Visita pastorale di S. Carlo alla parrocchia di Robbiano

Nel 1466 troviamo già una buona parte delle antiche cappelle delle nostre pievi trasformate in parrocchie, o per dire meglio rettorìe, come si raccoglie dallo Status Ecclesiae Mediolanensis di quell'anno; e con decreto del 26 settembre 1468 l'arcivescovo Nardini riservava a sé per l'innanzi l'approvazione dei sacerdoti eletti a benefici in cura d'anime.
Non erano tuttavia parrocchie nel pieno senso giuridico odierno della parola; lo erano di fatto ma non di diritto, poiché la plebana continuava ancora nella legislazione ecclesiastica ad essere considerata la vera parrocchia. Il Concilio Tridentino riconobbe poi anche canonicamente la nuova situazione ch'era venuta formandosi, e in tal modo le parrocchie dei villaggi lo furono altresì di pieno diritto.
L'assestamento definitivo, poiché c'era molto disordine e confusione, verrà impresso da S. Carlo coi suoi sinodi provinciali e diocesani, in base ai decreti del sopradetto Concilio, il quale aveva perciò concesso ai vescovi facoltà straordinarie per le riforme richieste dai bisogni locali, e via via perfezionato, sulle sue orme, dagli arcivescovi successori.
Benché non manchi, dalla fine del secolo XIII in poi, qualche esempio di parrocchia eretta canonicamente, nondimeno si deve ritenere che - in generale - le parrocchie odierne si formarono per naturale e necessaria evoluzione, in correlazione allo svolgersi della vita sociale e religiosa, dove prima e dove dopo, a seconda dell'importanza dei luoghi, della popolazione, e dei mezzi economici al loro funzionamento.
Il procedimento evolutivo dall'antico ordinamento parrocchiale plebano verso il nuovo dev'essere incominciato, quasi inavvertito, molto tempo prima del 1466 per estendersi gradatamente, perché tutte le istituzioni prima di giungere a maturità passano attraverso un lavorìo più o meno lungo di evoluzione, e tanto più quelle ecclesiastiche, essendo la Chiesa per sua natura tenace delle antiche consuetudini.
Né in questo può fare difficoltà, a mio avviso, la Notitia cleri del 1398, nella quale non vi è segnata parrocchia alcuna all'infuori della plebana o canonica, sia perché trattandosi di un estimo il compilatore può aver seguìto il metodo di simili lavori anteriori senza preoccuparsi di cose non inerenti al suo scopo. sia perché le parrocchie odierne erano sul formarsi e non ancora canonicamente riconosciute.
A Giussano, per esempio, in un documento del 29 novembre 1367 il sacerdote Andrea Ghiringhelli (De giringelis), è dichiarato beneficiato e rettore (beneficialis et rector) della chiesa dei santi Filippo e Giacomo. Il rettore fu qualchecosa di mezzo, difficile a precisare nelle sue attribuzioni, tra il semplice cappellano e il parroco propriamente detto dopo la riforma Tridentina.
I tempi del Rinascimento per un complesso di cause, segnarono un rilassamento nella fede e nei costumi, nonostante lo splendore delle lettere e delle arti. Ne avvenne, tra l'altro, che mentre prevosti e canonici, investiti talora di più benefici, non facevano per lo più residenza, e il cattivo esempio scendeva dall'alto perché facilmente vi si assentavano anche i vescovi e gli arcivescovi, dall'altra la cresciuta popolazione più non voleva saperne di portarsi per le funzioni parrocchiali alla lontana plebana. Per necessità di cose i beneficiati, addetti alle cappelle o chiesette dei villaggi, incominciarono ad essere e ad operare indipendentemente dal pievano.
Originarono in tal modo le rettorìe di campagna, e, poiché mancava naturalmente un piano prestabilito, sorsero caoticamente e per lo più senza quanto era necessario al culto.
Si era giunti al punto che in ogni località, anche di pochissimi abitanti, dove c'era un prete beneficiato, si prese a funzionare parrocchialmente.
