La figura e l'azione di San Carlo

San Carlo Borromeo

La santità è un misterioso profumo che Dio effonde sulle strade del mondo, dove passano i suoi figli consacrati dai doni del Battesimo. è mai possibile percorrere la diocesi di Milano senza imbatterci in qualche olezzante memoria di San Carlo, Pastore infaticabile e insonne, che più volte e in ogni senso la visitò: dalle cime alpestri ai prati irrigui, dai borghi popolosi ai casolari dispersi nella campagna?

I Santi non solo attraggono ed elevano alla gloria del Signore, stimolando al servizio degli umili mentre sono ancora pellegrini su questa terra; ma anche dopo morte essi diffondono il loro aroma, continuano a costituire per noi vivi un tormento con la ricordanza delle loro parole e dei loro gesti, un appello e un rimorso che ci inquietano, ci giudicano, ci stimolano; mentre mettono sulle labbra a un personaggio manzoniano paro le come queste: «Gli estinti talor de' vivi son più forti assai» (1).

La seconda conversione

Sono persuaso che nella vita di ogni Santo è spesso possibile indicare il momento in cui la grazia dello Spirito Santo comincia a irraggiare dalla loro persona per l'edificazione della Chiesa. Questo momento, che la Teologia Spirituale indica col nome di «seconda conversione», fa balzare l'individuo verso l'esercizio deciso e non più incerto delle virtù cristiane.

Tutti i biografi di San Carlo sono unanimi nel collocare la sua seconda conversione il 19 novembre 1562, nell'infausta occasione della morte del fratello Federico. La sera di quel luttuoso giorno, Carlo Borromeo contemplò a lungo, freddo e rigido nella solennità della morte, l'unico fratello maschio, di tre anni soltanto maggiore di lui, deceduto senza figli. La sua fine, quasi improvvisa, dopo una sola settimana di febbre, infranse i sogni di fasto terreno di Pio IV, il Pontefice che chiuse il Concilio di Trento e lasciò che il figlio della sorella, il Cardinale Carlo Borromeo, sigillasse coll'influsso della sua personalità la raccolta dei decreti del Concilio di Trento.

Questo Pontefice fu chiamato nepotista, perché aveva creato Cardinale il nipote, poco più che ven-tenne. In realtà entrambi, zio e nipote, erano molto sensibili al prestigio delle rispettive famiglie, medicea e borromaica, e anche Carlo, da principio almeno, teneva alla grandezza del casato. Ma se il Papa aveva ceduto alla tendenza nepotista, la verità è che, di là dalla parentela, egli forse presagiva nel nipote i segni di grazia che avrebbero fatto di lui nel mondo intero l'eroe della Riforma cattolica del secolo XVI. La Provvidenza divina, che intervenne a scompigliare calcoli umani con una morte inattesa, permise che le anime mediocri si la-sciassero deprimere dalla costernazione e dall'avvilimento, ma in pari tempo sollecitò le tempre più salde e più nobili a liberare il loro passo verso mete più ardite. La sera di quel 19 novembre 1562 il Cardinale Carlo Borromeo sperimentò la caducità dei miraggi terrestri e provò il bisogno di pascere il proprio spirito con aspirazioni e gioie più vere e durature. «E' stato un colpo così terribile - scrive Carlo a un familiare - che nulla può riuscire a consolarmi»(2).

«Questo avvenimento più che ogni altro - scrive ancora a una sorella - mi ha fatto toccare al vivo la nostra miseria e la vera felicità della gloria eterna» (3). Sulla bocca d'un uomo che prendeva tutto sul serio, queste non erano vane parole. Non si trattava soltanto di prestigio familiare dei Medici o dei Borromei sul campo politico europeo, ma soprattutto il Cardinale nipote sentiva che vi soggiaceva un caso che impegnava la sua coscienza personale. Da molte parti, al futuro San Carlo giungevano inviti autorevoli che premevano perché non disattendesse la voce del buon senso che gli insinuava di ricostruire ciò che la morte di Federico, il quale tra l'altro aveva lasciato la moglie ventenne, aveva dissestato. La vasta cultura giuridica non permetteva a Carlo Borromeo di ignorare che il cardinalato non lo avvinceva definitivamente allo stato ecclesiastico. Sapeva altresì che, se l'avesse richiesto allo zio Papa, da lui avrebbe potuto ottenere ogni dispensa. Non è da escludere, benché sarebbe difficile provarlo, che una delle voci le quali in questo senso pulsavano nella sua coscienza, fosse proprio quella di Pio IV.

