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Il convento di Verano Brianza (1590- 1810)

Fonti per la storia di questo convento sono: una cartella del Fondo Religione Conventi dell’Archivio di Stato; i volumi delle Visite Pastorali della Pieve di Agliate dell’Archivio della Curia Arcivescovile; e una Cronachetta del convento il cui originale si trova nell’archivio provinciale dei padri cappuccini di Milano. L’archivio parrocchiale di Verano ne conserva una copia. La cronaca ebbe probabilmente inizio intorno al 1610 per comando del padre Generale, il quale impose che ciascun convento tenesse il suo particolare libro cronicale delle cose più notabili.


1.

Premessa: Verano nella seconda metà del secolo XVI. Verano è oggi un paese fiorente di industrie e dotato di tutti quei servizi e provvidenze richieste dalle esigenze del vivere moderno, e che si avvia a superare i quattro mila abitanti.
Ben diversamente si presentava nella seconda metà del Cinquecento.
La parrocchia non raggiungeva allora le cinquecento persone. Da un censimento o stato d'anime del 1574, compilato dal curato Gio: Pietro Giussani, risulterebbe un totale di 375 anime, suddivise in 55 fuochi o famiglie relativamente numerose.
Il centro del paese agglomerava 203 persone, e 172 disperse nelle cascine: due sole persone, un uomo e una donna, raggiungevano i 70 anni, le altre erano tutte di età inferiore.
Alla cascina Caviana dimorava una sola famiglia da massaro di 17 membri; alla Morignola altra famiglia da massaro di 8 persone; a S. Giorgio una terza famiglia da massaro di 7 persone; una quarta pure da massaro di 7 membri alloggiava alla cascina degli eredi di messer Baldo Lattuada.
Nella valle del Lambro stavano 13 famiglie che esercitavano il mestiere del molinaro, più una famiglia da bracciante, un'altra da pigionante, e una terza che faceva il prestinaro. I molini erano nondimeno 11. Le 16 famiglie della valle davano un totale di 133 persone. I maggiori proprietari del paese risultavano i Sirtori, i Giussani, i Rusca, i Perego, ecc., e primo fra questi il magnifico sig. Tiberio Giussani, al quale succederà per via di eredità il magnifico sig.r Flaminio Crivelli.
Nessuna industria o commercio locale animava il paese, e forse nemmeno l'allevamento del baco da seta poiché non ne trovo cenno. C'erano solamente 13 molinari, un oste, un mercante di piazza, un calzolaio, un ciabattino, due tessitori di lino, un battilana, un ferraio, un cavallante, due prestinari (uno di questi nella valle), tre braccianti, due pigionanti, e un fattore del sig.r Tiberio Giussani. Il resto della popolazione era addetto alla coltivazione dei campi.
Si seminava e si raccoglieva frumento, segale, miglio, e legumi (fagioli, fave, ceci, lupini, ecc). Molto coltivata era la vite, la quale dava il maggior ricavo terriero in tutta la Brianza, e le piante fruttifere (noci, castani, meli, peri, ecc.).
Nella visita del card. Federico Borromeo del 15 settembre 1606 si ha che i terreni del beneficio di
Verano ( circa 170 pertiche), coltivati a mezzadria, rendevano al parroco 20 moggia tra frumento, segale, miglio e legumi, e otto brente di vino.
Similmente da un contratto di locazione novennale stipulato il 4 dicembre 1564 dal prete Francesco Prebono, titolare della cappellania dei Bazi eretta nella chiesa di S. A.mbrogio in Ca- rate, si ha che il conduttore caratese doveva consegnargli ogni anno 19 moggia di grani " buoni et nitidi " e cioè frumento, segale e miglio in parti uguali per ogni 100 pertiche, e la metà del vino che si raccoglieva, più gli appendizi ossia due paia di capponi " buoni ", 4 soldate di uova, e due paia di pollastre. Inoltre era tenuto a consegnargli ogni anno tre staia di noci " buone et cernite ", uno staia di fave " fraule ", uno staia e mezzo di " ciceri ", una mina di fagioli, e una mina di "lentigie ".
Non si parla del granoturco o formentone, perché non ancora entrato nell'uso. E' soltanto nel 1655 che, per la prima volta, trovo un colono di Verano coltivante " lupini et formentone ". Totalmente sconosciuta la patata, che comparirà molto più tardi.
Nell'alimentazione era assai usato il miglio dai non abbienti: macinato, si faceva pane (pan de mei) o pane di mistura se con aggiunta di farina di segale, oppure lo si cuoceva per minestra.
Più tardi subentrerà invece il pane giallo con farina di granoturco e la polenta, e per minestra si userà il riso.
Usate come cibo erano pure le castagne, specialmente nella Brianza collinosa.
Boschi e selve castanili non mancavano nel territorio di Verano: è noto che le sponde del Lambro, ora coperte di robinie (1), erano allora popolate di roveri e di castani. Il castagno, come pianta da frutto, era coltivato altresì anche nei campi, e talora nei contratti d'affitto vi era l'obbligo di consegnare anche una data quantità di castagne o di altra frutta (2).
Tutti buona gente erano allora i Veranesi : moralmente sani e viventi la loro fede tradizionale benché frammista a qualche superstizione per mancanza d'istruzione. D'altra parte i preti di campagna -in linea generale - non ne sapevano un gran che di più della povera gente. Tuttavia gente dal cuor largo: in parrocchia non mancava la così detta Cassa dei Poveri dove affluivano le offerte per i bisognosi. Opera pia antesignana delle future e varie opere di beneficenza in favore dei poveri.



