La Figura di Don Rinaldo Beretta
Testimonianze:
"Ricordo del mio primo incontro con Don Rinaldo":
"Circa quarant'ann fa hoo dervii la mia casa de Caraa per tutt l'ann
invece del temp appenn di vacanz. La famiglia coi fioeu la stava là
benone, meì che a Milan; gh'era scool per studia; un bel giardinon
selvadigh de pràa e de bosch per fann una pell senza pericol; aria bonna;
tutt per stà alegher de anima e de corp.
Per la comodità de Milan visin mi podevi andà e vegnì tutti i moment a
tegnì d'oeucc affari e famiglia.
Naturalment 'sta novitàa la mi ha dàa contatt coi element
pussée interessant del paes e d'intorni. L'è sta pussée che naturai, ma
addirittura un rivelazion felice quand m'é stàa ditt che a Robbian gh'era
curat don Rinaldo Beretta.
Don Rinaldo Beretta! l'è stada pussée che ona molla la notizia e me sont
preparàa all'incontro con ona preparazion de penser e de anima. Me
figuravi già in la fantasia sto preton, storich, paleografo, romanista,
ecc., grave e maestos, in ona gran poltrona, davanti a una gran
scrivania, in un gran stanzon dai mur tapezzàa de liber; saria staa
annunciàa con ona voos seccada de la perpetua che voreva dì, vegnì minga
ch'a romp tant i scatol e inscé me sont dàa all'impresa con tutta la
soggezìon de la partìda.
Diffatti arrivi al paesin de Robbian, me prepari alla visita
con ona visitina di preludio in la gesettina, poeu son alla casetta.
Prima accoglienza on cagnoeu che me ven incontra come l'avrìa fàa col
gatt; subit la perpetua l'imboniss con ona rognada pesg per mandali a la
cuccia, ma lu l'è fedel e'l molla minga a mezz boià e mezz rognà insemma,
vegnen adree alla larga per paura de la scoa fissa a l'usc dove, intanto
é già compars el don Rinaldo; apparizion a l'incontrari : el gran preton
l'è un pretin minudel tutto grazia con ona confusion, quasi da
rallegraas per la sorpresa de la visita! Un'accoglienza che metteva
l'istinto de brasciall su prima ammò de basaggh i man. Come confus
insemma al piasé che ghe traspariva el m'ha faa setta giò su ona
banchetta e lì semm subit sentii che affiatamento de coeur era nassuu in
num. Ma lù, l'era lù; pussée se cerca de tirali in del camp de la
cultura, de la ricerca, di so pubblicazion, pussée lu el se retìra, el
se tira in del bus come fa el grill, che, pussée el se inziga col
ramettin in fond al bus, semper men te riessett a fall vegni foeura! Mi
hoo cercaa de fagghel de nascondon e siccome gh'avevi la confidenza col
cardinal Shuster, l'hoo mess in l'oreggia de tirali foeura in manera de
fann on bel Dottor de l'Ambrosiana. Conclusion finale e presente l'è che
don Rinaldo de Curat la voruu vess nominàa cugitour.
Se po ritoccà on ritratt de' sta fatta de don Rinaldo Beretta?
Per quanto lu el cercherà de scondes i cent ann che lu el cunta sarann
bon de fagghela stavolta e el grill el dovrà vegnì foeura."
Conte Vincenzo Negri di Oleggio
"Un mito per noi chierici brianzoli":
"Sempre un po' schivo e quasi nascosto, fin
sopra i cent'anni d'età, in un ameno paesello della sua amata Brianza,
Robbiano di Giussano, don Rinaldo Beretta era già in qualche modo un
"mito" nei miei anni di Seminario. I chierici di origine brianzola,
specialmente i più appassionati per la storia locale, non disdegnavano
d'andare in vacanza a trovarlo, magari per sentire, narrata da lui,
qualche gustosa vicenda d'altri tempi: ora a proposito dei terrazzani di
Porto d'Adda, ansiosi di non perdere il diritto ad un bastone del
baldacchino nelle processioni eucaristiche di Cornate; ora in merito al
famigerato prevosto-brigante di Seveso, Giovanni Battista Beanio, una
sorta di "passator cortese" negli anni del manzoniano cardinal Federigo;
ora soprattutto circa quella costellazione di antichi monasteri e
conventi che concorsero a rendere tanto fecondo nel secoli l'humus
religioso dei territori briantei.
