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[Recensione apparsa sulla rivista Archivio Storico Lombardo, a. XL (1913/40) pp. 407-410]

LUIGI ANFOSSO, Storia dell’archibugiata tirata al cardinale Borromeo in Milano la sera del 26 ottobre 1569. Milano, tip. Sacchetti & C., 1913, in 8 gr., pp. 355.

L’autore con questo studio ci ha dato un lavoro di indagine storica corredato di numerosi documenti, per quanto manchino i più importanti e decisivi e ciò, diciamolo subito, non per colpa sua. L’esito non mortale dell’archibugiata l’Anfosso ritiene, secondo il suo modo di vedere, avvenuto non per miracolo, ma per pure cause accidentali. Non abbiamo difficoltà ad accettare questa opinione: miracolo più miracolo meno nulla aggiunge e nulla toglie alla santità del cardinale Borromeo. Ciò che invece ci interessa è il modo col quale si iniziò e si svolse il processo: processo aperto col trasformare una confidenza in una denuncia, continuato con la crudeltà che i tempi consentivano, e chiuso con la condanna a morte di quattro Umiliati, e cioè del Legnano, del Campana, del Marizio, tutti e tre prevosti, e del Farina, sacerdote, autore materiale del misfatto. Il Campana e il Marizio, scrive l’Anfosso, forse non erano meritevoli di tanta pena. L’istruttoria, i cui risultati potrebbero anche avere un valore relativo perché estorti colla tortura e con confessioni poi ritrattate, fu diretta da Roma e colà pure venne emessa la risoluzione su cui il vescovo di Lodi pronunciò la sentenza di degradazione e la consegna al braccio secolare. Meno male che il Senato di Milano si mostrò, contro le previsioni del vescovo di Lodi, più mite nella condanna verso il Farina. Mentre li altri, come nobili, dovevano soltanto subire il taglio della testa, al Farina invece toccava essere condotto per la città sopra un carro fra continui tormenti, avanti la porta dell’arcivescovado doveva essergli tagliata la mano destra, e infine morire squartato in piazza. Il Senato sanzionò che, senz’altri tormenti, gli fosse tagliata la mano destra e venisse quindi impiccato. Roma aveva assunto tutta la responsabilità dell’affare, perché l’autorità civile si era dissimulata dietro il cardinale, e questi a sua volta aveva ufficialmente dichiarati che per conto proprio non intendeva procedere. Perciò in merito a questo processo non si potrà dire l’ultima parola fino a tanto che non si potranno conoscere gli atti dell’istruttoria e la motivazione della risoluzione: atti e motivazione che devono trovarsi nell’archivio del Santo Uffizio. Per questa ragione parecchie deduzioni, che l’Anfosso fa nelle sue indagini coi documenti che poté avere sotto mano, si devono ritenere se non erronee per lo meno intempestive. Una affermazione, tra le altre, che riteniamo non conforme al vero ci sembra l’accusa al cardinale Borromeo di aver violato il segreto della confessione verso il Nassino, e di non aver nemmeno redarguito questi quando gli rivelò cose che il Legnano gli aveva manifestate come in confessione. È vero che il Nassino si aperse col cardinale come in confessione, ma questo non vuol dire che fosse una vera confessione come si è sempre ritenuto e si ritiene nella disciplina della Chiesa cattolica. Si richiede perché esista l’obbligo sacrosanto del segreto sacramentale che da una parte si abbia la manifestazione della colpa e dall’altra l’assoluzione in nome di Cristo. Ora, per quanto sappiamo dai documenti pubblicati dall’Anfosso, questo non si è punto verificato, e perciò, sotto questo rapporto, giustamente il Borromeo non ritenne mai che siavi stata vera confessione sacramentale. Non si può dunque affermare che il Borrorneo abbia violato il sacramento non solo nella forma ma nemmeno nella sostanza. Che il Nassino avesse tutto l’interesse a manifestarsi col cardinale come in confessione, si capisce; veniva così a tutelare la sua confidenza con un segreto inviolabile, ma appunto per questo il Borromeo non ci sentì e non volle assumere la parte di confessore. E così, almeno io ritengo, si spiega come il Nassino dicesse altresì che al cardinale rivelava cose udite in confessione dal Legnano, e non fosse redarguito. Il Borromeo comprese che il confidente parlava così, non perché fosse vero, ma per maggiore garanzia del suo segreto. Le due espressioni dai documenti si equivalgono, almeno fino a prova positiva contraria. Quali furono i probabili motivi che spinsero il Nassino a far la sua confidenza? Secondo l’Anfosso il Nassino forse era un ambizioso che sperava entrare nelle grazie del suo signore, forse nel proprio intimo era realmente torturato dall’idea di aver taciuto quanto era a sua notizia: qualunque possa essere stato il movente, certo dovette presentarsi al cardinale in forma di chi invoca perdono. Quello che diciamo riguardo all’accusa che il cardinale abbia violato il segreto sacramentale per il Nassino, vale anche per il Legnano, quando questi, più tardi, spinto dal Nassino, si aperse col Borromeo. Su questa faccenda potrebbe dare definitivamente luce un’altra scrittura che il cardinale inviò a Roma insieme alla sua deposizione: tale scrittura deve trovarsi negli archivi Vaticani o meglio in quello del Santo Uffizio. Del resto in fatto di violabilità del segreto sacramentale in processi della Inquisizione romana già il Luzio ebbe a lanciare l’accusa, accusa non Provata ma che vorrebbe giustificare con documenti attinenti a quei processi (1). Contro il Luzio si è levato un coro di proteste dai giornali cattolici: e va bene. Ma è vero o non è vero quanto sostiene il Luzio? No? E allora si mettano le carte in tavola. La questione è tutta qui: il resto sono tutte chiacchiere. Per il nostro caso, come per tutto il processo, giriamo la proposta a qualche nostro chiaro consocio ecclesiastico residente a Roma, il quale, potendo forse avere non difficile accesso a quell’archivio impenetrabile, ci faccia piena luce.

