Carlo Borromeo studente squattrinato

Carlo Borromeo nel novembre 1552 (aveva appena compiuto i quattordici anni) andò studente a Pavia, dove ebbe un pìccolo appartamento per sé e per il suo seguito. Sono state pubblicate le sue lettere giovanili alla famiglia dalle quali si possono vedere le strettezze in cui viveva. Eccone qualche esempio: «Essendo venuto messer prete Gotardo con vinti scudi cioè sei per Messer Prete Tommaso, et 14 altri delli quali se ne darà 12 al Signor Martino Vev. qual n'ha pagato vinti al Patrone della casa per noi et due ne teneremo per uso di casa sino che ne mandiate delli altri» (lettera dell'8 dicembre 1552).

Spesso deve farsi prestare del denaro da amici, perché ciò che riceveva dal padre non bastava: «Hieri venne Messer Sebastiano con il Padre del Sig. Giov. Francesco e mi portò ventiquattro scuti, delli quali ne anderà duodici o poco più nelli libri et otto o nove a pagare li debiti, perché Messer Sebastiano m'ha detto che V.S. vuole che in brieve io vadi a Merengano (Melegnano, ndr) a baciare le mani al Sig. Marchese di Melignano (Melegnano, ndr). Haviso V.S. come io sono pelato in tutto di calze, et bareta, gipone (giubbotto, ndr) et d'ogni cosa et bisognerà ch'io habbia stivali et capello et speroni. Però V.S. faccia come le pare». Così lo studentello scriveva candidamente il 15 gennaio 1553 a suo padre. Ci fa tenerezza questo giovinetto che all'esterno deve presentarsi un nobile inappuntabile, mentre è «pelato in tutto» e non è detto che il padre provveda subito: infatti un mese dopo (esattamente il 15 febbraio) scrive ad un suo amico Provaso Contino pregandolo che interceda presso il padre. «Io sono tutto spelato et di baretta et di calze et di gippone et d'ogni cosa...».

Si potrebbe spigolare nelle duecento venti lettere e si vedrebbe che nonostante l'oculatezza che portava in tutto, tuttavia spesso mancava di cose necessarie e viveva spesso con prestiti. L'austerità incominciava presto per il futuro santo.

Come San Carlo preparava le prediche

Nessuno si meraviglierà se dovrà constatare che i Vescovi prima di S. Carlo non predicavano. La predicazione era riservata al clero regolare cioè ai Frati, di cui alcuni, i Quaresimalisti, erano celebri e celebrati e venivano richiesti da capi di stato (Principi, Dogi, ecc.): erano predicatori che avevano solo quella incombenza e quindi potevano prepararsi scrivendo totalmente il sermone e imparandolo a memoria. S. Carlo, pur non avendo doti oratorie, volle ubbidire ai decreti del Concilio di Trento e decise di predicare. Naturalmente per tenere il discorso bisognava prepararsi e purtroppo il tempo per l'Arcivescovo di Milano era assai limitato: ed allora usava le ore della notte. Talvolta tornava stanco dalle giornate d'impegni e soprattutto per il viaggio, spesso disagevole: bisognava però mettersi al tavolo, consultare libri al lume di una lucerna e poi scrivere la predica.

Predicava in lingua italiana, ma stendeva la predica in uno schema latino. Lo schema era steso in forma di albero genealogico: da un'idea, ne veniva un'altra, tutte logicamente studiate. Una predicazione dunque razionale, ma basata sui testi biblici: infatti una delle sue letture assidue era quella della Bibbia e questo serviva per nutrimento dell'anima sua e come meditazione per il suo popolo. Questi schemi, a forma di alberi genealogici, erano detti «arbori». Su un foglio grande, con scrittura di mano vigorosa, ma stanca e frettolosa, scriveva l'accenno dei pensieri. In fondo vi metteva spesso note; da quale autore aveva preso i pensieri, quando era stata tenuta e dove la predica. Questi fogli finiti poi in mano al Vescovo di Vercelli, Monsignor Bonomi, suo alunno spirituale, furono ripresi dal card. Federico, messi ordinatamente in album e collocati nella Biblioteca Ambro-siana dove sono a disposizione di qualche paziente ricercatore, che voglia ritrascriverli e poi stamparli a gloria di S. Carlo ed ad utilità di tutti i buoni fedeli.

Carlo Marcora