2.

Fondazione del convento.- In Verano, alquanto fuori dell’abitato verso Carate nel luogo tuttora detto il Convento, sorgeva i quei lontani tempi una chiesina dedicata a Santa maria Pura, ossia Purificazione di Maria.
Non era consacrata , e nemmeno di antica origine poiché non vi è parola nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani della fine del secolo XIII, mentre sono ricordate la chiesa di S. Nazaro (che poi divenne la parrocchiale), di S. Faustino e Giovita, di S. Faustino e Sigismondo, di S. Giorgio e Vincenzo, di S. Tomaso apostolo: chiesine o cappellette comprovanti, se ce ne fosse bisogno, la fede dei Veranesi.
Costruita ad una sol nave, lunga circa 14 passi e larga 8 (3), con portichetto od atrio sul davanti sostenuto da due colonnette, aveva la sagrestia nel lato settentrionale, e un campaniletto con campana nel lato settentrionale. Contiguo alla chiesa una casa d’abitazione, per il sacerdote cappellano, con vasto giardino. Nel suo complesso, affermano gli Atti di Visita Pastorale di quegli anni, si presentava più della parrocchiale ben tenuta e provvista di paramenti con panche di noce, pulpito e vaso per l’acqua santa.
Oltre l’altar maggiore, su la parete meridionale al centro della chiesa vi era affrescata un’immagine della Madonna con un piccolo altare sul davanti, il tutto chiuso da una piccola cancellata in ferro. Questa immagine, ritenuta miracolosa, godeva di particolare divozione dai Veranesi e dagli abitanti dei dintorni: “habetur a populo maxima devotione”.
Nei giorni festivi veniva talvolta a celebrare un frate dei Minori Conventuali di Mariano.
Annessa alla chiesa fioriva una scuola o piccola confraternita, detta di Santa Maria Pura, composta dei principali del paese, ma senza abito speciale né ufficio spirituale qualsiasi: nel 1584 annoverava una decina di iscritti, scesi parecchi anni dopo a sei secolari tutti nobili uomini del paese, senza alcuna donna (4). Essa curava la manutenzione della chiesa e ne amministrava le rendite (offerte e alcuni proventi di beni di proprietà della chiesa stessa), distribuendo il superfluo ai bisognosi.
Già fin dalla visita compiuta da Filippo Sormani, prevosto di Asso e visitatore diocesano, dell’ultimo di ottobre 1566, risulta che i Veranesi desideravano di affidarla ai Cappuccini: “cupient homines dicti loci ecclesia haec et domus cum ipso viridario daretur R. Fratribus Capucinis, quod valde bonum est” (5).
S. Carlo stesso, arrivato a Verano in visita pastorale la sera del 25 agosto 1578, e visita il giorno seguente Santa Maria Pura approvò il desiderio dei Veranesi, e ben volentieri concedeva che si passasse ai Cappuccini chiesa e annessi per l’erezione del desiderato convento; diversamente non si ampliasse la casa già più che sufficiente per un cappellano (6).
Si noti che nell’ampia pieve di Agliate non esisteva in quel tempo alcun convento ma solamente un monastero di monache benedettine a Brugora di Montesiro. In queste nostre parti il convento più vicino era quello dei Minori Conventuali di Mariano. Nel frattempo volle non di meno sistemata la scuola, imponendo che avesse un priore, un vice-priore, e un cancelliere, da mutarsi se non ogni anno almeno ogni biennio, e che uscendo di carica rendessero ragione del loro operato al parroco, al vicario foraneo, e ai nuovi entranti.


