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GIOVAN BATTISTA BEANIO
PREVOSTO DI SEVESO (1394-1604)

Queste poche pagine sono la ristampa riveduta di un articolo pubblicato nel lontano 1921.


Il Ripamonti e il Rivola, parlando di un famigerato prevosto di Seveso al tempo del Cardinal Federico Borromeo, prudentemente ne tacquero il nome (1). Ignazio Cantù pensò di ravvisarlo in Mons.r Francesco Perlasca (2), il quale resse quella prepositura dal 1574 al 1587.
Chi ebbe così cattiva fama fu invece Giovan Battista Beanio prevosto di Seveso dal 1594 al 1604.
Nacque a Como nel 1570 da legittimo matrimonio. Suo padre si chiamava Bartolomeo e la madre Elisabetta. Studiò leggi. Fu promosso alla tonsura il 10 marzo 1582 dal vescovo di Como Antonio Volpi, ed agli ordini minori il 18 dicembre dello stesso anno; fu consacrato suddiacono il 19 settembre 1593 dall'arcivescovo di Milano Gaspare Visconti, e finalmente ordinato sacerdote dal vescovo di Como Feliciano Ninguarda il 24 settembre 1594.
Era investito della cappellania dei SS. Quattro Incoronati nella chiesa di S. Fedele in Como, e del canonicato in Nesso sul lago di Como.
Divenuta vacante la prepositura di Seveso per rinuncia fatta da Angelo Sala, successore del Perlasca, ne era stato provvisto il Beanio con bolle papali del 19 agosto 1594; bolle pubblicate in Milano il 6 gennaio dell'anno seguente.
Il Sala, oltre aver preso in cambio dal Beanio la cappellania e il canonicato, si era riservato sul beneficio della prepositura, la cui entrata allora era valutata in 300 scudi camerali, una pensione di 137 ducati.
In tal modo il Beanio a 24 anni, e ancor prima di essere ordinato sacerdote e senza alcuna pratica della cura d'anime, veniva eletto prevosto di Seveso. Forse ci saranno state di mezzo interessate raccomandazioni: nihil sub sole novi...

* * *

Il Beanio rimase prevosto di Seveso sino al 1604.
L'anno seguente lo troviamo in prigione accusato di gravi misfatti. Infatti in una lettera al card. Federico del 6 novembre 1605 scrive:
"Grandissimi travagli et persecutioni ho sostenuto ringraciando sempre nostro Signore Iddio, e in quello confidandomi. Otto mesi et più che li nemici et avversari miei sono andati facendo fabricare processi in cotesta curia di V.S. Ill.ma contra di me con false et simulate inventioni. Hora a me tocca il giustificarmi et far conoscere l'innocenza mia, la qual cosa spero che a lei, come vero padre, sarà di consolazione". Si raccomandava quindi perché desse ordine ai suoi vicari di accordargli il tempo e comodità necessarie onde poter preparare la sua difesa, "sicome s'è fatto e concesso di procurarmi l'offesa", e gli fossero rilasciati i suoi averi per sostenere le relative spese.
In altra del 7 dicembre torna a supplicare il cardinale perché gli siano rimessi "quei pochi frutti" spettanti alla prepositura che gli rimanevano di riscuotere in quell'anno, e le spoglie di casa, onde avere i mezzi per la sua difesa. Domandava inoltre, per minor spesa, di essere trasferito nelle carceri comuni, perché era povero, d'altra diocesi, senza parenti a Milano, e con necessità di far esaminare testimoni d'altra diocesi. Né d'altra parte poteva sperare aiuti non avendo che un solo fratello con tre figlioletti ed una sorella da maritare, pur essi poveri "se ben nati da sangue honorato et civile, che però se dalla clemenza della V.S. Ill.ma, non sarò aiuttato, sarà l'ultima rovina della nostra casa" (3).