S. Carlo dovette perciò con misure radicali, non solo provvedere alla restaurazione della disciplina ecclesiastica, ma operare unioni di benefici, traslazioni di titoli, soppressioni ecc., tanto da avere parrocchie discretamente dotate per il loro funzionamento. Persino a Brugora, presso Montesiro, nella chiesa delle monache si battezzavano dal cappellano i coloni dipendenti dal monastero. Lo sfasciarsi dell'antico ordinamento plebano aveva inoltre recato un grave danno all'educazione e istruzione del clero, perché quando la pieve era effettivamente l'unica parrocchiale di tutto il suo territorio, presso la matrice si formava regolarmente il proprio clero e dal pievano stesso riceveva gli ordini minori.
Nel periodo di transizione dall'antico al nuovo regolamento parrocchiale Tridentino, il clero delle campagne veniva invece, per forza di cose, e nel migliore dei casi, per lo più reclutato fra i giovani che prestavano più o meno servizio presso le chiese, e singolarmente dalle loro famiglie avviati al sacerdozio senza la debita preparazione ed istruzione.
Un clero così fatto non poteva essere all'altezza del suo compito. Di qui la ragione per cui una delle opere più urgenti cui pose mano S. Carlo fu l'erezione dei Seminari.
S. Carlo, creato arcivescovo di Milano nel 1560, facendovi permanente residenza dal 1565 fino alla sua morte avvenuta nel 1584, trovò la sua diocesi, come tutte le altre della provincia ecclesiastica milanese, quanto mai bisognosa di riforme.
Da oltre mezzo secolo la nostra diocesi più non vedeva i suoi arcivescovi; nominati si accontentavano di riscuoterne le rendite, delegando ad altri il governo immediato della diocesi. Il clero, specialmente nelle campagne, lasciava molto a desiderare per scienza e zelo sacerdotale, mentre il popolo vegetava in una fede spesso offuscata dall'ignoranza e dalla superstizione. Molti beni di chiese erano andati usurpati o danneggiati, e le chiese stesse trascurate e mancanti, più o meno, di quanto era necessario al divin culto e all'amministrazione dei Sacramenti.
Alcuni biografi di S. Carlo dipingono a più fosche tinte le condizioni religiose e sociali del tempo, probabilmente per dare maggior risalto all'opera di riforma svolta dal santo, generalizzando cose e fatti particolari, quasi non bastasse quel molto che già esisteva nella realtà. Ma non bisogna esagerare, giudicando superficialmente una situazione sociale e religiosa complessa nelle sue cause e nei suoi effetti.
Ad ogni modo, se in generale il nostro clero di campagna non brillava per scienza, capacità e zelo, e non poteva essere altrimenti mancando ancora i Seminari, era tuttavia, nel complesso, di buona condotta morale relativamente ai tempi; d'altra parte il popolo si conservava moralmente sano forse più che ai nostri giorni, per quanto nei suoi doveri verso Dio avesse non poca parte l'ignoranza e la superstizione, e non mancassero qua e là, come anche nella nostra pieve, certi disordini quali il lavorare in giorno di festa, il ballo, il giuoco, ecc. Disordini del resto, più o meno, di tutti i tempi.
Se mai il vero marcio era più in alto. Necessitava, più che altro, per rialzare il tenore della vita religiosa, un arcivescovo energico riformatore e organizzatore, e questi fu per noi provvidenzialmente S. Carlo.

Il santo arcivescovo si mise tosto all'opera per porvi rimedio. Mandò suoi delegati di fiducia in ogni pieve della diocesi per una ricognizione onde emanare i più urgenti decreti (78), e quindi intraprese personalmente la visita pastorale. La nostra pieve fu da lui visitata nell'agosto del 1578. Aveva già iniziata la visita, incominciando da Agliate, quando impegni urgenti lo richiamarono a Milano. Ma desiderando finire l'opera incominciata, il 24 agosto, ch'era in domenica, partì da Milano arrivando a Desio, (hora una cum dimidia noctis), dove pernottò. Al lunedì di buon mattino giunse alla parrocchiale di Giussano ricevuto dal parroco, dai cappellani, dai nobili e dal popolo del luogo. Compiute le sacre cerimonie della visita, celebrò la messa, distribuì la comunione ai fedeli e amministrò la cresima a circa 400 persone.