Più di un tratto appare paradossale nella figura di don Rinaldo: la sua
prima destinazione, da parte del beato cardinale Ferrari, fu in una
minuscola parrocchia, stante quella cagionevole salute... che gli
avrebbe fatto superare i 100 anni; in quell'ambiente il novello
sacerdote seppe nonostante tutto attivarsi con zelo nel "cattolicesimo
sociale" - così vivace negli anni segnati di fresco dalla Rerum novarum
-, sino ad anticipare, in certe originali intelligenti realizzazioni,
quelle che noi oggi chiamiamo le unità pastorali! Ed anche nel campo
degli studi di storia locale non può non apparire sorprendente che un
autodidatta qual sempre fu don Rinaldo - cui non mancarono, a onor del
vero, ispiratori remoti della statura di Antonio M. Ceriani, prefetto
dell'Ambrosiana - abbia potuto e saputo scandagliare con tanta perizia
investigativa e con tanta lucidità interpretativa le fonti documentarie,
da meritarsi financo, come si dice, la stima e l'encomio di Benedetto
Croce!
Superiore ad un intero secolo l'ampiezza della sua limpida parabola
biografica (1875-1976), 78 gli anni del ministero sacerdotale, tutti
vissuti a Robbiano (62 dei quali con dirette responsabilità nella cura
animorum), sessantennale la sua rigorosa e talora un po' tormentata
produzione storiografica, cominciata attorno al 1910 ed approdata agli
anni del post-Concilio.
Come Arcivescovo di Milano, come conterraneo di un "brianzolo DOC" (ho
ben presente San Feriolo di Barzanò, frazione natale del nostro),
persuaso come sono sempre stato circa l'importanza delle "radici" della
fede e della religiosità del nostro popolo ambrosiano, non posso che
compiacermi sinceramente alla notizia di una ripubblicazione, tramite i
moderni strumenti e supporti informatici, dell'Opera omnia del caro don
Rinaldo. E della bella e felice iniziativa mi dico oltremodo grato a chi
dirige e sostiene il periodico Brianze."
"Rinaldo Beretta: sacerdote e storico":
"È per me un compito gradito, anzi doveroso,
mettere in luce la personalità e i meriti di don Rinaldo Beretta per
l'importanza che Egli ebbe nella mia vita, specialmente
nell'orientamento intellettuale della mia prima giovinezza.
Don Rinaldo era amico di mio padre, che egli chiamava familiarmente «suo
coscritto» essendo nato nello stesso anno 1875.
Quando mio padre per recarsi al lavoro — fu per parecchi anni Segretario
Comunale di Giussano e poi, lasciato Giussano, divenne Segretario di
Verano stabilendosi con la famiglia a Carate — passava in bicicletta,
percorreva la strada tra Carate e Giussano e incontrava spesso don
Rinaldo che faceva la stessa strada a piedi col parasole grigio; don
Rinaldo si fermava, gli faceva segno con la mano e lo salutava: «Salve,
coscritto».
Fu sempre affezionato alla mia famiglia e quando morì mia madre si fece
trasportare a Verano per il funerale, all'età di 95 anni.
Mio padre ne aveva stima e ammirazione e a me, ancora ragazzo, parlava
di Lui
esprimendo la sua meraviglia sia per la scienza di don Rinaldo, ma anche
per la dedizione al lavoro, per la vita che conduceva in mezzo ai libri
a documenti e alla polvere nonostante la salute precaria, perché — mi
disse — aveva un polmone solo; questo di lui colpiva mio padre: «Un uomo
che ha un polmone solo e vive sempre in mezzo alle carte». Io non ho
conferma della notizia secondo cui don Rinaldo doveva aver subito
l'operazione che chiamiamo pneu-motomia quando era ancora giovane!
Quando io ero al liceo don Rinaldo sentì parlare della mia inclinazione
verso lo studio dell'ebraico e allora mi incoraggiò in diverse
occasioni; mi predisse che io sarei finito alla Biblioteca Ambrosiana.
Appena nominato Dottore dell'Ambrosiana scrissi una lettera, recapitata
a don Beretta, dicendo: «Sono diventato Dottore dell'Ambrosiana e Lei
don Rinaldo è stato profeta».
Si compiaceva nel descrivermi l'ambiente della Biblioteca e nel dirmi i
consigli ricevuti dall'Illustrissimo Prefetto Mons. Antonio Ceriani, consigli che voleva servissero anche a me.
Tra parentesi devo precisare che la mia vocazione all'ebraico è connessa
con l'interesse per la Bibbia.
Ricordo anche con interesse quando don Rinaldo mi parlava delle sue
esperienze nei pellegrinaggi in Terra Santa e ricordo della mia speranza, cullata fino da quei tempi, di poter un giorno anch'io
visitare e studiare quello che era stato il paese di Gesù.