Il nipote destinato alla diocesi milanese non tardò a capire quello che poi apprenderà con più lucida urgenza da Sant'Ambrogio, e cioè che la grazia è più forte della natura, ma bisognava, però, far presto, perché la grazia mal sopporta ogni indugio inutile (4). Fu provvidenziale per San Carlo, in tali frangenti, il sostegno che gli proveniva dagli esempi e dai consigli di alcune anime elette. Prima fra queste fu il venerabile domenicano Bartolomeo De Mar- tiribus, arcivescovo di Braga, che lo persuase a restare a fianco di Pio IV, come collaboratore prezioso nel governo della Chiesa (5). Insieme con quello del primate del Portogallo non può essere dimenticato l'influsso di San Filippo Neri, che il Cardinale Borromeo si era scelto come consigliere nelle decisioni del suo spirito e a lui chiedeva pareri anche per le sue amplissime beneficenze ai bisognosi della Chiesa (6). Per togliere presto le illusioni che non pochi si facevano sul suo avvenire nel mondo, affrettò la decisione della sua ordinazione sacerdotale che ricevette il 17 luglio 1563. Egli, però, volle premettere il mese ignaziano di Esercizi Spirituali, così da poter celebrare la prima Messa il 15 agosto successivo, perché bramava mettere, fin dall'inizio, tutto il suo sacerdozio sotto il patrocinio dell'Assunta. E se le date significano pur qualcosa in una vita nella quale nulla veniva lasciato al caso, è da ricordare che San Carlo fu consacrato vescovo il 7 dicembre di quel medesimo anno 1563, solennità anniversaria dell'ordinazione di Sant'Ambrogio.

E ora, risolto il problema della «seconda conversione» di san Carlo, rispondiamo a una duplice domanda. Chi era e che cosa prometteva di diventare il nuovo Cardinale Arcivescovo che lo zio Pio IV destinava a Milano? Messa da parte con previsione certa la questione della sua personale santità, causa delle possibilità unificatrici del clero e del popolo, potremo tentare queste risposte.

- Un santo Vescovo che vivendo e rinnovando profondamente la tradizione, e particolarmente il rito della sua Chiesa, unificò il clero.

- Un santo Vescovo che soprattutto tramite la «Scuola della Dottrina Cristiana» unificò il popolo.

San Carlo e l'unificazione del suo clero

La vera riforma del clero comincia sempre dal capo, da colui che è la guida e modello: il Vescovo. Per conquistare e unificare il suo clero, e di conseguenza il suo popolo, San Carlo sentì necessario che il Vescovo si presentasse come la preghiera e la liturgia vivente. Arrivato a Milano, egli riprese a pregare con la liturgia di Sant'Ambrogio.

Com'è noto, la Chiesa milanese si distingue dalle altre Chiese viventi in piena comunione con Roma per la sua tradizione e per il suo antico rito che prese il nome da Ambrogio. Da quel grande Padre e Maestro, il rito fu anche rielaborato e arricchito da inni liturgici e da altri elementi significativi. Da lui ricevette le caratteristiche essenziali e inalienabili: fedeltà a Roma, sì, e sempre nell'ambito della perfetta ortodossia; ma, per il resto, anche libertà di adeguarsi alle vive tradizioni del popolo (7). Il Concilio di Trento aveva disposto che qualsiasi rito diverso da quello della Chiesa romana venisse soppresso, a meno che datasse da più di due secoli (8). Per ciò il rito ambrosiano potè durare. San Carlo ne fu il primo difensore gerarchico e senza dubbio il più zelante e ardente. Nella lettera arcivescovile in apertura dell'edizione del «Breviario ambrosiano» (1582), San Carlo così esordisce; «Abbiamo pensato essere nostro principale dovere la conservazione e, dove fosse necessario, il ripristino degli antichi statuti e riti di questa Chiesa ambrosiana...».