Parroco era D. Francesco Crespi dell'età di 27 anni, ordinato sacerdote da S. Carlo il 17 dicembre 1575, e successo il 4 gennaio 1576 al curato D. Amadio Durado cremonese (79). La parrocchia contava circa 850 anime in 130 focolari o famiglie. La chiesa parrocchiale, di recente costruzione, fu trovata abbastanza ampia ma ancora incompleta. Quella vecchia, ch'era stata atterrata per dar posto alla nuova, era stata consacrata dal vescovo Ferragata.
Tra i non pochi decreti lasciati dal santo arcivescovo riguardanti la chiesa, le confraternite o scuole, gli oratorii, i legati, ecc., meritano di essere ricordati quelli per una saggia ed oculata amministrazione dei beni dei poveri. Questa scuola o cassa dei beni dei poveri, che si trova in quasi tutte le parrocchie di allora, si è poi trasformata col tempo, attraverso varie vicende, nelle attuali laiche Congregazioni di Carità.
Nel medesimo giorno se ne venne a Robbiano accolto dal parroco e dal popolo, compiendovi la sacra visita. Tenne un sermone, diede la benedizione solenne, e, dopo amministrata la cresima, non essendovi la casa parrocchiale, si recò senz'altro a Verano (ubi pervenit hora una cum dimidia noctis), ricevuto presso la chiesa da quel parroco, da alcuni altri sacerdoti e dal popolo: compiute le sacre cerimonie della visita si ritirò nella casa del curato (cum iam esset quasi hora tertia noctis). Il giorno seguente celebrò la messa, distribuì la comunione e cresimò circa 200 persone (80).
In luogo del campanile vi stava un pilastrello arcuato al disopra della facciata della chiesa con una campanella. Non mancava la scuola del SS. sacramento (eretta nel 1575) e della Dottrina Cristiana, per quanto questa fosse più frequentata dalle donne che dagli uomini. Il cimitero si stendeva a sinistra della chiesa ma non cintato. Reggeva la parrocchia Gio: Pietro Giussani, della nobile stirpe dei Giussani di cui un ramo dimorava in Verano, ordinato sacerdote il 23 maggio 1562 e fatto parroco l'8 giugno di quell'anno stesso per libera rassegnazione della parrocchia fattagli dallo zio Gio: Battista Giussani. Era poco o niente istruito, dicono gli atti di visita, e inetto alla cura d'anime: non predicava ma leggeva in chiesa il catechismo romano in volgare. La popolazione della parrocchia era di circa 400 anime suddivise in 55 famiglie.
Uno stato d'anime del 1574 ci dà anime 376 con 55 focolari: le frazioni di allora erano la Caviana con una famiglia di 17 persone; S. Giorgio con una famiglia di 7 persone; Morigiola con una famiglia di 8 persone; cascina degli eredi di messer Lattuada con una famiglia di 7 persone. Sul Lambro, cioè nella valle, vi erano 11 molini e 16 famiglie di complessive 133 persone. Perciò nel centro del paese dimoravano 204 persone e 172 nelle frazioni. Professioni?: c'erano 13 molinai, un oste, un mercante di panni, un calzolaio, un ciabattino, due tessitori di lino, un ferraio, due prestinai dei quali uno nella valle, un battilana, un cavallante: il restante della popolazione, tranne alcuni nobili, erano contadini. Come dappertutto, anche per Verano S. Carlo lasciò non pochi decreti.
La chiesa di Robbiano, indecente e mancante della necessaria suppellettile al divin culto, fu trovata presso a poco nelle medesime condizioni verificate dal Sormani e dal Cermenati. Di nuovo non c'era che il legname pronto per soffittare la chiesa (81). Il beneficio, di circa 160 pertiche di terra, non dava che la rendita di circa 250 lire, ma il curato godeva inoltre il beneficio semplice di S. Iacobo e Cristoforo in Giussano.
