DOMODOSSOLA E GIAN GIACOMO
DE' MEDICI (1529-1531)
Gian Giacomo de' Medici, coi patti di Pioltello del 31 marzo 1528, aveva abbandonato lo Sforza ed i suoi alleati per mettersi dalla parte di Carlo V, poiché così portava il suo tornaconto. Irrequieto e audace, anelante a sempre più vasto dominio, mise gli occhi anche su Domodossola, importante per la sua posizione ai confini del ducato e perciò favorita dai Visconti e dagli Sforza di molti privilegi.
Antonio de Leyva nel dicembre di quell'anno aveva mandato il conte Lodovico Belgioioso a stringere d'assedio il borgo che l'anno prima si era dato al duca di Milano. Gian Giacomo si accordò tosto col Leyva per avere in sue mani quel luogo col suo territorio: l'accordo, come il solito, si concluse in base a denari e a vettovaglie, delle quali cose il condottiero spagnuolo era sempre a corto. Infatti il 29 gennaio 1529 Domodossola scendeva a patti con Pietro Gonzales, rappresentante del Leyva, e immediatamente dopo col capitano Pietro Maria del Mayno, in nome del castellano di Musso, si concludevano altri capitoli. Questi furono approvati e ratificati dal Medici, il quale volle inoltre che Dante Stoppa di Bellano, da lui mandato per suo commissario con residenza nel borgo, li facesse pubblicamente ratificare in nome suo al tribunale, come avvenne l'ultimo di febbraio per rogito Luigi Sesto, e che nei palazzi comunali si innalzassero le armi medicee. Il capitano Gio. Pietro del Ponte, difensore di Domodossola, passava in servizio del Medici: per la sua fedeltà e per il suo valore Gian Giacomo, con patente del 3 gennaio 1530 datata da Dongo e munita del suo sigillo formato di un'aquila e d'una palla grande in cera verde, gli assegnava cento scudi annui di Camera, cioè tolti dalle sue entrate generali, da pagarsi di tre in tre mesi dal suo tesoriere (1).
Scrive il Capis che il Medeghino vi elesse il podestà e gli officiali e compì altri atti di vero e assoluto signore. Tuttavia in fatto di governo e di avvenimenti interni poco, per non dir nulla, sappiamo. Può darsi che niente di importante accadesse; comunque gli storici nulla dicono, e d'altra parte mancano documenti d'archivio. L'unico fatto che si ricorda si è la querela che alcuni del paese promossero presso il Medici contro lo Stoppa per aver fatto traslocare in luogo meno decente le beccarie (2) e per altri motivi. Il Medeghino mandò a Domodossola Francesco Lodi con patente di suo auditore e vicegovernatore per il relativo processo: la causa dev'essere riuscita favorevole allo Stoppa, giacché continuò nel suo officio. Da notarsi, come si vedrà più avanti, che al momento della resa al duca del castello di Domodossola più non compare lo Stoppa come commissario; chi si firma come tale è lo stesso castellano. Osserva inoltre il Capis che lo Stoppa fu il primo a "far Tribunale sotto il Palazzo della Communità".
Senonché la pace conchiusa il 23 dicembre tra il papa e l'imperatore veniva a scombussolare i vasti disegni del Medeghino: lo Sforza era stato riconosciuto signore di tutte le terre del ducato. Gian Giacomo non volle riconoscere quella parte del trattato che veniva a lederlo nei suoi diritti, pronto a sostenere la guerra col duca. Per uscire da una posizione equivoca e rendersi maggiormente forte da non temere il duca e imporgli a suo tempo quei patti che a lui talentavano, pensò di togliere la Valtellina ai Grigioni. Fatti i debiti preparativi, e assicuratasi pel momento la neutralità del duca, nel marzo del 1531 aprì la guerra. I Grigioni, sconfitti sotto Morbegno, invocarono aiuto dai Cantoni Svizzeri, e ben presto il Medeghino si trovò alle prese con un nemico forte di oltre quattordici mila uomini. Quando il duca lo vide respinto non solo dalla Valtellina, ma assalito nei suoi possessi, colse l'occasione propizia: ruppe senza tanti scrupoli la tregua e si alleò coi Grigioni e cogli Svizzeri (7 maggio 1531).