Non tutti comunque erano dello stesso parere di don Rinaldo, non tutti
nutrivano quel senso di ammirazione per la Terra Santa. Il Prevosto di
Carate, Mons. Crippa, diceva che è perfettamente inutile andare in Terra
Santa: «Che cosa c'è là: una muntagna de sass!» Ma per don Rinaldo, e
per me adesso, ogni sasso ha la sua storia.
Tutto questo spiega la mia soddisfazione di poter rievocare qui la
figura di don Rinaldo, incominciando con qualche cenno biografico
esposto in modo schematico.
Nato a S. Feriolo, frazione di Barzanò, il 26 Febbraio 1875 da una
famiglia di agricoltori, frequentò il ginnasio; ciò lascia supporre che
fosse in una famiglia che aveva capito che questo ragazzo aveva dei
buoni progetti per l'avvenire e con sacrifici, naturalmente, lo fecero
studiare al Collegio di Merate, poi al liceo all'Istituto Villoresi di
Monza e finalmente studiò Teologia al Seminario di Corso Venezia a
Milano.
Ordinato Sacerdote dal cardinal Ferrari, il 24 Giugno 1898, e destinato
come coadiutore a Robbiano subito alla prima destinazione, vi rimase
tutta la vita fino alla morte avvenuta il 21 Aprile 1976, a 101 anni.
Nei primi anni di Ministero a Robbiano, rispondendo alle esigenze di
quei tempi segnati da grandi agitazioni sociali, si prodigò per il bene
anche materiale della popolazione, in massima parte formata da
contadini. Faccio solo qualche accenno.
Verso il 1900 fece sorgere la Società di Mutuo Soccorso contro i danni
della mortalità del bestiame. I contadini avevano 1-2
mucche e la morte delle bestie era un disastro per quelle famiglie;
allora mettevano insieme le forze e costituivano il fondo per venire
incontro a queste evenienze.
Nel 1906 ci fu il famoso pellegrinaggio in Terra Santa — durato più di
un mese — guidato dal Vescovo di Bergamo Mons. Tedeschi, che aveva come
giovane segretario don Angelo Roncalli il quale poi diventò Papa. Don
Rinaldo ha quindi conosciuto bene anche don A. Roncalli.
Nel 1907 fondò la Sezione Robbiano della Società di Mutuo soccorso per
operai e contadini. Il termine Sezione dipende dal fatto che era
federale: cioè comprendeva Giussano, Paina, Robbiano... perché allora
non c'era un solo Comune; le Sezioni erano affiancate alle Parrocchie e
in queste Società di soccorso, di aiuto, erano inseriti anche operai e
non solo contadini.
Nello stesso anno sorge la Società Federale femminile di Mutuo Soccorso
per le donne che lavoravano, specialmente per quelle che erano nelle
filande il cui lavoro era pesante e pochissimo retribuito.
Alla parità di tutti i cittadini ci si è arrivati infatti per gradi: per
esempio, agli inizi del secolo non votavano le donne; al tempo di don
Rinaldo prima erano esclusi quelli che non avevano beni, poi gli
analfabeti cioè quelli che non sapevano esprimersi. Prima di votare
bisognava dimostrare di saper scrivere. A Robbiano ce n'era una 50a di
uomini che non sapevano scrivere e don Rinaldo si mise a far scuola
serale ai contadini analfabeti in modo da abilitarli a poter votare. Che
animo bello questo don Rinaldo!
Poi nel 1909 sorse la Cooperativa di consumo.
Tutta la storia di queste iniziative, a carattere sociale, di Robbiano
sono tutte ben descritte in un numero unico messo insieme da Fiorenzo
Tagliabue, intitolato «don Rinaldo e la sua gente», pubblicato in
occasione del 100° compleanno di Don Rinaldo nel 1975, quand'egli era
ancora vivo.
Questo autore si è compiaciuto di insistere su questo aspetto
descrivendo il momento sociale molto drammatico — fu un momento tremendo
— le esigenze popolari di chi non voleva piegarsi, arrivando anche a
spargimenti di sangue: si sparò sulla folla.
Un aspetto della personalità di don Beretta era la sua intelligente
apertura verso i problemi sociali, unita all'affetto fattivo verso la
sua gente. Non è sufficiente capire le cose bisogna mettersi a farle, a
lavorare: così ha fatto don Rinaldo.
Un secondo aspetto fu l'amore per il proprio Ministero Sacerdotale. Era
felice di essere prete, senza cercare titoli accademici e senza aspirare
a promozioni, contento di essere a Robbiano tra la sua gente semplice.