* * *
Senonchè dovettero passare ancora degli anni prima che il desiderio dei Veranesi sortisse il suo effetto; né saprei dire per quali motivi: se da parte di qualche veranese, oppure più verosimilmente da parte dei cappuccini stessi indecisi sul da farsi avendo alle mani altre offerte per l'erezione di un convento (7).
Ora avvenne, si narra nella cronaca, che nel 1588 il padre cappuccino Dionigi da Milano, passando da Verano, andasse ad alloggiare in casa del nobile suo parente Gio: Battista Sirtori e vi si fermasse alquanto tempo.
Un giorno, uscendo insieme a diporto, il Sirtori lo condusse a visitare la chiesa di S. Maria Pura. Il padre preso dall'amenità del luogo che dominava in bella prospettiva la Brianza, o Monte di Brianza come si diceva in quei tempi e che si estendeva tra l' Adda e il Lambro (8), e più ancora dalla divozione dei Veranesi verso la Madonna e S. Francesco (9), e considerando d'altra parte la vicinanza di Carate dove, non mancava il medico, il barbiere (cioè il chirurgo), lo speziale, ed un luogo pio dove ricorrervi in caso di necessità (10), ritenne il sito adatto per erigervi un convento.
Il Sirtori, che la faceva da factotum nella parrocchia (11), lo pregò senz'altro di accettare il luogo, assicurandogli inoltre, con altri del paese, i necessari mezzi per la costruzione del convento. Il padre Dionigi promise di appoggiare presso i Superiori l'offerta, raccomandando di preparare nel frattempo un motivato memoriale: istanza che fu poi firmata dal Sirtori e da altri nobili signori.
Celebratosi infatti il Capitolo a Cremona nel luglio del 1590, la donazione fu accettata, e si mandò il padre Cleto con altri per un sopraluogo, e quindi studiare il disegno della fabbrica.
L'8 di settembre di quell'anno, festa della Natività di Maria, con gran concorso di popolo, e con intervento del padre provinciale e di Mons.r Ludovico Giussani, protonotario apostolico e canonico di S. Nazaro in Milano, delegato dall'arcivescovo Gaspare Visconti, si eresse solennemente la Croce e si pose la prima pietra del Coro.
Mentre si elevava la Croce si ruppero le corde che la sostenevano, e cascò nel mezzo degli astanti, ma rimasero tutti miracolosamente illesi, scrive il cronista, " ancorchè secondo il giu- dicio humano molti per tal caduta dovevano restarvi oppressi, e molti malamente trattati ".
In tre anni, e nonostante difficoltà insorte, sotto la direzione del padre Agostino da Cantù e di altri tre colleghi, il convento fu condotto a termine, e il 30 aprile 1593 vennero ad abitarvi i padri.
Primo Guardiano fu eletto lo stesso padre Agostino. Tutti i Veranesi, senza distinzione, ed altri dei contorni, specialmente di Carate, furono larghi di generosi aiuti: i ricchi coll'offrire denaro e legname, i poveri col trasportare gratuitamente i materiali per la costruzione. I molinari del Lambro scavarono e condussero tutta la sabbia necessaria.
L'antica chiesetta fu conservata e annessa al convento, finché nel 1620, divenuta insufficiente e cadente per vetustà, all'11 novembre si diede principio alla costruzione della nuova chiesa con relativa sagrestia, dedicandola alla Natività di Maria.
Fu consacrata il 16 ottobre 1622 da Mons.r Filippo Archinto, già vescovo di Como, a ciò delegato dal card. Federico Borromeo, con solennità grandissima e numeroso concorso di popolo.
Probabilmente in questa ricostruzione scomparve l'antico venerato affresco della Madonna Pura, poiché di esso non mi è più occorso di trovare accenni: chiesa e convento sono invece denominati della Natività di Maria.
Nello scavare le fondamenta della chiesa si trovò, con grande meraviglia, il corpo del padre Cesareo tutto intero e conservato come fosse appena morto, con l'abito incorrotto, benché fosse già sepolto da cinque anni in luogo umido. La meraviglia del nostro buon cronista, oggi la si spiega come un caso di mummificazione.