La popolazione contava 140 anime distinte in 25 famiglie (82). S.Carlo vi eresse lui stesso la scuola del SS. Sacramento, raccomandando al parroco l'iscrizione di molti confratelli; impose di tenere continuamente nella chiesa il SS. Sacramento sotto pena di 25 scudi; di erigere nel termine di quindici giorni la scuola della Dottrina Cristiana sotto pena di altri 10 scudi; di rifare il battistero secondo le istruzioni generali fra sei mesi; di provvedere i necessari paramenti; di costruire una nuova sagrestia e un nuovo altar maggiore secondo le regole prescritte; di edificare la casa parrocchiale, ecc. Ordinò infine agli eredi del q. sig. Gio: Angelo Elli, obbligati a far celebrare un annuale di 10 messe nella chiesa di Robbiano di presentare il documento relativo, e altrettanto impose agli eredi del q. sig. Quirico Fabrica, tenuti essi pure ad un annuale di altre 10 messe, sotto pena di multa e di scomunica.
Dopo la visita pastorale mandò a verificare l'esecuzione o meno dei decreti. Da una relazione si rileva che a Robbiano nei giorni festivi, prima della messa si cantavano in chiesa dal popolo le litanie. In quasi tutte le feste, specialmente nelle principali, non mancavano uomini e donne che si accostavano alla comunione, mentre gli scolari del SS. Sacramento si comunicavano la seconda domenica del mese. Subito dopo il desinare si insegnava la Dottrina Cristiana, e si cantava il vespero colle litanie. Quanto ai funerali, i parenti del defunto invitavano quanti preti loro accomodava, dando al curato 32 soldi e la cera, e 10 agli altri sacerdoti; per gli infanti soldi 15 e il parroco ci metteva la cera. Per gli uffici da morto si davano 20 soldi al parroco e 10 agli altri sacerdoti: al prevosto quando interveniva soldi 15. Durante il trasporto del cadavere dalla casa alla chiesa la maggior parte dei parenti piangevano e gridavano.
Questa usanza del piangere e gridare immoderatamente, la quale ci ricorda gli antichi usi pagani e che l'arcivescovo volle tolta, era diffusa in molte altre parrocchie. Il curato di Casiglio presso Erba, ad esempio, nel 1574 informava l'arcivescovo che riguardo all'uso dell'immoderato piangere sopra il corpo dei morti non si era potuto in tutto levare, soggiungendo di essere invece riuscito a far sì che la benedizione delle puerpere si facesse in chiesa, che alle medesime più non si desse pane azimo, che quando alla messa si faceva l'oblazione più non si sporgesse la patena agli offerenti, che gli infanti battezzati più non si ponessero sull'altare.
A Montesiro, quando si levava il cadavere per portarlo in chiesa, le donne facevano uno strepito indiavolato: " magno cum strepitu et clamoribus rem sacerdotalem perturbant, videntur quodammodo insanire velle, et non solum clamant, verum etiam percutiunt ellevantes corpus ipsum ", e nel passato si usava porre col defunto una gallina nera in una cassetta. E, sempre in fatto di funerali, aggiungerò che il prevosto Riva di Missaglia notificava per la sua pieve che, portandosi i morti a seppellire, alcuni curati, anzi la maggior parte, appena entrati in chiesa aspergevano il popolo coll'acqua benedetta, così che questo se ne andava per i fatti suoi senza assistere oltre al funerale, e i preti ne traevano motivo per spegnere tosto le candele.
Morto S. Carlo nel 1584 nell'età di 46 anni, e dopo un decennio di intermezzo con Gaspare Visconti, fu eletto arcivescovo di Milano Federico Borromeo, il quale nel lungo pontificato di 36 anni lavorò a completare la riforma nelle parrocchie già bene avviata da S. Carlo. Erano cugini, ma benché diversi per temperamento, molto si rassomigliarono per santità di vita e zelo nell'adempimento dei loro doveri episcopali.
Con questi due santi uomini le parrocchie di campagna, a furia di sorvegliare, insistere, minacciare, vennero man mano assestandosi così che alla morte di Federico la riforma Tridentina era sostanzialmente compiuta, e dava i suoi frutti nel popolo mediante un clero colto e zelante che veniva educandosi nei Seminari.
Gli arcivescovi successori trovarono ormai superate le maggiori difficoltà e spianata la via ad un sempre migliore perfezionamento secondo le necessità dei tempi. Il card. Federico visitò la pieve di Agliate in diverse riprese. A Robbiano arrivò il 15 settembre del 1606 (83).