Ne abbiamo avuto una prova quando, nel 1938, alla morte del Parroco don
Francesco Tanzi, don Rinaldo — coadiutore da 40 anni — optò per
diventare il Parroco e in quell'occasione ebbi una conversazione con Lui
che mi fece capire bene il suo pensiero, il suo animo.
Allora don Rinaldo era già conosciuto per le sue pubblicazioni nel campo
delle ricerche storiche. Qualcuno, che non volle nominare, gli aveva
detto che non si aspettava di vederlo Parroco, pressappoco in questi
termini: «Lei, don Rinaldo, certamente non vorrà diventare Parroco; ha
degli studi troppo importanti per le mani per metterli da parte.
Chiunque altro potrà fare il Parroco, ma gli studiosi come Lei non sono
tanti». Al che don Rinaldo, quasi offeso, rispose protestando che per
Lui la cosa più importante era quella di essere prete. Rimase in
funzione di Parroco per 22 anni, fino al 1960, quando fu nominato il
nuovo Parroco: accettò umilmente, all'età di 85 anni, di uscire dalla
confortevole casa parrocchiale e di ritornare nella vecchia casa.
Questa cosa era spiaciuta ai suoi amici. Avrebbe potuto rimanere là!
Venne anche qualche onoreficenza: nel 1957 l'Amministrazione Provinciale
gli conferì una medaglia d'argento di benemerenza, appunto per i suoi
studi.
Nel 1962 fu nominato Cavaliere al merito della Repubblica.
Data l'età aveva il privilegio di celebrare la Messa in casa, ma di
questo non volle servirsi se non in casi estremi: preferiva celebrare in
Parrocchia, in mezzo alla sua gente. Io stesso lo sorpresi più volte
nell'atto di scrivere la predica per la Messa domenicale: aveva 85-90
anni! È segno di un grande rispetto per la parola di Dio, ma anche di un
grande rispetto per la gente a cui voleva predicare. Si preparava ancora
a quell'età, scrivendo.
Il terzo aspetto, quello dello studioso, non è tanto semplice da
spiegare! Fu un ricercatore di prima mano; indagò negli archivi e nelle
Biblioteche per ricostruire le vicende storiche delle località della sua
amata Brianza e cominciò con il «Liber Chronicus» cioè con la cronaca
degli importanti avvenimenti della Parrocchia, compito allora affidato
dal cardinal Ferrari a tutti i Parroci e ai Preti delle Parrocchie: essi
dovevano tener annotato sempre, di volta in volta, tutto quello che
fosse avvenuto di importante. Forse fu quella la scintilla che gli fece
discernere la sua vocazione di storico, ciò che ha tirato fuori la
stoffa che c'era in lui spingendolo a mettersi a scrivere, a tornare
indietro, a vedere ciò che si poteva trovare nel passato.
Dopo i primi pregevolissimi libri pubblicati, compreso della serietà
dell'impegno che si era assunto e della responsabilità di fronte ai
lettori, si fece di nuovo studente e frequentò la scuola di paleografia
dell'Università statale di Milano, prendendo poi il diploma appunto di
paleografo. Tale scienza è una pratica indispensabile per leggere la
scrittura degli antichi documenti, scrittura caratterizzata da forme
diverse di caratteri e specialmente dalle frequentissime abbreviazioni.
L'elenco delle sue pubblicazioni si trova nel già lodato numero unico
curato da Fiorenzo Tagliabue. Per dare un'idea riassuntiva delle
pubblicazioni basti dire che si tratta di diciotto libri e di circa 40
articoli. Gli articoli, in genere molto estesi, sono stati pubblicati in
varie riviste o collezioni, specialmente in importanti riviste
archivio-storiche lombarde e nelle memorie storiche della Diocesi di
Milano, diretta da Mons. Marcora. Quando scriveva per queste riviste,
don Rinaldo era sicuro di essere letto da specialisti ad alto livello.
Quanto ai libri, che possono soddisfare l'intelligente curiosità di un
numero maggiore di lettori, questi riguardano le origini di paesi della
Brianza o fatti particolari che li concernono.
Ricordiamo così a volo d'uccello: «Alberto da Giussano» e «La Battaglia
di Legnano»; affrontò la questione, molto discussa tra gli storici,
relativa alla localizzazione di «Cassìciacum» dove risiedette per
qualche tempo S. Agostino: il luogo viene identificato con Cassago
oppure con Casciago (Cassago è in Brianza mentre Casciago in Provincia
di Varese); si occupò di Agliate e dei suoi monumenti, di Robbiano, di
Vimercate, delle origini e limiti della Brianza, questo nome che egli
qualificava anticamente; si interrogò su come mai questa Brianza avesse
avuto una sua identità in mezzo alle altre Regioni; ricostruì la storia
di Barzanò antica sua patria.