3.

Oltre due secoli di vita. -La vita religiosa dei nostri padri cappuccini scorreva normalmente tranquilla, attendendo alla preghiera e a fare del bene alla popolazione di Verano e dei paesi circonvicini. Vi dimoravano nei primi anni per lo più sei padri con due conversi inservienti (12).
Nella famosa carestia del 1629 e nella susseguente peste del 1630, di manzoniana memoria, i padri si distinsero nel soccorrere i bisognosi e nell'assistere gli appestati.
Spigolando tra le notiziette della cronaca, ricorderemo come nel luglio del 1598 un fulmine caduto in cucina uccise un frate laico, mentre invece un altro fulmine scaricatosi in chiesa nel- l'agosto del 1669, durante un temporale indiavolato, non recò che qualche lieve danno e grande spavento nei frati.
Vi è memoria, tralasciando il ricordo di spaventose grandinate in Verano e dintorni nel 1700 e nel 1760 (13), di una festa celebrata nel giorno della SS. Trinità del 1712 per solennizzare
la canonizzazione di S. Felice da Cantalice cappuccino. Ci fu un grande apparato di sandaline e di tappezzerie in chiesa. Il fratello del parroco di Robbiano, da bravo artista, lavorò a sue spese lo stendardo o ritratto del santo che, messo in cornice, fu posto sull'altare maggiore. Solennissime le funzioni in chiesa: per la circostanza si fece venire nientemeno che da Milano una scelta
orchestra, mandando in visibilio i Veranesi e tutti i presenti. Gli avvenimenti religiosi, in mancanza d'altro, erano ciò che più interessavano le popolazioni della campagna, nelle quali, del
resto, era tradizionalmente vivo il senso religioso. Un altro avvenimento, ricordato dal cronista con giusta compiacenza, fu la visita che ai padri volle fare il card. Pozzobonelli nel maggio del 1759 quando venne a Verano per la sacra visita pastorale.
I nostri religiosi, dietro invito dei rispettivi parroci, sia ad Agliate che a Verano si erano uniti al clero e al popolo nel far onore all’arcivescovo. Il cardinale volle pertanto recarsi a ringraziarli: fu ricevuto all’ingresso della chiesa, e dopo aver preso la padronanza davanti al SS. Sacramento, per il coro entrò in convento e condotto nella sala di ricevimento. Si fermò un’ora e mezzo, conversando affabilmente coi padri, quindi uscì dopo aver lasciato in elemosina tre zecchini d’oro.
I frati non vivevano che di questua, la quale procurava loro di sobriamente vivere, e di fare carità ai poveri che a loro volta venivano a domandarla alla porta del convento. Si questuava
grani, pane, legumi, noci, uova, vino, legna, filo per tela grossa, medicinali, ecc.
La cronaca ci narra, con candore e semplicità tutta francescana, alcuni fatterelli per dimostrare come la Divina Provvidenza vegliasse sui suoi buoni frati.