La nostra chiesa continuava ad essere così tanto trascurata che l'arcivescovo nei suoi decreti proibì che si avesse a conservare la SS. Eucaristia e ad amministrare il Battesimo, se fra un mese la popolazione non si obbligava con pubblico istrumento a provvedervi nel termine di due anni, e cioè a riedificare nella forma prescritta le cappelle dell'altar maggiore e del battistero, e a provvedervi un tabernacolo più decoroso.
E poiché la navata centrale bastava da sola a contenere il popolo, suggerì che tra il primo arco della nave minore si costruisse una sagrestia, e nell'arco seguente una cappella in onore della Beata Vergine, e nel terzo la cappella del battistero, il tutto eseguito mediante architetto e previa approvazione del disegno da parte dell'Ill.mo e Rev.mo Mazenta prefetto delle fabbriche ecclesiastiche. Prescrisse che davanti alla porta maggiore della chiesa si innalzasse un vestibolo a volta sorretto da due colonne per le cerimonie previe al battesimo; che i muri della chiesa fossero completamente imbiancati di calce; che il pavimento, di lastroni tutti sconnessi, fosse rifatto; che vi si collocasse un vaso di pietra per l'acqua santa ad uso del pubblico, e un nuovo confessionale di noce secondo le prescrizioni.
Volle inoltre che si cintasse il cimitero onde non avessero a penetrare gli animali, specialmente dalla parte della pubblica strada, che in esso vi si erigesse una colonna di sasso sormontata dalla croce, e che vi si estirpassero le piante, permettendo soltanto i gelsi ad uso del beneficio verso la pubblica via e purché fossero distaccati dalle fosse dei poveri morti. Intimò che si avesse ad ultimare al più presto la casa parrocchiale con cantina sotto il locale della cucina. La popolazione doveva mantenere un chierico ascritto al clero, o per lo meno un fanciullo laico che servisse ai divini uffici, diversamente proibiva al parroco di celebrare. Raccomandò poi vivamente di richiamare in vita la scuola del SS. Sacramento.
L'argomento ci porta a far cenno di alcuni decreti per le vicine parrocchie di Giussano e di Verano.
Per Giussano ordinò che per le processioni si avesse a provvedere un ostensorio d'argento come esigeva l'importanza del luogo e i molti nobili che vi dimoravano: Giussano era infatti allora e adesso, dopo Carate, la parrocchia di maggior popolazione della vasta pieve di Agliate. Nelle processione le aste del baldacchino dovevano essere portate dai nobili oppure dai primari fra il popolo, deposte però prima le armi. Raccomandò che si avesse ad ultimare il campanile, la chiesa, l'ossario, e che il cimitero fosse chiuso con muro da ogni parte.
L'innalzamento della torre campanaria è del seicento inoltrato. Incominciata fin dal tempo di S. Carlo era rimasta incompiuta: " Campanile satis insigne est inceptum iuxta Capellam maiorem in cornu Epistolate, sed imperfectum, habetque duas campanas ". (Atti di visita di S. Carlo).
Tralasciando i decreti riguardanti la sagrestia, il battistero, i legati, gli oratorii, le scuole o confraternite, ecc., ricorderò invece come per la casa parrocchiale prescrisse che i locali si accrescessero in modo di averne tre superiori più un portico a pian terreno, e che a questo scopo si acquistasse l'annessa casa di proprietà della Cassa dei poveri. Volle ancora che fosse tolta dal giardino parrocchiale l'acqua che riceveva dal tetto della casa confinante del sig. Ercole Giussani (84). Impose al parroco di rivendicare un pezzo di terreno del beneficio usurpato dal sig. Gio: Battista Giussani, e di esigere tutta la decima del vino da chi era tenuto secondo il diritto o la consuetudine, e non di un vino qualunque, ma il crodello, pena la scomunica ai renitenti. Tutto questo riportiamo per far rilevare le sagge e vive sollecitudini del cardinale. Oggi Giussano ha una nuova chiesa ben più ampia e una nuova casa parrocchiale fornita di tutte le comodità moderne, come richiede l'importanza della parrocchia che oggi sorpassa le 7 mila anime.