Tra i primi divisamenti del duca vi fu quello di ricuperare Domodossola, la quale, per essere lontana dal teatro delle operazioni di guerra, e per trovarsi il Medeghino nell'assoluta necessità di avere riunite tutte le forze disponibili, restava quasi indifesa: nel castello di Matarella vi era castellano Giovanni Stefano Cavagna, cugino del Medici, con tre soli fanti, e in quello del borgo Giovanni Battista Baroni di Melzo con diciannove soldati. Il 14 maggio dava pertanto incarico a Francesco Crivelli di condurre le relative pratiche. "Ultra quanto (si dice nella patente) vi habbiamo dato in comisione da exequire in quelle parte del laco Maggiore (3), essendo anchora da ridurre alla obedientia nostra la terra di Dondossula con il Castello et Iurisditione sua, ce parso dare a vui speciale comissione di transferirvi a dicto loco, et mandando ad essi huomini prima un nostro trombetta, quale mandiamo da vui, volemo che facciate per dicto trombetta richiedere essi homini ad venire alla obedienza nostra, et con le credentiale direttive ad essi homini in persona vostra gli parlarete con quelle parole vi pareranno expediente perché siano contenti senza fare altra difficultà né exceptione fare il giuramento dela fidelità in mane vostre, dandovi per le presente auctorità di poter ricevere ditto giuramento a nostro nome da essi homini quale volemo sia si valido come se fusse fatto davante a nui. Gli sarà poi anchora una altra lettera credentiale al Castellano seu guardiano del Castello de ditto loco di Dondossula al quale volemo che facciate fare la medesima richiesta per ditto trombetta, et secundo la risposta harete et vi parerà meglio potrete presentarli ditta nostra credentiale, et parlarli di quella maniera iudicarete più conveniente per indurlo a restituire ditta fortezza in mano vostra. Dandovi auctorità di fare quelli Capituli et conventione vi parerano conveniente per la securezza sua et de quelli saranno con lui, et così delle robbe loro, le quali conventione et capituli ex nunc declaramo che siano si valide come se fussero fatte per mi proprij, et così havendo ditta terra et castello ne darete aviso perché deputaremo il Com.io et Castellano secundo il bisogno" (4). Il Crivelli si mise tosto all'opera. Due giorni dopo da Arona rispondeva al duca di essersi messo d'accordo col conte Giberto Borromeo, il quale da fedele suddito aveva promesso di favorire il vettovagliamento agli Svizzeri e di impedirlo al Medici. Il 17 si portò a Vogogna, dove giunse sul far della sera, presso il conte Giovanni Borromeo al quale consegnò una ducale perché coadiuvasse la buona riuscita dell'impresa. Tra i Borromei ed il Medeghino non correva più buon sangue dopo che questi aveva tentato di occupare a tradimento Arona (5). I Borromei erano feudatari dell'Ossola inferiore, e in quelle parti avevano molta influenza: sembra tuttavia che avessero delle aspirazioni anche su Domodossola e il suo contado, poiché il Medici, nelle trattative di quell'anno per un accordo col duca, desiderava che rilasciando quel luogo si avesse a confermarne i privilegi e a non cederlo ad alcuno di casa Borromeo.
La mattina seguente mandò il trombetta a richiedere Domodossola e tutta la sua giurisdizione in nome del duca. Il messo fu bene accolto da borghigiani, e ritornò (scriveva il Crivelli) "con risposta de quelli homini che per essere la sua iurisditione molto grande che non si possano convocare se non in qualche termino, però che farano uno consiglio generale fra la terra et tutta sua iurisditione et che domenicha ale vinte hore venirano da me qui in Ugonia resolti di quanto haverano a fare". Dubitava nondimeno di non avere così presto i due castelli; in ogni modo, soggiungeva, appena ricevuto il giuramento di fedeltà dalla popolazione, non avrebbe mancato di assediarli colle forze di tutto il paese.
Gli uomini del borgo e del territorio, tenuto il consiglio generale, mandarono il 22 maggio due di loro al Crivelli coll'incarico di farsi mostrare le credenziali e di avere un dato termine onde spedire un messo al Medici per ottenere la licenza di prestare il richiesto giuramento. Il commissario ducale non ebbe difficoltà a mostrare e a consegnar loro le credenziali in riguardo, ma non volle concedere alcun termine di tempo, avvisandoli che se non si risolvevano immediatamente avrebbe mandato truppe con artiglieria, e che tutte le relative spese di guerra sarebbero state a loro carico. Erano minacce pel momento senza valore: il duca impegnato a fondo contro il Medeghino verso Monguzzo e il lago di Como non poteva certo, almeno tanto presto, pensare a spedizioni contro Domodossola. Il Crivelli fece la voce grossa, perché tra lui e i primari del luogo, particolarmente coi del Ponte, correvano già segreti rapporti d'intesa. Ritornarono adunque i due nunzi a Domodossola colla promessa che nella sera stessa sarebbero ritornati colla definitiva risoluzione, e con essi il commissario mandò il trombetta perché presentasse al Baroni, del quale contro ogni sua aspettativa seppe ch'era disposto a seguire quella risoluzione che sarebbe stata presa dalla popolazione, la relativa credenziale invitandolo ad un accordo per la resa del castello.