Non tardò ad accorgersi che un clero nuovo esigeva un luogo apposito di educazione e un gruppo di maestri, i quali si impegnassero a trasmettere ai futuri presbiteri l'amore allo studio, la dottrina e gli esempi di vita del Vescovo. I luoghi destinati alla formazione sacerdotale furono i seminari. San Carlo fu il primo che istituì per la sua diocesi un grande e splendido seminario che, restaurato, possiamo ancora oggi contemplare nelle linee progettate dallo stesso San Carlo con i suoi architetti, sui disegni di Pellegrino Tibaldi. Per mantenere l'auster dirizzo formativo dei s egli fondò la nuova con degli Oblati di sant'Am Riflettendo, poi, sulla dei viaggi e dei raduni in un mondo agricolo, di comunicazione erano soltanto il carretto o la carrozza, San Carlo collocò i seminari minori nei principali centri della diocesi e con questo provvedimento intendeva non allontanare troppo i giovanetti dall'influsso formativo della famiglia, che egli riteneva un coefficiente educativo importante durante la lunga preparazione al sacerdozio. San Carlo Borromeo si presentò al suo clero come l'ideale e l'esempio vissuto della tradizione ambrosiana, e il suo clero cercò, oltre la protezione di Sant'Ambrogio, anche quella di San Carlo.

San Carlo e l'unificazione del suo popolo

Quando San Carlo tornò definitivamente a Milano sapeva d'incontrare un popolo che amava la Madonna.

1. Il suo primo proposito era di esserne tra tutti gli ambrosiani un figlio devotissimo. Sostando nel santuario di Loreto, piangendo, chiese alla Vergine tre grazie: abbracciare la sua missione episcopale con tutte le forze del corpo e del cuore; attuare in ogni parrocchia la riforma tridentina; conservare la fede nella popolazione che gli veniva affidata.

2. San Carlo temeva il pluralismo delle Confessioni cristiane. Il pensiero che l'eresia luterana si rovesciasse dalle Alpi nella pianura lombarda rendeva inquieto il santo Arcivescovo che la disseminò di santuari mariani come baluardi di protezione. La Vergine esaudì la sua fede. Egli era, infatti, persuaso che non è mai senza frutto che si coltiva la devozione di Maria, e che non si parte mai da un suo santuario, visitato a cuore contrito, a mani e a spirito vuoti.

3. San Carlo aveva portato e diffuso nella sua diocesi con i suoi esempi e la sua predicazione anche la devozione al Crocifisso. La devozione alla Madonna, la madre dei dolori, guida sempre quasi per mano verso quella di Gesù, l'uomo che conobbe tutto il patire umano (9), e che per nostro amore, pregando e soffrendo in nostro favore, si è offerto al Padre d'ogni clemenza, vittima innocente per i peccati del mondo intero.

4. Nei momenti più significativi dell'esistenza terrena di Gesù, la Madonna non manca mai. San Carlo la trova soprattutto sul Calvario a raccogliere il testamento di Gesù. Maria è là che ascolta dalla nudità insanguinata della croce le parole del Figlio agonizzante: «Donna, ecco tuo figlio, figlio, ecco tua madre» (10). E da quel momento l'apostolo vergine, riceve in casa sua la Madre vergine del Signore. San Carlo la vede e la contempla sul Golgota; e più che sotto altri titoli, la venera come «addolorata», nei santuari di Rho, della Caravina e di Cannobio. 4. San Carlo amò immensamente l'Eucaristia, che rende presente all'adorazione di quelli che credono nel Figlio di Dio fatto uomo, colui che è morto in croce per la nostra salvezza, e ora, asceso al Cielo, vive e regna alla destra del Padre.

Quest'uomo che molti ritenevano austero, e perfino duro, in realtà consolava tutti: e nessuno pensava che lui stesso avesse bisogno di conforto, nascondendo in cuore una tenerezza profonda. Spesso anche per notti intere, davanti agli altari del Crocifisso e dell'Eucaristia, non sentiva più spossatezza, né sonno, ma si immergeva in colloqui, che il pianto bagnava come quelli di un bambino.