* * *

Afferma il Rivola, in modo vago e generico, che "per l'infame vita che menava dentro a' confini della sua prepositural Chiesa di Seveso, non pur dando nella sua casa ricetto a' masnadieri e ne' loro ladroneggi immischiandosi, ma facendo la Chiesa de' miseri passeggeri macello e sepolcro, fu più volte da parte di Federico ripreso e minacciato: di che niun conto facendo, il temerario et ardito, fu alla fine dalla Corte nelle Arcivescovili carceri condotto in prigione, e da quel Tribunale alla Galea condannato. Trovò egli maniera di rompere le carceri e di fuggire, e vedendosi in libertà posto, si ridusse ad habitar certi contorni nel territorio Bergamasco detti la valle S. Martino, che con la diocesi milanese confinano e quivi come in luogo di Franchigia e per lui assai sicuro disegnava di menar un giorno a fine i suoi perfidi e sacrileghi pensieri contro la persona del Borromeo, essendosi più volte lasciato uscir di bocca, che se gli fosse mai venuto fatto di far di lui vendetta, lasciata havrebbe di sé memoria eterna" (4).
Il Rivola attinse a quanto pare dal Ripamonti (5), ma sì 1'uno che l'altro lasciano il sospetto che il loro dire sia stato influenzato da dicerie popolari, le quali, passando di bocca in bocca, assomigliano ad una piccola quantità di neve che, rotolando dalla montagna, s'ingrossa per finire valanga.
Orbene, se consultiamo gli atti delle visite pastorali della pieve di Seveso dal 1597 al 1603 (6), nulla di veramente grave si incontra a carico del Beanio; si nota soltanto che non partecipava alle congregazioni plebane, ch'era ignorante nella teologia morale, non procurando nemmeno i libri per istruirsi. Perciò nel 1603 gli fu imposto di recarsi a Milano dagli esaminatori sinodali per subire un esame, con minaccia della sospensione a divinis e di una multa pecuniaria.
Di furti, grassazioni, omicidi, turpitudini od altro di simile non si ha cenno o sospetto. Si fa parola nella visita del 1597 della mancanza di alcuni paramenti della Chiesa esistenti nella visita del 1581, ma potrebbe essere che siano andati consunti, perché forse già prima in non troppo buon stato.
Del prevosto, in complesso, vi si dice bene. Nel 1597 si dichiara che faceva residenza abitando nella casa parrocchiale con un servo di Seveso, e nello stato del clero del 1600 vi si afferma che predicava al popolo ogni festa, che spiegava la dottrina cristiana, e che aveva talento. Esercitava inoltre la carica di confessore del clero. Teneva presso di sé un chierico di buone speranze, certo Gaspare Pirovano, comense, di 17 anni, il quale era investito di un beneficio clericale in Misinto.
Nel 1603 si specifica che aveva seco conviventi il fratello e due sorelle con due servi, uno di 18 anni e l'altro di 25, mentre in una casa contigua alloggiava il padre ed una sorella nubile. Il Beanio è detto di sana costituzione. Vestiva abito decente, ma corto. Portava barba e lunghi baffi, ma senza tonsura visibile. Nei giorni festivi spiegava regolarmente la dottrina cristiana, e vi celebrava le funzioni vespertine. Ben tenuti i registri parrocchiali. Suo confessore era il parroco di Limbiate.