Fra i Giussanesi si praticavano allora due pie consuetudini. La prima era quella di santificare i tre giorni consecutivi alla solennità dell'Epifania in onore dei santi Re Magi, e l'altra, per un voto fatto dalla comunità in occasione di calamità (probabilmente per le peste del 1576), di recarsi ogni anno in processione al Sacro Monte di Varese. Il cardinale impose che fossero da tutti osservate, e che nessuno per qualsiasi pretesto si avesse a sottrarre.
La prima consuetudine nel 1759 la vediamo già tramutata nella divozione delle SS. Quarantore e, attraverso i secoli, si mantenne sino al presente. L'altra invece durava ancora in quell'anno, ma il cardinal Pozzobonelli ordinò al parroco, che verificandosi comunque abusi o disordini, ricorresse a lui che avrebbe commutata tale consuetudine in altra opera di pietà. (Atti di visita del 1759). E così avvenne poco tempo dopo. D'altronde ben si comprende che per quei tempi l'andata di gran parte di una popolazione fino al Sacro monte di Varese, e colà fermarsi a riposare la notte per poi ritornare il giorno seguente, doveva essere un affar serio non scevro di pericoli o di disordini (85).
Anche a Verano non mancava la pia usanza di venerare i santi Re Magi, e il card. Federico prescrisse di ultimare la cappella a loro dedicata, che per contribuzione del popolo si stava costruendo in chiesa. Similmente in occasione della peste del 1576, i veranesi avevano fatto voto, legalizzato con istrumento rogato in Monza dal notaio Casati e firmato dai nobili sig. Tiberio Giussani, Fieramonte Bizozzero, Giorgio Giussani e Giuseppe Sirtori, di erigere in chiesa una cappella in onore di S. Sebastiano e S. Rocco. Ma passato il pericolo, il voto non fu mai eseguito, tanto che il cardinal Federico, richiamando il popolo alla necessità di restaurare a sue spese la cappella dell'altar maggiore, lo assolveva completamente dal voto, anche dal far cantar messa nel giorno di quei due santi, se ciò avesse fatto.
Tra i non pochi decreti per Verano vi è quello di erigere il campanile del quale si erano appena gettate le fondamenta, e perché lo si innalzasse al più presto concedeva al popolo di concorrere nei lavori in giorno di festa dopo il vespro. Raccomandava di aggiungervi un'altra campana perché tutte le chiese parrochiali dovevano averne almeno due. Nota il cardinale come fosse cosa indecente che la campana stesse più a lungo appesa alle pile arcuate erette anticamente sul tetto sopra la porta della chiesa.
Per tutte le parrocchie della pieve lasciò numerosi decreti accompagnati talora da fior di multe in caso di non esecuzione. Ma simili in questo alle gride del governo spagnuolo, rimanevano in buona parte senza effetto immediato specialmente nelle parrocchie più piccole, date le misere condizioni economiche del popolo e del clero di campagna.
La prima parrocchia che si formò nell'attuale territorio del comune di Giussano fu quella di Giussano, quindi quella di Robbiano, e più tardi quella di Paina. Questa, con Brugazzo e le annesse cascine, fu eretta nel 1597 distaccandola dalla parrocchia di Mariano (86).
Gli abitanti, desiderando di avere di continuo in luogo un sacerdote che provvedesse alla salute delle loro anime, si radunarono nel giardino della casa padronale od ospizio che i monaci della Certosa di Garegnano tenevano in Paina, e stabilirono alla presenza del console di Paina (Giovanni Antonio Besana) e di quello di Brugazzo (Beltramo Garimberti) di impegnarsi alla sostentazione del sacerdote, di edificare la sagrestia e la casa parrocchiale con orto, salvo sempre al priore pro tempore della Certosa di Garegnano il diritto di scelta del parroco a parrocchia vacante, giacché egli cedeva la chiesa di S. Margherita di sua proprietà. Si fissò pertanto una rendita annua di lire 360 imperiali da pagarsi in parti eguali da Paina e da Brugazzo, sovvenzione la quale doveva essere versata al parroco metà alle calende di agosto e l'altra nella festa di S. Michele. Per le riparazioni presenti e future della chiesa si dovevano usare le offerte che venivano fatte alla chiesa. E tutto questo con istrumento rogato seduta stante l'8 agosto 1597.