Sempre così: chi si fa bambino, in ginocchio, davanti a Dio, trova in se stesso la forza di erigersi «uomo», al cospetto degli uomini. Di quale tempra fosse l'Arcivescovo di Milano, apparve, anche troppo, nei contrasti con le autorità dei governanti spagnoli. Ma dove sfolgorò allo sguardo del popolo milanese, nella forma che meglio si addice a un Vescovo, la pietà verso gli altri fino allo struggimento di sé, fu allo scoppiare della peste. Molti responsabili della pubblica salute, spaventati dal contagio, erano scomparsi. L'Arcivescovo era rimasto al suo posto, impavido a rimprovero dei fuggiaschi, a conforto dei malati e dei morenti. Un inno ambrosiano ricorda la sua tenerezza «come quella di una madre» (11), che fascia le piaghe del corpo e distribuisce i Sacramenti dell'anima. Il Manzoni stesso, parlando di quella peste che «in buona parte d'Italia, e in specie nel milanese, fu chiamata ed è tuttora la peste di san Carlo», aggiunge: «Tanto è forte la carità! tra le memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può far primeggiare quella di un uomo, perché quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili dei mali» (12). Dopo la peste più nessuno potè dubitare che San Carlo avesse «un cuore umanissimo e dolce», come dissero parecchi testimoni ai processi di canonizzazione. Il grande propulsore della riforma tridentina volle che le sue personali devozioni diventassero il tema ricorrente delle «Scuole della Dottrina Cristiana», che egli aveva istituito dappertutto, e durarono quanto la civiltà agricola, e cioè fino al termine della prima guerra mondiale (1918). Ora tale civiltà è tramontata. La civiltà industriale, intrecciata con quella tecnologica, ha preso il sopravvento. Le popolazioni lombarde invocano un nuovo San Carlo, aperto a ereditarne lo spirito innovativo e formativo. I limiti concessi a un articolo di giornale mi sollecitano a concludere. Ma non so terminare se non ricordando l'ultimo saluto che il santo Arcivescovo ha lasciato ai suoi sacerdoti, e, per loro tramite, a tutto il popolo, il 21 aprile 1584 (13). Erano parole che l'Arcivescovo, pochi mesi prima della morte, diceva d'aver udito - in visione - da Gesù morente sulla croce: «O sacerdoti, o parroci, non temete: lasciate che ponga le mie mani sulle vostre mani, e le cose che vi sembrano difficili e perfino impossibili, io ve le renderò facili e piene di gioia».

Ed eccoci alla fine. San Carlo fu portato in Milano la sera del 2 novembre 1584 all'estremo delle sue forze. Egli stesso aveva scritto: «Non è vivere che importa, ma essere Vescovo fino in fondo a costo di bruciare la vita». Da parte sua, l'aveva bruciata a poco più di 46 anni, quando molti altri Vescovi non hanno ancora incominciata la loro missione. A lui che, nella sua gloria celeste non è lontano dalle nostre fatiche terrene, eleviamo una confidente preghiera.

«Volgi il tuo sguardo dal cielo, o glorioso San Carlo, a questa terra, che un giorno conobbe le opere del tuo infaticabile zelo, e ancora vive non solo dei ricordi, ma anche dei frutti del tuo eroico episcopato. Con la tua intercessione, ottieni ai sacerdoti quel tuo amore all'Eucaristia e alla Liturgia delle Ore nel quale li unificasti, e infiammali di quella carità pastorale che consumò la tua santa vita. Infondi nel nostro popolo l'amore la pratica della dottrina cristiana. Rinnova nelle nostre parrocchie e nelle nostre famiglie quello Spirito Buono, di cui le riempisti con la parola e l'esempio. Nel quarto centenario della tua morte, o Padre e Pastore delle anime nostre, donaci di sentire la tua viva presenza: ritorna a visitare le nostre contrade, e con la tua benedizione rendici ambrosiani meno indegni e più devoti figli tuoi».

NOTE

(1) Alessandro Manzoni, Adelchi, atto IV, vv 111-2: parole attribuite ad Ermengarda.

(2) Al conte Cesare Borromeo, lettera in data 19 novembre 1562.

(3) A Isabella Borromeo Triulzio, lettera in data 15 dicembre 1562.

(4) Expositio in Lucam, cap. II, 19.

(5) Il primo a riferire questa notizia è il Bascapé nella sua biografia: libro I, cap. V.

(6) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, San Filippo Neri, ed. card. Ferrari Milano 1931.

(7) De Sacramentis III. 5.

(8) Bolla «Quoad a nobis» di Pio V: 9 luglio 1569.

(9) Is 53,3 ss.

(10) Gv 19, 26-27.

(11) Cfr. l'inno liturgico nella solennità di san Carlo (4 nov.) secondo il rito ambro-siano.

(12) Alessandro Manzoni, I promessi spo-si, cap. XXXI, pag. 585 (ed. 1840).

(13) Sancti Caroli Borromaei, Orationes XII, Romae M.CCCC.LXIII, pag. 173.

Giovanni card. Colombo
Arcivescovo di Milano
dal 1964 al 1979