La sera di quello stesso giorno giunsero le risposte. Il Baroni, per mezzo di un suo fante, mandò a dire di essere ben contento di consegnare tutti e due i castelli purché fosse salvo l'onore, e a questo scopo gli fosse concesso un dato tempo per mandarne preavviso al Medici. Gli abitanti mandarono invece venticinque dei loro, i quali, prima di cedere, vollero naturalmente discutere. "Li ditti homini di Dondossola (informava il Crivelli) mi hano instato che io volesse scrivere a quella (cioè al duca) et pregarla in nome lori che li voglia mandare officiali che sieno homini da bene et neutrali ne li paexi si di castellano chome anchora de comiss.io. Io ho promesso a ditti homini che vostra ex.a li confirmarà li privilegij quali altre volte li sono stati concessi per vostra ex.a, et cossì fatto che haverano il giuramento di fedelità ne venirà tre o quatro di loro insiema con el trombetta di vostra ex.a per la confirmatione de ditti privilegij quale suplico quella a farli expedire". Lo Sforza confermò infatti agli ossolani i loro privilegi, ma a cose ben accomodate, e cioè all'8 di luglio.
La mattina del 24 il commissario ducale coi venticinque uomini, che nella notte erano rimasti presso di lui, entrava in Domodossola. La sua prima cura fu di abboccarsi col castellano e di attendere seco lui alla compilazione dei capitoli di arresa. Le trattative furono alquanto laboriose, giacché, tra le altre condizioni, il castellano e i suoi fanti pretendevano di essere soddisfatti della paga che da tre mesi non ricevevano dal Medici: il Crivelli, conoscendo la penuria di denaro nella quale versava il duca, tenne duro e si accontentò di provvederli di quanto era necessario per il loro viaggio fino a Milano. Due giorni dopo i capitoli venivano sottoscritti dalle parti. Il Baroni, che si firmò non solo castellano, ma altresì commissario, riceveva un termine di otto giorni per mandare a far le sue proteste al Medici, coll'obbligo che non ricevendo in detto tempo un aiuto superiore ai cento fanti, i quali però non fossero di Domodossola e delle sue vallate, egli avrebbe restituito il castello alle sottoscritte condizioni: a garanzia rilasciava in ostaggio un suo nipote. Si impegnava d'altra parte il Crivelli a riconoscere al castellano e ai fanti suoi il diritto di poter trasportare le cose loro, ed inoltre a procurare loro la grazia tosto che usciranno dal castello, come infatti il duca rilasciava il 28 una patente che li liberava "da ogni pena, macula et colpa ", così reale che personale, nella quale potevano essere incorsi, e li restituiva nella loro pristina fama, onori, beni e ragioni, salvi però i diritti dei terzi da far valere soltanto in via civile. Si redasse quindi l'inventario delle munizioni, delle quali ce n'era in abbondanza "et maxime di polvere, piombo, balote et corde, et anchora qualche pocho de vittualie".
Mentre il commissario era tutto intento a condurre nel miglior modo l'impresa che aveva alle mani, eccogli arrivare delle osservazioni da parte del duca per aver egli aggravato di una nuova tassa la pieve d'Angera. Si difese con lettera del 27 col dire di avere ciò fatto, non di suo capriccio, ma d'intesa coi magistrati camerali, ricordandogli ch'egli viveva su "l'ostaria" e che per il viver suo, servitori, e cavalli ci volevano non meno di tre scudi al giorno.