* * *

Senonché una relazione informativa stesa in latino in occasione del processo, ma senza data e firmata da sei laici e dai curati di Camnago, Birago e Cesano, ci rivela le magagne del Beanio (7).
Pare strano che i parroci viciniori nulla abbiano prima sospettato e rivelato ai visitatori della pieve della cattiva condotta che incominciava a tenere il prevosto, perché ordinariamente nemo repente fit pessimus.
Forse avranno avuto paura di qualche rappresaglia, o fors'anche, il Beanio, da uomo esperto, sapeva nascondere le sue pecche.
Tuttavia qualche segreta informazione dev'essere stata mandata al card. Federico, se è vero quanto scrive il Rivola, che il prevosto prima di essere imprigionato fu più volte ripreso e minacciato.
Comunque sia, quel rapporto, che reca a tergo "Capitula contra Praepositum Sevesi", enumera ben 12 capi d'accusa, e in una nota preliminare vi si dice come contro il prevosto era già stato introdotto in Curia il procedimento giudiziario per "crimine nefando".
I capi d'accusa sono i seguenti:
1° Dopo il processo (8), più non si rinvenne Bosino, ed è opinione pubblica che sia stato disperso nel lago di Como. Inoltre Giacomina, domestica in quel torno di tempo, fu allontanata, e si presume sia stata a conoscenza di tante cose. 2° Di assassinio. Con dei bravi entrò nella casa di un abitante del luogo per derubarlo, e nonostante che in quel tempo si emanassero gride contro i bravi, la sua casa era sempre piena di tali uomini. Il prevosto comparve dopo sedato il tumulto in abito corto e armato di archibugio (9). 3° E' opinione che abbia aggredito uomini sulla pubblica via per derubarli, e una volta aggredisse un abitante del luogo che lo riconobbe. 4° Fu a depredare la cascina di S. Pietro Martire asportando denaro e molta biancheria nuova. 5° Aveva percosso Pietro Badino colono dei Porro di Barlassina. 6° A Milano presso S. Maria Passerella aveva tenuto una casa, ricettacolo di uomini di mala qualità e di donne, la qual casa passò al conte Serbelloni. Ora ne tiene un'altra presso S. Pietro all'Horto. 7° Ruba del pollame e manda il frutto di tali rapine alla sopraddetta casa in Milano. Furono derubati la cascina Farga e Protasio de Andreiti. 8° E' sospettato di aver dato la morte ad un suo fratello mediante il veleno, e tra gli altri tal sospetto fu emesso da suo cognato. 9° In casa tiene sempre archibugi ed altre armi nascoste nella canna del camino della sala, ma facilmente trovabili qualora si facesse all'improvviso un sopraluogo. 10° E' molto ignorante. 11° Non fa residenza in parrocchia, e tutti i giorni se ne va a Milano, e molti sono morti senza sacramenti, e ultimamente un tale caduto da un albero morì senza che l'avesse a visitare. Non predica nei giorni di festa. l2° Spogliò la sacrestia, ch'era molto bene provvista di suppellettili, e tagliò alberi situati sulle terre del beneficio.
Seguono le firme dei sei laici e dei tre curati; tra i laici vi sono Pietro Badino e Protasio de Andreiti sopra citati, un Battista che attesta di essere stato colpito dal prevosto con la spada, ed il console Baldassarre detto Balsaron.
Questa relazione, per quanto stesa da persone del luogo e dei dintorni, delle quali taluna aveva sofferto prepotenze dal prevosto e le altre potuto spiarne da vicino la condotta, si basa, per lo meno in parte, su opinioni e sospetti, per cui lascia alquanto perplessi.
Tuttavia che il Beanio fosse in realtà divenuto un malfattore negli ultimi anni che fu prevosto a Seveso, ce lo prova un atto rogato in Roma nel palazzo del Governatore il 26 febbraio 1610 riguardante la liquidazione delle spese processuali in favore del fisco della Curia di Milano (95 scudi e 50 bolognini).
In esso si attesta in modo esplicito che il prevosto, per aver avuto parte con altri ad una rapina di drappi ed altre merci seriche di notevole valore sulla pubblica via Comasina e per altre malefatte (10), fu privato del beneficio, processato, e condannato al carcere a vita nella fortezza di Ostia Tibertina, e che poi il Pontefice Paolo V, in seconda istanza, gli commutò la pena in quella delle triremi, o galera, con catena ferrea ai piedi in perpetuo.
Il documento, per verità, parla di una sola grassazione o ruberia, e a quanto pare senza uccisione di persone, lasciando nell'ombra altre pecche di minor conto. Questo sarebbe pertanto il principale capo d'accusa che, dati i criteri di giustizia penale allora in uso, procurò al Beanio così dura pena.
Il Ripamonti ed il Rivola dipinsero invece quel disgraziato come un inveterato e famoso ladrone, un feroce assassino di strada, che faceva scomparire le tracce dei suoi delitti col seppellirne secretamente in chiesa i cadaveri, arrivando al punto, aggiunge il Rivola, di far macello nella chiesa stessa dei passeggeri dopo averli derubati.
In base agli elementi di cui, a tutt'oggi, possiamo disporre, non ci si può sottrarre dall'impressione che esagerino nel loro dire, appoggiandosi forse in parte alle ciarle popolari. C'è troppo disaccordo tra quello che affermano gli atti delle visite ecclesiastiche e quello che ci narrano i due storici.
Ammesso pure che il Beanio, da furbo matricolato, abbia cercato di eliminare qualsiasi traccia dei suoi delitti, non si riesce a comprendere come nessun sospetto sia sorto nei visitatori, certamente non tutti degli ingenui e dei semplicioni, e tanto più che Federico, al dir del Rivola, ne sapeva già qualcosa.
Il Beanio nelle sue lettere che, dopo la sua evasione dalla galera, indirizzò al card. Federico, si riconosce colpevole e ne domanda perdono con promessa di non più far del male, ma di che cosa non dice.
Se coll'arcivescovo non poteva a meno di dichiararsi in fallo, scrivendo ad altri, come ad esempio ai Cardinali del S. Officio a Roma, non mancava di protestarsi innocente, come di solito fanno quasi tutti i condannati.
Rimane pertanto accertato ch'egli commise dei misfatti, come risulta dall'atto del l610 sopra citato; ma quanti e di quale gravità si potrà solo conoscere dagli atti del processo, finora introvabili, sempre però che i testi d'accusa non abbiano detto talora qualche bugia o esagerazione, e tenendo inoltre calcolo della tortura in vigore non solo nelle carceri civili della Mastalla ma ben anche in quelle arcivescovili, per costringere l'imputato sotto il tormento a manifestare la verità, e magari quella tale verità preconcetta, immaginaria, che interessava avere accertata dalla bocca dell'accusato stesso (11).
Fatto sta che il processo ebbe un esito disastroso per il Beanio.
Condannato al carcere a vita ad Ostia, due anni dopo passò alla pena della galera, dalla quale dopo cinque anni riuscì ad evadere e a mantenersi in libertà (12).