Ammesso che il cardinale Borromeo non abbia violato alcun segreto o sigillo sacramentale, rimane tuttavia il dubbio che solo apparentemente abbia voluto dichiarare di rimanere estraneo al processo e che non abbia dimostrato tutta quella generosità che gli apologisti gli attribuiscono in questo affare. Non è il caso di ripetere quanto scrive l’Anfosso, certo con qualche esagerazione; ma è pure evidente che il cardinale avrebbe potuto spiegare a Roma una maggiore energia nel volere il perdono de’ suoi nemici, che per mezzo suo furono spinti in bocca al lupo, non fosse altro coll’ottenere che la pena capitale fosse almeno cambiata colla galera (2). La delicatezza dei caso doveva spingerlo ad essere più che mai generoso. Quello che aveva ottenuto pel Nassino poteva almeno in piccola parte ottenere anche per gli altri, specialmente pel Legnano, portandosi magari di presenza a Roma come del resto fece per altre divergenze. Ma sull’uomo santo ebbe forse sopravvento l’uomo di governo: strano contrasto che vediamo più volte verificarsi in questa complessa figura di santo. Un valente studioso di cose milanesi, il Verga, ebbe a dire che " questo spirito straordinario, se ha trovato la via degli altari, non ha ancora avuto dalla storia quel giudizio ponderato ed equanime che gli spetta per le opere che compì da uomo, cogli uomini e per gli uomini "(3).

Un’ultima osservazione. L’Anfosso mette l’affare dell’archibugiata in relazione coi protestanti Grigioni, e questi opina siano i veri mandanti occulti che il Legnano non seppe o non volle manifestare. Le ragioni addotte, e cioè la inimicizia esistente fra i Grigioni e il Borromeo, la durata del processo, l’essersi il cardinale messo in viaggio pei Grigioni il giorno stesso in cui i condannati venivano giustiziati, quasi volesse recar loro la notizia dell’inanità dei loro sforzi, non ci paiono convincenti. Non ci sembra proprio il caso di andar tanto lontano nel ricercare la causa del delitto. A Milano in quei giorni c’era più che materia sufficiente perché si avesse a tramare contro il cardinale in lotta per le riforme coi canonici della Scala, in lotta coll’autorità civile per le immunità, e più che tutto in lotta cogli Umiliati. E questi che venivano toccati più nel vivo, cioè negli interessi, decisero, tentando un colpo estremo, di sopprimere il Borromeo.

RINALDO BERETTA