Tutto sembrava appianato, quando il castellano di Matarella non volle starci ai patti combinati dal suo collega. Il Crivelli gli mandò il trombetta per indurlo a migliori consigli, ma questi rispose bravando che non intendeva accettare condizioni di sorta prima del ritorno di Gio. Ambrogio Mauri di Pusiano, il quale era stato dal Baroni mandato al Medeghino per una risposta in merito alla situazione. Il commissario gli rimandò il trombetta con una lettera nella quale gli si intimava che se non si arrendeva, accettando i capitoli, gli avrebbe mosso guerra e non sarebbe uscito se non per essere impiccato lui e i suoi. "Però (gli scriveva) considerati bene il caso vostro, et per il presente trombeta me dareti risposta ad ciò sappia che fare, et non vi extimo uno fello perché so che guerra posseti fare con doy fanti quali teneti lì in quella bichocha". Ma la risposta fu ancora negativa. Il castellano di Matarella si impuntava a fare il testardo, forse più che per altro, per non avere avuto dal Crivelli quella considerazione ch'ebbe invece il suo collega. Il commissario, ricevuto il 27 dagli uomini di Domodossola e delle sue vallate il giuramento di fedeltà in forma solenne, emanò una grida contro il Cavagna. Questi, visto che le cose si facevano serie ed ogni resistenza era vana se non impossibile, scrisse domandando perdono, e il Crivelli glielo concesse in considerazione della sua giovane età e per deferenza verso i gentiluomini del paese che si erano intromessi per lui, ma non volle fare nuovi capitoli; gli diede venti scudi, quindi lo fece uscire co' suoi e condurre a Como dando incarico al Vistarini di farlo condurre a Lecco. La rocca di Matarella si trovava in condizioni deplorevoli. Pertanto con lettera del 28 il commissario, dopo aver raccomandato al duca di far buona accoglienza a Gio. Pietro del Ponte, cugino di Benedetto, che se ne veniva a Milano "per alchune sue fazende", giacché erano "de li primati di questo paexe et più svixerati servitori che quella habia in queste bande et hano perso assay per li tempi passati sollo per mantenire il nome di vostra ex.a" (6), osservava esser necessario che "vostra ex.a faza fortificare melio ditto castello di Matarella overo di farlo in tutto ruinare perché cossì non sta bene" e nel quale per intanto aveva messo un suo fidato con tre uomini del luogo.
Mentre si aspettava lo scadere degli otto giorni concessi per l'invio del messo al Medici, il Crivelli ad impedire l'arrivo di qualsiasi soccorso diede ordine ai Borromei di fare buona guardia ai passi, e a vegliare il castello collocò fuori del borgo duecento fanti reclutati nelle vallate. Che il Medici lasciasse senza una risposta il castellano di Domodossola non era da aspettarsi. La sera dell'ultimo di maggio si seppe che, fuori un miglio del borgo, si aggirava il banderale di Michele Corso, capitano del Medeghino, con due altri compagni. Il Crivelli li fece inseguire, ma inutilmente, e sospettando qualche trama ordinò immediatamente una retata di villani dei dintorni. La minaccia di gravi castighi fece sì che uno confessasse di aver portato da bere a quei tre e di avere ricevuto lettere da consegnare al castellano, lettere che aveva nascoste sotto un sasso. Il commissario mandò a prenderle e subito le spedì al duca, osservandogli come fosse stato provvidenziale l'aver già occupato la rocca di Matarella, perché se quei tre vi fossero entrati a tempo si sarebbe dovuto faticar molto a cavarli fuori, e nemmeno si sarebbe ottenuto così presto il giuramento di fedeltà dagli abitanti "che per essere lori gente cervicosa et li fusse capitato queste lettere per certo li saria statto da fare assay". Lo ragguagliava inoltre di aver incaricato "per modum provixionis" messer Bartolomeo podestà di Vogogna, fratello di Francesco Pegio dottore, a sedere alla banca per far ragione agli uomini del borgo e suo territorio fino all'arrivo del nuovo commissario.
Il 3 giugno il Baroni usciva co' suoi dal castello e vi entravano dieci fanti ducali, consegnando al Crivelli le munizioni ed ogni altra cosa, e ricevendo per sé e suoi soldati cinquanta scudi che il Crivelli, come già gli altri venti dati al Cavagna, aveva presi a prestito da tre mercanti del borgo dietro garanzie di due gentiluomini. Senonché il castellano, mentre era sulle mosse per Milano, fu derubato di centocinquanta scudi. Lo Sforza, con lettera del 10 giugno, ingiunse al commissario di rintracciare il denaro e di farglielo restituire, castigando i delinquenti, e di farlo accompagnare sino in luogo sicuro.