* * *

Dal 1611 abbiamo sue lettere al card. Federico da Civitavecchia, da Napoli, da Livorno, da Genova nelle quali invoca perdono e soccorso.
Nel mese di dicembre di quell'anno lo troviamo rifugiato a Morbegno in Valtellina nel convento dei Padri Predicatori (13). Presso quei padri dimorò quasi tutto l'anno seguente, continuando da una parte a scrivere al card. Federico sempre supplicando perdono e aiuto, e dall'altra ad interessare persone, che lo potessero aiutare ad uscire dalla penosa situazione in cui si trovava, e tra queste gli arcipreti di Chiavenna e di Sondrio, onde ottenere un sicuro ed ampio salvacondotto per venire a Roma e far revisionare il processo di condanna.
Nicolò Rusca, il noto venerabile arciprete di Sondrio, scrisse il 27 dicembre 1611 una lettera al card. di Araceli in favore del Beanio, che fu poi discussa in Congregazione alla presenza del Pontefice. Si fu propensi a concedere il richiesto salvacondotto e revisione della causa.
Il card. Arigone, per ordine dello stesso Pontefice, ne informava non solo l'arciprete di Sondrio, ma ben anche l'arcivescovo di Milano con lettera del 3 marzo 1612, "perché possa scrivere quel che l'occorre intorno alla causa principale et privatione della Prepositura" (14).
In tutto questo il card. Federico si mantenne diplomaticamente freddo e riservato, per cui non furono resi effettivi né il salvacondotto né la revisione del processo.
Il Beanio, nulla tralasciava per riuscire nel suo intento, come risulta da una lettera del 18 settembre 1612 all'arcivescovo di Chieti in Roma, nella quale si lamentava che "alle giuste et humilissime preci, quali ho fatto e fatto fare avanti lo Ill.mo e Rev.mo Tribunale del Santo Offìtio costì supremo, non sento peranco provisione almeno in Roma, ma comprendo solo stratagemmi. Ad ogni modo non cesso di supplicare, et spero finalmente che non mi vorranno mettere in disperatione. Sono stati rimessi et provisionati Religiosi, i quali apostatarum a fide, a religione, duxerunt uxores, qui praedicaverunt haereses, et qui alia flagitia perpetrarunt, et a me che lo devo dire, il quale oppresso, et ingiustamente condennato, patito tanti anni, e che vivo qui nel Grembo di Santa Chiesa Cattolica Romana con ogni vero zelo, si usa tanta crudeltà". Ed in un'altra successiva del 24 settembre ai Cardinali della Congregazione del S. Officio in Roma supplicava "che si degnassero per le viscere di Gesù Christo operare con sua Beatitudine acciò che abbia compassione et misericordia di me, et mi faccia gratia di salvocondotto amplissimo per qualche anno sopra qualsivoglia emputazione dedotta o che si potesse dedurre contro di me in giuditio, a die ch'io sarò fuori di questi paesi con provvedermi del sostentamento, et d'un poco de denari per fare il viaggio a cotesta volta, che subito partirò, e venerò senza toccare lo Stato di Milano".
Il Sommo Pontefice, vagliatosi il pro e il contro nella Congregazione, volle che fosse mandata copia delle due sopraddette lettere del Beanio all'arcivescovo di Milano acciò "si degni vederle et scrivere il parer suo se sia espediente di concedere a detto Beanio il salvacondotto" (15). Il parere dell'arcivescovo fu, in sostanza, negativo, pur rimettendosi in tutto alle decisioni pontificie (16).
Il Beanio, visto ormai definitivamente tramontato il suo piano, pensò di cambiar luogo, e di riparare a Mantova. Di là riprese ad inviare lettere al card. Federico supplicandolo insistentemente del suo perdono e della sua misericordia.
In una del 20 gennaio 1613 così si esprime: "Dio sa il mio cuore e la mia necessità. Né voglio tralasciar di ricorrere continuamente a' piedi di V.S. Ill.ma, esporli il stato mio miserevole, e supplicarla gemendo de misericordia e provisione ne deficiam in Tribulationibus. Otto anni già che patisco carceri, galere, esilio, e senza pane. A Seveso et a Milano quelle facoltà ch'io tenevo sono disperse. Non so come durarla, e se mai dubbita, prego Dio che non mi lasci cadere in disperatione. Tengo un fratello solo, fatto poverissimo, carico di sei figlioli; ha speso quanto aveva per aiutar me; e continuò a spenderlo dal principio che io venni a Seveso nella speditione della Bolla, et nel mettermi la casa, nelle quali si spese più di cinquanta scudi come chiaramente si può vedere. Se V.S. Il1.ma non ci aiutta, siamo in ultima rovina tutti. Aspetto, supplico et prego la pietà de V.S. Ill.ma che veniat ad me, come dissi in altra, in bachulo charitatis, venit iam octo annis in virga ferrea, né ci lasci perire, et le prometto portamento tale che ne laudaremo S.D. Maestà.
A V.S. Ill.ma bacio le vesti e piedi".
In altra del 20 febbraio, pur lamentandosi col cardinale che mai gli giungesse una parola di misericordia e che lo rimettesse in condizione di poter attendere a servir Dio, protestava di non voler mai tralasciare di ricorrere a lui che lo poteva salvare, confidando nella intercessione di S. Carlo che in modo meraviglioso lo aveva aiutato ad evadere dalle triremi nel giorno della sua festività, e lo supplicava di metterlo "in stato che possa attendere a servir Dio" dopo otto anni di tribolazioni. Ed ancora il 20 aprile ne scrive altra presso a poco dello stesso tenore.