Tempi di fede, ma anche di facile credenza nel miracoloso.. Un sabato del settembre 1597 erano partiti da Verano per recarsi a Como due fraticelli chierici. Ad un certo punto del cammino, perché privi di qualsiasi provvista, si sentirono venir meno per la sfinitezza, e si sedettero sopra un sasso raccomandandosi al Signore per qualche soccorso. Passò di lì a poco un uomo a cavallo, diede loro il saluto, a cui risposero i frati " che il Signore vi dia la sua santa pace ", e prosegui oltre. Quand'ecco qualche momento dopo lo vedono ritornare a spron battuto, fermarsi innanzi ad essi, mettere mano alla bisaccia destra delle calze, cavarne un pane, e offrirlo loro dicendo: pigliate, padri. Questi accettarono il pane con rendimento di grazie. Allora quell'uomo mise mano nella bisaccia a sinistra, e cavato un' altro pane lo porse loro dicendo: pigliate, pigliate che cento ne darei se li avessi. E poi soggiunse: sappiate che non mi fu possibile andar più avanti, perché mi pareva di sentire una voce che mi dicesse: da' il tuo pane a quei poveri frati. Ed essi ringraziarono quell'uomo, si divisero il pane, e in tal modo ristorati continuarono il viaggio, esaltandone la Divina Provvidenza.
Eran soliti i nostri padri andare alla cerca del vino a Mombello nella villa del sig. Luigi Arconato, uno dei principi di Milano.
Il padrone, data la gran penuria e l'alto prezzo del vino, aveva dato ordine al cantiniere, ch'era un genovese, di non dar più i quattro grandi fiaschi di vino ch'era solito dar loro in elemosina. Ma il genovese si lasciò vincere dalla pietà, e tutte le volte dava i quattro fiaschi di vino. Senonchè un bel giorno, si era nel 1597, arrivò da Milano il padrone in compagnia di amici, e subito volle sapere come si trovasse la cantina. Il buon servo stava in grande timore; andò a misurare quella stessa botte dalla quale aveva spillato il vino dato ai frati, e con grande sua meraviglia la trovò colma " sino in cima al bondone ". Tutto allegro raccontò il miracolo al padrone, il quale gli comandò che per l'avvenire sempre riempisse i quattro fiasconi di vino ogni qualvolta venissero i frati a chiedere l'elemosina. In questo modo, - nota il cronista, - nostro Signore fece conoscere all'uno e all'altro la cura ch'egli tiene dei suoi servi che in lui confidono e gli sono fedeli.
Un fatto consimile avvenne l'anno seguente in Giussano. Alcuni frati di Verano si erano presentati alla signora Geromina Giussana, nobildonna piissima e di grande carità, per l'elemosina del vino. Va', diss'ella ad un servitore, riempi questi fiaschi di vino della tal botte, della quale il. marito aveva designato di servirsene per uso della casa.
Signora, rispose il servo, il padrone mi ha ordinato che di quel vino riempia un vasselletto di quattro brente, mentre nella botte non ce ne saranno che due brente o poco più. Come faremo a cavarcela se tolgo anche questi due fiaschi così grandi ? Va' gli ripete la signora, e fa' quello che ti ho detto. Ed egli così fece. Ma quale fu il suo stupore nell'aver trovato poi nella botte tanto vino, e non una goccia di più, da colmare il vasselletto. Il che, -commenta ancora il cronista, - fu tenuto per un miracolo grande, e ne lodarono il Signore e S. Francesco.
La grande carità di questà nobildonna fu in quell'anno stesso premiata con una grazia ottenuta per intercessione di S. Francesco. Aveva essa un figliolo di 14 anni quasi vicino a morte per il gran sangue che gli veniva dal naso. Nessun rimedio era riuscito efficace. Con gran fede e confidenza in S. Francesco prese ella un po' di polvere del miracoloso legno del santo e la diede da bere al figlio con un cucchiaio d'acqua; subito cessò il sangue e il figliolo risanò.
Nell'inverno del 1622 - narra sempre il cronista - accadde un caso veramente grave. Si conduceva da Tregasio a Rigola un carro di legna alla fornace per cuocere la calce, che doveva servire alla chiesa del convento. Il carro ribaltò seppellendovi sotto il conducente, un giovane di circa 18 anni. Il frate che accompagnava il carro si gettò ginocchioni a terra, invocando San Francesco per quel povero disgraziato. Accorse gente; il carro fu a stento, per il gran peso, alquanto sollevato, e, " mirabil cosa ". si estrasse il giovane completamente illeso senza alcun male. E - aggiunge il cronista - che di poi " volendo gli stessi mover il carro, non fu mai possibile rilevarlo, ma bisognò che vi attac- cassero i buoi, e così lo tirarono dall'altra parte, et questo fu acciò si conoscesse l'aiuto essere stato miracoloso ".