Premeva al Crivelli di soddisfare i mercanti e messer Benedetto del Ponte: perciò il 12 pregava il duca di fargli avere i settanta scudi pagati ai castellani, più altri ventiquattro per una mezza paga data agli uomini ch'egli aveva posti nei due castelli, e a questo scopo domandava di poter vendere una parte delle cinquantacinque brente di vino che c'erano nei sopradetti castelli. Soggiungeva quindi che Benedetto del Ponte, a mezzo suo, lo ringraziava per la ottenuta "notaria de la bancha di questa terra", e che era giunto un tal "Tognono Bombardero" di Domodossola fuggito da Musso, domandando di essere compreso nella grazia fatta al passato castellano, ciò che gli concesse. Il Tognono ebbe ad informare che il Medici, oltre ad avere in Musso poca artiglieria, non teneva sul lago che otto piccole barche e non troppo bene armate, e che da otto giorni da Musso aveva trasportato a Lecco il suo tesoro di centomila scudi parte in "ducati larghi et il resto argienti". E' noto invece che il Medeghino aveva sul lago una flotta potente e Musso era inespugnabile: il Tognono per meglio ingraziarsi il Crivelli informava naturalmente a modo suo. Riguardo al trasloco del tesoro a Lecco non saprei che dire; ricorderò tuttavia che il Crivelli il 16 maggio aveva già notificato al duca di aver saputo dal conte Giberto Borromeo, per cosa certa, che Angelo Medici erasi portato in Piemonte per depositarvi al sicuro una grossa somma di denaro. Il Tognono quattro giorni dopo veniva mandato a Milano a informarne personalmente chi di dovere.
A castellano di Domodossola il duca eleggeva il 14 giugno Bartolomeo Figino, il quale due giorni dopo prestava il giuramento di fedeltà. Lui morto, il 17 marzo 1535, succedeva Gio. Pietro Rusca (7). A commissario vi mandò un Melchiorre Marsio, già avanzato in età e malaticcio, il quale morì il 29 gennaio dell'anno seguente. Il nuovo commissario eletto a succedergli giungeva a Domodossola il 7 febbraio, ma non poté essere ammesso ad esercitare l'officio suo se non il 10, essendosi dovuto prima convocare la Credenza generale (8).
Dei castellani di Matarella non ho trovato alcuna nomina, e per quanto il Crivelli con lettera del 12 giugno rispondesse al duca di aver inteso come si fosse provvisto "de duij castell.ni per questi castelli et uno comiss.io per la terra", tuttavia ritengo che in realtà non se ne elessero né allora né mai. La rocca stessa non fu mai riparata. Il Figino infatti con lettera al duca del 7 ottobre 1531, dopo averlo informato che da Domodossola erano partiti trecento fanti contro certi cantoni svizzeri luterani, scriveva come fino allora nessuna riparazione era stata fatta ai due castelli così che tutto andava in ruina, per cui era urgente provvedere massimamente per quello di Matarella dove tutto era scoperchiato, salvo, in cima ad una torre, una piccola capanna di legno sconquassata dai venti di modo che non vi si poteva stare di guardia: il 16 gennaio dell'anno seguente ritornava ad insistere per le riparazioni (9). Il castello di Matarella era ormai ridotto in tale stato che il castellano di Domodossola, Giovanni Giacobbe Bono successo al Rusca, venne nel divisamento di farlo atterrare. Con lettera del 7 gennaio 1537 avvertiva il governatore spagnuolo di Milano, cardinal Caracciolo, di aver fatto radunare la Credenza generale e di averle proposto "per il più expediente" di farlo ruinare, o, non volendosi, di ripararlo poiché non c'erano ormai che alcune assi dove i soldati potevano a stento ripararvisi. Venendosi alla demolizione ne domandava le due porte foderate di ferro da utilizzarsi per quello di Domodossola. La Credenza aveva chiesto dieci giorni per dare una risposta. Quale ne sia stato 1'esito non ho trovato: pare che il castello, invece di atterrarlo, sia stato abbandonato al suo destino, sopravvivendo solo per la forza della sua antica tradizione come certe formule venerande nei rogiti degli antichi notai (10). E' d'altronde noto che i mutati sistemi di offesa e di difesa portarono in quegli anni all'abbandono di altri castelli nel ducato.
RINALDO BERETTA
DOCUMENTO
Al nome de Dio in Domodossula a lì XXVI di magio 1531. Capituli facti tra il Mag.co s.r Io. Franc.o Cribello Ducale Comissario et il Mag.co messer Io. Bapta di Baroni de Meltio per il castello di la terra di Domodossula tenuto per luy a nome dil castellano di Musso.
