiera: si osservi la forza di quelle
mani, che a quel Crocifisso sembra vogliano strappare un
miracolo, e il contrasto tra lo sventurato in primo piano,
scosso da tremiti disperati, e i giudici, fermi, impassibili,
già fissi nel loro disegno orrendo.
Ma tutte queste tavole sono suggestive ed espressive al massimo,
da quelle ancora legate al racconto manzoniano della carestia e
della peste a quelle che, a partire dalla figura del Commissario
con cui si apre il capitolo primo, seguono ed interpretano e
commentano i drammatici sviluppi della Storia. E mentre
accendono o accrescono nei lettori il desiderio di leggere e di
capire quest'opera manzoniana, offrono ulteriore testimonianza
di una vocazione non tradita mai e della appassionata dedizione
ad un'arte coltivata per tutta la vita.
Edilio Marelli
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