* * *
Nel 1614 la Sacra Congregazione dei Regolari proibì sotto gravi pene che' si tenessero nei conventi, chiese e sagrestie armi proibite, specialmente archibugi da rota grandi e piccoli. In quegli anni di sventura la mancanza di pubblica sicurezza costringeva a munirsi di armi. Il nostro convento era circondato di molta affezione non solo dal popolo, ma ben anche dai signori dei quali non pochi vollero essere ivi sepolti.
Del secolo XVII vi è memoria che vi furono tumulati parecchie persone delle nobili casate Rusca e Marini; e nel secolo successivo il sergente maggiore nobile Carlo Rhò morto a Cabiate in casa del fratello (1700) ; il conte Bartolomeo Rozzoni del Gernetto (1717); il capitano Camillo Tettamanzi di Carate (1740) (14); l'illustrissima donna Elisabetta Marcellina Gazzeri di Sovico (1752); il conte Don Benedetto Balbiani di Arosio, ultimo dei feudatari della pieve di Agliate citra Lambrum (1760) (15); l'illustrissimo sig. Abate D. Marsilio Landriano, titolare dell'abbazia, già prepositura degli Umiliati, morto in Carate (1773) (16); il nobile Dionigi Curioni di Civate, canonico nella chiesa prepositurale di Asso, ritiratosi quasi cieco nel nostro convento dove morì e fu sepolto nell'età di 84 anni (1783); il marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio (1.808), ultimo dei secolari ivi sepolto.
I cadaveri, ottenuta la preventiva licenza del Superiore Generale o di chi per lui, venivano ordinariamente trasportati al convento di sera o di notte, dove il giorno seguente, prima di essere tumulati venivano loro celebrate le esequie.
Fu soltanto col 1741, e ciò per una generale convenzione, riguardante tutta la diocesi, tra l'arciv. card. Stampa e il padre Generale, che i parroci di Verano poterono entrare nella chiesa dei frati a funerare i loro parrocchiani, salvi sempre i diritti spettanti ai religiosi, e ciò per porre fine alle lamentele dei parroci al riguardo.
Parecchi, non contenti di beneficare in vita i padri, li ricordarono altresì in morte con legati in loro favore. Così Gio. Bat . marchese Crivelli, in cambio di terreno cedutogli dai padri, depose un legato di 120 lire in carne; il sig. Lucini di Giussano lire 8 in carne con testamento del 22 luglio 1655; la signora Bianca Giussana nel 1670 una brenta di vino bianco per la Messa; il marchese Crivelli, in cambio di terreno cedutogli dai padri depose un legato di L. 100 in carne. Risulta inoltre che D. Innocente Rozzoni, figlio del sopradetto conte Bartolomeo, con istrumento del 13 luglio 1750 aveva obbligato il Consorzio della Misericordia in Milano a versare ogni anno cento lire in perpetuo per un anniversario e Messe da celebrarsi a suffragio di suo padre. Quest'ultimo legato fu l'unico trovato attivo al momento della soppressione del convento. Gli altri, col successivo trapasso d'una in altra proprietà dei beni sui quali erano livellati, finirono, per una ragione o per .l'altra, col non essere più soddisfatti. Il legato Sirtori fu adempito fino verso il 1710, ossia fino a tanto che in Verano durò la nobile famiglia Sirtori:
Nel Seicento il convento non ebbe notevoli migliorie, se si eccettua la costruzione della nuova chiesa, alcune riparazioni, e una nuova cappella nel 1684 per il seguente fatto.
Il marchese di Castel Rodrigo, grande di Spagna e membro del Consiglio Segreto di Sua Maestà, da Giussano se ne tornava ad Albiate, quando presso Verano precipitò col cavallo nel fossarone (oggi totalmente scomparso coll'apertura della nuova attuale provinciale Giussano-Carate), rigurgitante d'acqua per le piogge cadute da ricoprire persino la strada. Già lo si riteneva come morto annegato dai circostanti accorsi, quando invece fu visto risalire la riva sano e salvo, dicendo di essere stato preso a mano da due cappuccini che poi più non vide, ma che riscontran- doli tra le pitture della chiesa, gli parvero S. Francesco e S. Antonio. Per la grazia ricevuta fece erigere nella chiesa una cappella a S. Antonio, e si mantenne sempre un generoso benefattore del convento.

* * *
Con la morte di Carlo II di Spagna (1° novembre 1700) senza eredi legittimi, sorsero parecchi pretendenti al trono, dando origine ad una guerra formidabile detta della Successione di Spagna, la quale determinò la caduta della dominazione spagnuola in Lombardia, e lo stabilimento di quella austriaca.
L'Austria assumeva i nostri paesi in condizioni di estrema decadenza, e tale situazione durò fino alla metà di quel secolo, poiché per altre guerre sopravvenute, i tentativi di porvi qualche rimedio rimasero lettera morta.
Uno dei più gravi ostacoli era la mancanza di pubblica sicurezza. Il malandrinaggio era spaventosamente cresciuto in Lombardia. Anche i nostri paesi erano infestati da ladri e assassini
che si annidavano nelle boscaglie della Groana. Correva voce in quegli anni, con evidente esagerazione, che
Meda Seregn Paina e Marian
I mantegnen el boia de Milan
.
In una settimana dell'aprile del 1733 i ladri tentarono per ben quattro volte di rubare nel convento. Ma non riuscirono a portar via cosa alcuna perché sempre scoperti.