Et prima che dicto castellano di lo castello di Domodossula suprascritto habbia termino et salvoconducto de giorni otto, adciò che possa in dicto termino mandare uno messo dal castellano di Musso a fare le sue proteste et ritornare, et non havendo luy socorso in dicto tempo de victualie ne di giente, intenden.o però che le giente dil socorso passino il numero di fanti cento, soldati et stippendiati, quali non siano de la Iurisditione de Domodossula ne di sue vallate, et che lo p.to castellano passato dicto termino de otto giorni non havendo effectualmente dicto socorso sia obligato et ex nunc promette restituire senza altra exceptione lo sopradicto castello in mane dil p.to S.r Comissario ducale, o vero a quello castellano quale serà deputato per lo Ill.mo et Ex.mo S.re Duca di Milano.
Ittem che lo p.to Castellano sia obligato et così promette di lassare tutte quelle munitione et victualie et artigliaria che di presente se ritrova havere in dicto castello.
Ittem che lo p.to Castellano restituendo dicto castello como di sopra sia libero et francho così de la sua persona quanto de soy beni et robe et che fosseno applicati ala ducal camera, che li siano restituiti subito doppo la dicta restitutione de dicto castello como di sopra, et similmente tutti quelli fanti quali di presente se ritrovano al servitio de dicto castello, etiam che fosseno banditi dal stato dil p.to Ill.mo et Ex.mo S.re Duca di Milano. Intenden.o di non preiudicare ala raxone dil tertio, talmente però che non se possa procedere contro di loro nisi civilmente et non criminalmente, li quali castellano et fanti serano qui infrascripti.
Ittem che lo p.to Castellano sia obligato a dare li debiti obstagij per la segureza de la restitutione de dicto Castello.
Ittem che facta per il p.to messer Io. Baptista Castellano la restitutione de dicto castello de la terra, chel fiolo suo qual è detento nel castello de Milano sia subito rellassato.
Ittem che lo dicto Castellano et soy fanti possino portare libere et securamente tutte le sue robbe et arme fora delo castello dove a loro parirà.
Ittem che lo p.to Castellano possa disponere de tutte quelle victualie, cibarie quale ha di presente nel castello, et che ne farà fede haverle comprate de soy dinari proprij.
Ittem che lo p.to Castellano possa exeguire et schodere tutti li soy crediti quali ha di havere ne la terra di Domodossula et sua Iurisditione et Valle di Antighorio, et che li sia facto raxone summaria.
Ittem chel p.to sig.r Comissario sia tenuto in termino de ditti giorni octo far havere la gratia expedita de lo castellano et fanti et loro beni avanti che loro uscischano del dicto castello.
Li nomi de li quali fanti sono comprehensi in li suprascripti Capituli sono li Infrascripti videlicet:
P.o mes.r Ioh. Bapta di Baroni da Meltio castellano suprascripto.
Alberto di Baroni da Meltio.
Augustino di Baroni da Meltio.
Honofrio di Baroni da Meltio.
Hieronymo dicto el Moreto da Meltio.
Bertolomeo Foliano da Meltio.
Bernardo da Meltio.
Iohanne da Cabiate da Pozolo.
Heronymo de Angiera da Pozolo.
Tognono Caldiraro.
Paxino de Menaxio.
Thomaxio da la Porta.
Iacobo da Velzo.
Sfirio Spadero.
Zaneto di Pontemalio.
Ioh. Ambrosio di Maveri da Puxiano.
Ioh. Iacobo Pelino.
Ambrosio Zurlono da la Cassina del Pero.
Pietro Foliano da Meltio.
Aluysio da Settà.
Io: Io. Franc.o Cribello Ducal com.o chome apare per mie patente afirmo acepto et prometto di observare et fare observare da lo Ill.mo et Ex.mo sig.re Duca di Milano quanto ne li soprascripti capituli se contene et in fede ho sottoscripto de mia propria mane questo dì 26 di magio MDXXXI.
Idem Io. FRANC.0 CRIBELLO manu propria.
Io: Io. Batta di Baroni da Melzo Castellano di Domodossula et Comissario afirmo acepto et prometo di observare quanto ne li suprascripti capituli se contene et in fede di questo ho sottoscrito de mia propria mane al dì suprascripto.
Idem BATTA BARONUS castelanus et Comissario subscripsi.
Io Petro Maria del Mayno son stà presente ali suprascripti capituli et de volontà de li soprascripti ho sottoscripto de mia propria mane a dì suprascripto.
[Articolo apparso sulla rivista: Archivio Storico Lombardo, XLII (1915/4), pp. 669-680.]