Il 24 maggio 1613, senza data di luogo, torna a ripetere al cardinale: "Gli è pur vero che Santo Carolo advocato mio ha ottenuto gracia per me in Cielo da Dio, tengo ancora per fermo che V.S. Il1.ma non degenererà qua giù in terrà ne dal sangue ne dalla charità di quel santo. Al quale io se bene indegno peccatore cominciai ad essere divoto nell'anno 1600 in occasione che mi fu donato dal sig.r Francesco Caccia milanese un quadro del vero ritratto di d.to Santo fatto quando viveva in questo secolo. Detto quadro me lo tenevo ad Seveso sopra il capo del letto nel quale dormivo, et a questa divotione maggiormente mi accese il sig.r Pellegrino Pellegrini cittadino venetiano, qual fu Ambasciator a Milano per quella Repubblica, e ritrovandomi io a Venezia dell'anno sud.o e visitando lo sig.r Pellegrini per commissione del sig.r Giovan Paolo Fagnani, mi mostrò alcune cose de devotione, e specialmente un pezzo della veste di S. Carlo, dicendomi che sperava vederlo santo, che per anco non si sentiva all'hora che avesse doppo morte fatto gracie ne miracoli, io dissi al d.o signor del mio quadro, avanti il quale poi in quasi ogni mia pubblica attione mi raccomando a S.to Carolo. Nel principio di questa mia tribulatione pur mi raccomandai con ferma speranza che mi aiuterebbe, quando fu canonizzato aperuit os meum a V. S. Ill.ma in capo l'anno, in die eiusdem festivitatis mirabiliter aperuit et vincula, il che si può giustificar per i libri e del proveditore e del scrivano delle galere di N. S. e dell'app.to di S.ta Lucia ne qual vi scrivono quelli che entrano e che escono per qualsivoglia modo. Come io mi salvassi havendo dato nella Corte lo paleserò a gloria di questo S.to quando potrò (evidentemente per non svelare chi lo aiutò ad evadere). Insomma S. Carlo mi ha aiutato, a V. S. Ill.ma mi raccomando si degni quanto può terminare quello che le piace per mio soccorso. Le mie necessità, la povertà del presente mio fratello con sei figlioli già V. S. Ill.ma le sa, anco la volontà bona ch'io tengo io la obblighi la prego di misericordia". E chiude la lettera con un tratto gentile, per quanto interessato, mandando il quadro con preghiera di tenerlo se gli piacesse.
L'ultima sua lettera delle rimasteci, è del 14 giugno 1614, ma da dove non dice. A quanto sembra si era già da tempo allontanato anche da Mantova.
In essa il Beanio si lamenta e protesta col cardinale scrivendo: "Da mio fratello son avisato, como fanno molti giuditij della persona mia intorno li eccessi, che per costà succedono, e che appresso a V. S. Ill.ma, io sia posto in mala consideracione. Meglio non far male e che si dica, che farlo e non si dica. Sia sempre ringratiato Dio, e non vorrei haver offeso in altro Sua Divina Maestà, come non ho in questi particolari. Homo videt ea, quae parentur, Deus autem intuetur cor. I lib. Regum. Mi essibisco consegnarme sopra qualsiasi caso successo da dieci anni in qua, e mi faccia salvacondotto sop. le cause vecchie. Non so che far altro. A V. S. Ill.ma baccio humilmente le vesti".
Nell'epistolario Federiciano, e nemmeno in altre fonti, mi fu dato di rintracciare altre lettere del Beanio.
Neppure possiam dire, d'altra parte, se il cardinale abbia talora risposto; dal tenore delle suppliche sembra doversi escluderlo. Il suo pentimento sapeva forse troppo di interesse, in quanto, più che da altro, proveniva dalla miseria nella quale erano venuti a cadere lui e i suoi familiari.
Il Ripamonti ed il Rivola dicono che si rifugiasse nella bergamasca Valsanmartino, confinante col territorio di Lecco, dove correva voce che aspettasse l'occasione propizia per compiere sul card. Federico una vendetta tale da lasciare imperitura memoria.
Pertanto il Governatore di Lecco, quando l'arcivescovo venne in visita pastorale nel lecchese, ritenne opportuno affiancargli dei soldati i quali giorno e notte vigilassero alla sua incolumità; scorta della quale il cardinale volle farne a meno allorché ne seppe la ragione.
Ora avvenne, narrano i sopradetti storici, che trovandosi il prelato in visita in una terra non molto da Lecco lontana (17), gli si avvicinò uno sconosciuto col quale ebbe parecchi abboccamenti.
Quando, dopo due giorni di permanenza, Federico stava per incamminarsi ad altra parrocchia, quell'uomo gli fu ancora al fianco quasi per conchiudere quello di cui si era precedentemente tra loro discorso.
Mentre all'arcivescovo in partenza si suonavano, come di consueto, a distesa le campane, si distaccò un battaglio che venne a colpire gravemente il piede sinistro di quello sconosciuto rovesciandolo supino a terra. Il cardinale comandò che fosse tosto rialzato e medicato.
Il Rivola, indulgendo alle ciarle, dà quasi per certo che quel ferito, d'intesa col prevosto, era venuto coll'intento di far vendetta, mentre il Ripamonti saviamente conchiude col dire che è incerto cosa avessero voluto fare e che cosa tentassero col pretesto del colloquio, e quale via si volessero aprire per un delitto. Io non dovevo tacer quell'episodio e le chiacchere che ne seguirono. Di tutto ognuno sospetti e creda secondo il proprio parere. (De tota re pro suo quisque sensu suspicabitur aut credet).