* * *
Comunque è lungo il Settecento, e particolarmente nella seconda metà, che il convento di Verano, come si desume dalla cronaca, ebbe continue migliorie sotto tutti i rapporti: nei fab- bricati, nella cucina, nell'infermeria, nell'arredamento, nella biancheria, nella libreria, nei paramenti di chiesa, ecc. Migliorie ininterrotte che ancora nel 1793, quando ormai sovrastava la soppressione, si rifuse la campana che si era rotta, e. se ne fece una nuova fusa dai signori Bonavilla di Milano del peso di 18 rubli e libre 40 coll'importo di L. 80, e benedetta dall'abate di S. Simpliciano.
Non mancarono nemmeno opere d'arte: nel 1745 e nel 1746 vi affrescarono, secondo il gusto del tempo, i pittori milanesi Pietro e Giacomo Balduini.
Nel 1763-64 si innalzò un torrino con campana e un grosso orologio fatto dal Sangiusti che segnava e suonava le ore: il quadrante e l'architettura erano opera dell'allora celebre sig. Giacomo Secchi. Una bella ed utile novità non solo per i frati ma anche per i Veranesi.
I nostri padri procuravano, in una parola, di tenere bene aggiornato in conformità del progresso il loro convento.
Nel 1785 risulta che vi abitavano 9 padri, 4 fratelli laici, e due inservienti secolari abitualmente dimoranti in convento.
La ragione di questi continui miglioramenti la si può spiegare col fatto che nel Seicento, col dominio spagnuolo regnava la miseria e le elemosine non potevano essere abbondanti; nel Settecento, con la dominazione austriaca, il progresso nell'agricoltura, nelle industrie e nei commerci, faceva affluire al convento maggiori mezzi.



4.

Soppressione del convento - Sul finire del secolo XVIII. avveniva, come è noto, con la rivoluzione francese un grande sconvolgimento politico, sociale e religioso. Ben presto ne subì le conseguenze anche la Lombardia. Napoleone Bonaparte calava in Italia nel 1796, e dopo un seguito di vittorie contro gli austriaci, entrava nel mese di maggio in Milano.
Coi nuovi dominatori, i quali tutto trasformarono alla francese, venne costituita la Repubblica Cisalpina, la quale nel 1798 decretò la soppressione di non pochi capitoli canonicali, conventi e monasteri, e fra questi quello della Natività di Maria in Verano.
Il 29 maggio, ai padri raccolti nel refettorio venne intimato l'ordine di soppressione da Gaspare Rezia commissario del potere esecutivo del dipartimento del Lario, e i beni incamerati ossia proprietà dell' Agenzia dei Beni Nazionali.
Lo scopo era di far denaro, e pertanto sia per odio alla religione e sia perché preti e religiosi non avevano mezzi di difesa, non si trovò di meglio che mettere le mani sui beni ecclesiastici.
Il Rezia, nota il cronista, era entrato improvvisamente in convento " accompagnato da Femine e da Ministri del suo dipartimento del Lario " (17).
Nel dì seguente si stese l'inventario e l'apprezzamento di .quanto possedeva il convento. Il padre Guardiano doveva garantire con giuramento che nulla mancava. Ma poiché egli aveva pensato di salvare alcuni mobili, si guardò bene dal prestare un vero giuramento: vi sostituì altre espressioni. Ciò insospettì gli agenti. Due giorni dopo fu chiamato a Meda, dove nel Monastero si era insediato il sinedrio cisalpino del Lario, e costretto a prestare giuramento simile a quello delle monache (18), si trovò perciò nell'obbligo di svelare anche i pochi mobili sfuggiti all'inventario.
Il 3 giugno i padri, per ordine del ministero degli interni, furono traslocati in altri conventi cappuccini: la maggior parte passò in Milano nel convento di Porta Orientale. Fu loro concesso di portare seco gli oggetti personali.
Il convento fu venduto dall'agente governativo Noghera al milanese Vitaliano Bigi il 20 settembre 1798 per il prezzo di lire 10884.13.8 per il caseggiato e giardino annesso, più lire 4323.5 per i mobili, e altre lire 700 per lo spazio di terreno della larghezza di 3 braccia corrente all'ingiro del giardino, e per il diritto su una piazzetta all'angolo di tramontana di detta cinta.