Inoltrarono quindi supplica al card. Federico di voler erigere la chiesa di S. Margherita in parrocchiale "cum fonte Baptismali, Cruce, et alijs parochialibus insignibus ". La domanda fu esaudita, fermo però l'obbligo al parroco di Paina di consegnare ogni anno nella festa di S. Stefano, durante la messa solenne, un cero bianco del peso di una libra alla chiesa plebana di Mariano in memoria dell'antica sudditanza. Il primo parroco di Paina fu il milanese don Pietro Caggiada (87).
Il card. Federico vi compì la visita pastorale nove anni dopo, e cioè nel 1606: la parrocchia, con una popolazione di 272 anime, fu trovata discretamente in ordine.
Colla soppressione della Certosa di Garegnano avvenuta nel 1783, il diritto di scelta del parroco passò al governo di allora e quindi nei successivi; e questa è la ragione per cui il parroco di Paina fino a qualche anno fa era di nomina governativa: anticaglie ormai finite cogli accordi Lateranensi del 1929 tra il Vaticano e l'Italia.
I monaci della Certosa affermarono di avere loro stessi edificata la chiesa di S. Margherita, ma in quale anno non ho trovato. Se così, la costruzione dev'essere avvenuta dopo il 1349, per il fatto che da quest'anno data la fondazione della Certosa di Garegnano, e probabilmente nel secolo seguente quando i monaci incominciarono a possedere fondi in Paina e nei dintorni (88). Nella chiesa di S. Margherita, prima che divenisse parrocchiale si celebrava talvolta la messa e vi si seppellivano i morti. Per le funzioni religiose Paina dipendeva da Mariano dopo il 1568. I monaci risiedevano nel monastero di Garegnano: in Paina non vi dimorava in permanenza alcun padre, ma qualche converso. Solamente di tanto in tanto veniva un padre sopraintendente ai fondi, dimorando il tempo necessario nella casa padronale che talora serviva anche da ospizio per i poveri ed i pellegrini.
I possedimenti della Certosa vennero man mano aumentando in tal modo che al momento della soppressione dell'Ordine, la sezione fondiaria di Paina contava un totale di 3580.18 pertiche, delle quali ben 2683.13 nel solo territorio di Paina e di Brugazzo. I fondi furono messi all'asta e comperati dal conte Andrea Lucini Passalacqua, patrizio e decurione comasco, feudatario di Rovello, per la somma di lire 518 mila.
Nei tempi passati, in confronto dei nostri, le terre costavano relativamente poco, ma se ne ricavava anche meno. Così ad esempio, da un'investitura di affitto per 9 anni fatta dai padri il 7 novembre 1495 ad Antonio Galimberti di Brugazzo di pertiche 515, situate alla cascina dell'Oca, l'investito doveva pagare moggia 2 di frumento e moggia 13 di mistura per ogni cento pertiche. Erano però terreni di qualità scadente, allora ben più che non oggi. L'Antonio era figlio di un Giovanni abitante " in Cassinis de Brugatio prope comune de Payna ".
Da un'altra investitura dell'8 marzo 1413 in Ambrogio Missaglia di alcuni fondi situati in territorio di Paina, si ha che questi doveva pagare per l'affitto " sichallem et millium, marona et castaneas, nuces et galfioni seu cerexa ", e cioè segale e miglio, maroni e castagne, noci e galfioni ossia ciliege, il che ci prova come ben misere erano allora le coltivazioni granarie, e che presso a poco durarono sino alla soppressione dei Certosini.
Oggi il territorio di Paina e di Brugazzo dà un reddito agrario di gran lunga superiore, specialmente dopo che si venne in questi ultimi anni introducendo la piccola proprietà. Paina e Brugazzo, situati lungo la nuova strada provinciale, sono inoltre in continuo sviluppo edilizio per cui formano ormai un unico aggregato di case. Molto sviluppata vi è poi l'industria. Segno evidente di prosperità e di benessere.

Don Rinaldo Beretta
Robbiano Brianza