* * *

Che dire di tutto questo?
Che il Beanio sia venuto ad annidarsi in quella valle è verosimile. Essa, mentre faceva allora parte ecclesiasticamente della diocesi di Milano, era territorio veneto e perciò per lui luogo sicuro, e nello stesso tempo comodo per facilmente comunicare coi suoi famigliari e con quelle persone del milanese e del comasco con le quali a lui interessava avere rapporti.
Non risulta tuttavia che ivi riprendesse a fare il ladro e l'assassino di strada: dei delitti colà compiuti ce ne sarebbe rimasta memoria in qualche cronaca bergamasca o milanese del tempo. E altrettanto c'è da dubitare che meditasse sul serio di vendicarsi del cardinale.
Che in qualche momento di esasperazione possa essergli uscito di bocca qualche frase del genere è umanamente comprensibile, ma che in realtà meditasse tale delitto è un'altra cosa.
Il farlo non era nel suo interesse, ma anzi a tutto suo danno. Se avesse continuato a fare il malandrino, e a commettere l'enorme delitto di uccidere il cardinale, avrebbe suscitato tale generale indignazione da essere prontamente braccato e, presto o tardi, acciuffato e giustiziato come il Farina che attentò alla vita di S. Carlo. La dolorosa esperienza delle pene sofferte gli avrà pure insegnato, da uomo navigato ch'egli era, a diportarsi in modo da non ricadervi una seconda volta.
Dal momento che nessuno seppe mai cosa trattassero fra di loro il cardinale e quell'uomo misterioso, si potrebbe anche ritenere che il Beanio possa aver approfittato dell'occasione per trovar modo di farlo avvicinare da persona di sua fiducia e supplichevolmente insistere per una sistemazione della sua miserabile vita di randagio.
A così pensare mi induce la premura ch'egli ebbe nell'ultima sua lettera di assicurare il cardinale di essere assolutamente estraneo agli eccessi che venivano accadendo, e che ingiustamente gli venivano addebitati.
Lo stesso rifiuto da parte di Federico della scorta armata, ed il suo tranquillo procedere nel disimpegno della visita, ci lascerebbe comprendere com'egli conoscesse di aver nulla da temere dal Beanio.
In ogni caso, dagli elementi dei quali sinora possiamo disporre, si può affermare, con quasi certezza, che dopo il periodo nel quale fu prevosto a Seveso, periodo per lui triste e del quale si riconobbe colpevole, domandando continuamente perdono e misericordia, più niente di grave rimase accertato a suo carico.

* * *

Dove e come finisse il restante di sua vita non ci è dato di sapere. Tra le diverse ipotesi, a meno che nel frattempo sia morto, ci potrebbe stare ancor questa, e cioè che l'arcivescovo, da sant'uomo ch'egli era, come ce lo ha descritto il Manzoni nelle pagine immortali del suo romanzo, lo abbia forse alla fin fine segretamente aiutato a sistemarsi in altra diocesi fuori dello Stato Milanese, espiando nel silenzio e nell'oscurità le sue colpe. Dico forse perché in questo caso probabilmente ci sarebbe rimasta qualche altra sua lettera al cardinale.
Diversamente bisognerebbe ritenere che l'arcivescovo abbia inesorabilmente abbandonato quel disgraziato al suo fatale destino, lasciando a Dio il fare giustizia come scrisse il Rivola.
Come che sia, di lui più nulla si conosce almeno a tutt'oggi.
Quello che è certo si è che Federico non volle più riaverlo fra il suo clero, e ciò per ovvie ragioni facilmente comprensibili.
Sono pensamenti questi, come tant'altri, e dirò anch'io come il Ripamonti, ognuno ne faccia quel conto che crede.


* * *
Il Beanio, fattosi probabilmente prete senza vera vocazione e preparazione sacerdotale, come lascerebbe anche sospettare quel suo peregrinare in diverse sedi per ottenere gli ordini sacri, ma per fìni mondani, per procurarsi cioè una buona posizione, non seppe mantenersi nella retta via di un sacerdote degno di tal nome.
Lasciatosi dominare dall'avidità del denaro e della roba altrui, forse spinto in parte da una situazione non certo florida, data la pensione da versare al suo predecessore e la povertà dei suoi familiari, divenne un interessato manutengolo di ladri e di grassatori, se non forse talvolta assassino lui stesso (18).
Prepotente, quale usavano in quel tempo certi signorotti coi loro bravi di manzoniana memoria, ma scaltro e di talento, avrà pur cercato di non mettersi troppo in vista, per salvare possibilmente la faccia, come si suol dire, di fronte ai superiori ed all'arcivescovo, e avere così il mezzo di difendersi, e dichiararsi magari innocente qualora venissero scoperte le sue malefatte.
Ad ogni modo chi riuscirà a consultare le carte processuali, inquadrandole nell'ambiente sociale, criminale e religioso del tempo, potrà dirci onestamente una parola definitiva sulle colpevolezze e sul pentimento di questo prevosto passato alla storia, attraverso le dicerie e gli scrittori, forse più infamato del dovuto. Non è escluso che gli atti del processo possano essere stati trasmessi alla Curia Romana, e forse giacenti nell'archivio Vaticano.

* * *

La prepositura di Seveso stette vacante sino al 1610 (19), nel qual anno venne nominato dalla Santa Sede, come nelle precedenti nomine e ciò per antico diritto, Sebastiano Ricci di Macerata, sacerdote pio, zelante e caritatevole, che in breve tempo seppe far rifiorire nel popolo di Seveso e dei contorni, la stima del ministero sacerdotale.


APPENDICE

I

In Nomine Domini Amen.