Ma il marchese Trotti, molto affezionato ai padri, pensò di farlo suo coll’intenzione di restituirlo ai cappuccini qualora sopravvenisse un cambiamento di governo. E attraverso il negoziante milanese Cristoforo Busti riuscì nel suo intento. Questi infatti concluse l’affare, per persona da dichiararsi, con istrumento del 15 novembre 1798; e con altro atto del 3 aprile 1799 dichiarò di aver esaurito l’acquisto per il marchese ludovico Trotti Bentivoglio (19).
Il marchese , afferma il cronista, versò lire 43 mila, e rilevando poscia dall’Agenzia tutti i mobili spettanti alla chiesa ed al convento mediante lo sborso di altre 4323.
Mentre Napoleone nel frattempo si trovava a battagliare in Egitto, gli Austro-Russi ritornarono alla riscossa, e , sconfitti i francesi nella battaglia di Verderio del 28 aprile 1799, rimasero padroni di Milano e della Lombardia.

Il 3 maggio 1799 il marchese inoltrò senz'altro istanza al padre Provinciale perché ritornassero a
Verano gli stessi padri l'anno prima allontanati, pronto a ridonare il convento con tutti gli annessi.
La donazione fu accettata con atto notarile del 6 maggio, ma con la clausola che qualora il convento fosse di nuovo soppresso, questo sarebbe ritornato in proprietà del donatore.
Due giorni dopo se ne otteneva l'approvazione governativa dal regio imperiale commissario conte Cocastelli, e il 19 maggio i padri facevano il loro ingresso ricevuti con festosa allegria dai Veranesi e dagli accorsi in gran folla dai vicini paesi, e processionalmente accompagnati al convento.
L'anno seguente ritornarono i francesi, ma i nostri padri furono lasciati tranquilli fino al 1810 (20).
.In quell'anno al 25 di aprile veniva emanato un imperiale e reale decreto per il quale si ordinava la generale soppressione di tutte le corporazioni religiose nel regno d'Italia. Il Governo bisognoso di denaro, come altre volte, non trovo mezzo migliore che di rifarsi coi belli ecclesiastici.
Il nostro convento che allora faceva parte del Cantone di Desio Dipartimento d'Olona, non poté sfuggire all'iniquo decreto, e il 12 maggio veniva definitivamente soppresso per non mai più risorgere.
Convento e annessi ritornarono in proprietà del figlio Lorenzo Trotti Bentivoglio, in forza della sopradetta clausola che egli seppe far valere di fronte al governo (25 maggio 1811).
Il fabbricato, chiesa compresa, col passar degli anni finì coll'essere tutto rimaneggiato e ridotto a locali d'abitazione.

Addolorati i Veranesi nel vedere di nuovo allontanati i loro frati, e più ancora i padri nel lasciare ormai per sempre quel sacro ritiro di pace e di preghiera dove rimanevano sepolti tanti loro confratelli e benefattori.
Una memoria necrologica del convento ci fa conoscere infatti che ivi erano stati sepolti, tra religiosi e laici, oltre una settantina di persone. Il primo dei religiosi è del 20 ottobre 1591 ; l'ultimo è del 31 luglio 1812 ma sepolto in cassa nel campo santo della parrocchia.
Dei religiosi si possono ricordare un padre Emilio da Milano, della nobile famiglia Carpani, morto nel 1597, il quale, già ricco mercante ed avuto il dolore di perdere la moglie in pochi giorni, lasciò tutto e si fece frate cappuccino attendendo con gran fervore all'acquisto d'ogni virtù; padre Cesareo da Milano, morto nel 1615, definitore in Francia per la provincia di Lione, più volte Guardiano e Maestro dei Novizi; padre Giuseppe Antonio da Cremona, morto nel 1791, lettore in filosofia e teologia, custode generale, definitore; dopo di che scelse per sua ultima di- mora questo convento. E così ancora il padre Mansueto da Milano, morto nel 1733; padre Bonaventura da Ponte, morto nel 1742, ed altri molti che si distinsero per austerità di vita, bontà, e sapere.
Nessuna meraviglia pertanto se i padri erano stimati e venerati da ogni classe di persone.
Molti anni sono ormai trascorsi da quel triste giorno nel quale lasciarono definitivamente il loro convento, ma la cara ricordanza non si è mai spenta nei Veranesi, la quale si mantiene viva nella divozione al Terz'Ordine di s. Francesco e nelle vocazioni all'Ordine dei Cappuccini.

[ Articolo apparso in Memorie Storiche della Diocesi di Milano, Milano 1957, vol. IV, pp. 227-247.]