Cunctis ubique pateat evidenter et sit notus quod Anno a Nativitate eiusdem Domini millesimo sexcentesimo decimo. Indictione octava. Pontificatus sanctissimi in Christo patris et D.N.D. Pauli divina providentia Papae quinti. Anno Quinto. Dio vero veneris vigesima sexta mensis februarij. Pro fisco et promotore fiscali Archiepiscopatus Curiae Mediolani contra Ioannem Baptistam Beanium in iudicio coram Ill.mo et Rev.mo Domino Benedicto Ala Utriusque Signaturae Refferendario Almae Urbis et eius districtus generali Gubernatore et Vice Cammerario, Bernabeus Politus sanctissimi D. N. Papae cursor presentavit eidem Ill.mo et Rev.mo D. Gubernatori quandam commissionis sive supplicationis papiri cedulam, quam idem Ill.mus Gubernator ea qua decuit reverentia recepit, et mihi notario consignavit, tenoris sequentis, videlicet.
Beatissime Pater, orta lite et causa inter fiscum et promotorem fiscalem Archiepiscopatus Curiae Mediolani Sanctitatis vestrae oratores ex una, et Ioannem Baptistam Beannium Prepositum Ecclesiae Sanctorum Gervasi et Protasi loci Sevesi Mediolanensis Diocesis reum conventum partibus ex altera, de et super crassatione seu derobatione cuiusdam quantitatis Rasi Serici et diversarum mercium sericarum notabilis valoris in via publica Comasina in societatem aliorum per adiutorum commissorum, rebusque alijs et pro quibus fuit a Vicario Criminali dicti Archiepiscopatus in prima instantia condemnatus in penis privationis omnium suorum beneficiorum et inhabilitatis ad illa, et alia imposterum obtinenda et perpetui carceris in Arce Hostiae Tiberinae ac in omnibus expensis et alijs prout in dicta sententia. Quae sententia in secunda instantia fuit ab A. C. confirmata et quoad penam perpetui carceris fuit eidem de ordine sanctissimi Domini Nostri commutatam ut loco predicti perpetui carceris Hostiae transmitti deberet ad triremos S. D. N., ibique in catenis ferreis ad pedes perpetuo permanere et custodiri deberet prout transmissus fuit, quae postea in tertia instantia fuit confirmata a Gubernatore Urbis, et cum parum sit habere tres sententias conformes et rem iudicatam nisi illius debite exequutioni demandarentur. Dignetur igitur Sanctitas Vestra committere et mandare eidem Gubernatori Urbis, qui ultimam protulit sententiam, attento quod eam non est alteri commissa ut constito sibi de dictis tribus conformibus et quod earum exequutioni sit locus ut procedat procedique mandet ad ulteriorem et finalem exequutionem dictarum trium sententiarum conformium quecumque mandata loco quarumcumque litteram executorialium etiam sub suo parvo sigillo, prout juris decernat et relaxet expensasque legitime factas liquidet, taxet, et moderetur prout de jure, et tam pro illis taxatis et moderatis quam pro omnibus in dictis sententiis et re iudicata contentis mandatum executivum et aliud quodcumque desuper necessarium et opportunum prout de jure decernat et relaxet cum facultate citandi et inhibendi omniaque alia necessaria et opportuna faciendi, dicendi, et gerendi et exequendi singulis diebus et horis preterquam in honorem Dei feriatis, consecratis, et ordinatis Apostolicis stilo Palatij ceterisque contrarijs non obstantibus quibuscumque statum et merita causae quarum tenore etc. De mandato D. N. P. P. Idem Gubernator constito de assertis liquidet, taxet, moderetur, decernat, relaxet, procedat ut petitur et instantiamus etc. Placet D. N. P. P. M. Cardinalis Barberinus. Post cuius quidem commissionis sive supplicationis praesentationem pluribus rejteratis citationibus pro parte dicti D. Promotoris fiscalis contra procuratorem suprascripti Johannis Baptiste in preinserta commissione nominati. Tandem die vigesima sexta mensis Aprilis, Anni Indictionis Pontificatus, quibus supra fuit reproducta citatio tenoris sequentis videlicet. Pro D. Promotore fiscali Archiepiscopatus Mediolani contra Dominum Johannem Baptistam Beanium executorem Bernabeus cursor retulit in iudicio se vigesima quarta huius D. Brandimartem Thomasium excellentem procuratorem pertinenti citasse ad videndum, taxari, et moderari expensas et illas taxatas et moderatas solvendum alias videndum relaxari mandatum executionem ad primam diem retulit in iudicio coram Ill.mo et admodum Excellenti D. Petromarino Ciroccho altero ex nostris locumtenente in criminalibus judice commissario deputato, meque notario publico infrascripto Dominus Vincentius Accomandutius procurator et petijt et obtinuit taxari et moderari expensas prout in folio tenoris ut in eo quae expensae taxatae adscendunt ad summam scutorum nonaginta quatuor et bononenos quinquaginta et ita etc. Omni etc. Super quibus omnibus premissis petitum fuit a me Notario publico infrascripto unum vel plura publicum seu publica fieri atque confici instrumentum et instrumenta. Actum Romae in Aedibus et Palatio eiusdem Illustrissimi Gubernatoris positis apud Montem Iordanum iuxta suos fines etc. Presentibus ibidem Dominis Gentile Gentilino Romae, et Patritio Massaro de Monteleone, Testibus ad predicta habitis, vocatis atque rogatis.
Ego Angelus Lactantium a Spoleto publicus apostolica auctoritate et pro Venerabili Archiconfraternitate Charitatis in officio Criminali Ill.mi et Rev.mi D. Almae Urbis Gubernatoris notarius actuarius de premissis rogatus.
Ideo in fidem hic me subscripsi et meo solito signo apposito publicavi requisitus ad laudem Dei et Sancti Hieronimi Charitatis (20).

II

G. 253 inf., fol. 95 (N. 51)
Ill.mo e Rev.mo signor mio osservandissimo,
Il Reverendo Nicolò Rusca Arciprete di Sondrio con lettera de' 27 di Dicembre scrive al signor Cardinale di Araceli, che essendo fuggito di Galera Gio. Battista Beani già Prevosto di Seveso si è ritirato in quelle parti, et fa instanza di essere habilitato all'esecutione degli Ordini Sacri, et dimanda salvocondotto per far rivedere la sua causa, pretendendo di haver ricevuto molti aggravii, et pregiuditii nella speditione di essa, et privatione della Prepositura conferita a Sebastiano Ricci già fiscale di cotesto Arcivescovato et supplica, che sopra i frutti di detta Prepositura se gli riservi qualche pensione, per sostentarsi. Di che essendosi trattato in Congregatione avanti Nostro Signore al primo del presente la Santità Sua si è contentata di concederli detto salvocondotto di venir qui, et esser inteso sopra la revisione della causa et così scrivo con questo spaccio al detto Arciprete. Di più ne dò aviso a V. S. Ill.ma per ordine di Nostro Signore per sua informatione del salvocondotto concesso, et anco perché possa scrivere quel che l'occorre intorno alla causa principale, et privatione della Prepositura. Et raccomandandomi tratando alla buona gratia di V. S. Ill.ma le bacio humilissimamente le mani.
Di Roma li 3 di Marzo 1612.
Di V. S. Ill.ma et Rev.ma Humilissimo et Devotissimo Servitore
Il Cardinale Arigone

III

G. 211 inf., fol. 8 (lettera n. 6) minuta
30 Ottobre 1611
al sig. Cardinale Arigone,
Inviandomi V. S. Ill.ma la lettera che Giovanni Battista Beanio già Prevosto di Seveso a cotesta S. Congregatione di salvacondotto amplo e libero per qualche anno con esibitione di venir a Roma senza toccare questo Stato, e commettendomi di nuovo per ordine di Nostro Signore ch'io dica in ciò il mio parere, non posso né devo se non riportarmi alla determinazione che parerà a Sua Beatitudine di fare, per essersi non solo trattata et ispedita costì la causa in seconda et terza instanza da due de' primi Ministri della Santa Sede, ma conosciuta ancora la qualità della persona istessa, e se ben a me vien riferto da amici intrinseci del medesimo Beanio di trasferirsi costì anzi dice liberamente non volere venire egli dice assolutamente, ma che procura danari per trasferirsi altrove, con tutto io piacendo alla Santità Sua di concedergli il salvocondotto per andar altrove, mi rimetto al santissimo suo giuditio, et ho caro che si faccia quello comporta il giusto nella causa d'esso persuadendomi che in ogni caso che gli limitarà il tempo di venire et se le metteranno quelle conditioni che si giudicano necessarie. Dirò oltre gli altri rispetti esser il Beanio non mio suddito ma della Diocesi di Como ove sta di presente tanto volentieri ne lascio a chi spetta il pensiero.

IV

G. 210 bis. inf., fol. 549 (lettera n. 288)
Ill.mo et Rev.mo Signor mio osservandissimo,
Giovanni Battista Beanio già Prevosto di Seveso con lettere di 18 et 24 di Settembre scritte da Morbegno a questa Sacra Congregatione, et a Monsignor Vulpio Arcivescovo di Chieti, ricerca con molta instanza, che si gli conceda libero salvo condotto per qualch'anno di qualsivoglia imputatione, et delitto sin qui dedotto, o che si possa contra di lui dedurre, promettendo venir qui di lungo senza toccare cotesto Stato. Di che essendosi trattato in Congregatione del Sant'Officio avanti Nostro Signore a XI del presente; la Santità Sua mi ha ordinato, ch'io mandi a V. S. Ill.ma l'alligata copia di detta lettera, acciò ella si degni vederla, et scriver il parer suo se sia espediente di concedere a detto Beanio il salvo condotto. Et a V. S. Ill.ma bacio per fine humilmente le mani.
Di Roma li XIII de Octobre MDCXII.
Di V. S. Ill.ma et Rev.ma Humilissimo et Devotissimo Servitore
Pompeo Cardinale Arigone

* [Il presente articolo apparso in Memorie Storiche della Diocesi di Milano, Milano 1963, X, pp. 495-515, riprende quello apparso una prima volta sulla rivista: Archivio Storico Lombardo, XLVIII (1921/3-4), pp. 567-574]