Tra gli articoli delle memorie storiche figurano gli studi sui monasteri
e i conventi di Lambrugo, Verano, Casatenovo e, fuori dalla Brianza, i
suoi interessi di storico si rivolsero anche a Cassano d'Adda, a Trezzo
D'Adda, a Porto D'Adda ad altre località.
Delineata così rapidamente la figura di don Rinaldo, come sacerdote e
come pastore, che voleva bene alla sua gente, come studioso, ci
domandiamo: fu anche maestro? Ebbe cioè dei discepoli, nella sua
competenza di ricercatore nel campo della storia?
Sappiamo che ha validamente contribuito alla elaborazione della tesi di
qualche studente universitario («..meglio attaccarsi a don Rinaldo»...)
se la quiete di Robbiano gli consentiva di lavorare con tranquillità
tuttavia non favoriva l'afflusso di discepoli. Io però, in un certo
senso, posso considerarmi suo discepolo e sono lieto di consegnare a qualcuno di
voi, in questa circostanza, la «fiaccola» che prima ha menzionato Mons.
Marcora, la fiaccola dei consigli che don Rinaldo, in diverse occasioni,
ebbe modo di darmi.
Il primo consiglio fu questo: «non fossilizzarti (in dialetto, perché
parlava sempre in dialetto) nello studio delle grane». Cosa voleva dire
visto che io ero ancora studente? Già ho detto che Egli prevedeva che
sarei finito alla Biblioteca Ambrosiana; quel consiglio voleva essere un
avvertimento ad allargare il campo verso il quale mi portava la mia
passione di studioso. Una conoscenza, seppur approfondita come deve
essere, se è isolata non è l'ideale. Una conoscenza approfondita non può
restare isolata. Una ultra-specializzazione, che escluda il resto, non
giova ad un ricercatore perché tale esclusione gli preclude
eventualmente la visione di cose che illuminerebbero il suo campo di
ricerca.
Il secondo consiglio è stato: «non fidarti delle esitazioni degli altri
e non commettere l'ingiustizia di citare, come frutto delle tue
ricerche, le citazioni copiate da altri. Devi sentire il dovere di
verificare tutte le citazioni direttamente sulle fonti, siano libri
stampati o documenti di archivio.
Se per impossibilità, o per la fretta, non puoi andare alla fonte,
almeno riferisci l'autore da cui hai preso la notizia, lasciando a lui
la responsabilità; così il lettore non sarà ingannato e, se sarà il
caso, andrà lui stesso a verificare la citazione che tu hai dato
sinceramente, ma di seconda mano, dicendo che è di seconda mano».
Questo consiglio mi fu dato più volte e, come l'ho ricevuto io da don
Beretta, don Beretta l'aveva ricevuto a sua volta dall'Illustre Prefetto
dell'Ambrosiana Mons. Ceriani. Son queste le direttive di don Rinaldo e
noi possiamo ora capire l'enorme lavoro di consultazione che sta sotto
la sua opera e che gli dà tanto valore.
Mi auguro che tra voi, suoi estimatori, ci siano di quelli che continueranno la sua opera."
mons. Enrico Galbiati
"L'opera sociale di Don Rinaldo Beretta":
Robbiano nella seconda metà dell'Ottocento
Poco più di un secolo fa, Amato Amati scrisse nel suo
ponderoso Dizionario Corografico dell'Italia: «Robbiano già Comune in
Lombardia, provincia di Milano, circondario di Monza, mandamento di
Carate Brianza.
Aveva una superficie di 149 ettari.
La sua popolazione di fatto, secondo il censimento del 1861, contava
abitanti 589 (maschi 306 e femmine 283). Quella di
diritto di 606.
La Guardia Nazionale consta di 27 militi attivi.
Gli elettori amministrativi nel 1865 erano 37, ed uno i politici,
inscritto nel Collegio di Vimercate.
L'Ufficio postale è a Giussano.
Appartiene alla Diocesi di Milano.
Il territorio, che apparteneva a questa comunità, si stende in piano ed
in colle, e viene lambito dal Lambro: il suolo è fertile e ben
coltivato. I prodotti principali si ricavano dalle viti e dai gelsi: di
qualche rilievo sono le raccolte delle biade, del fieno e dei legumi. Si
mantiene limitata la quantità di bestiame.
Questo villaggio sta a meno di un chilometro dalla riva destra del
Lambro, a tramontana (settentrione) da Carate, a maestro (nord-ovest) da
Verano, ed a quasi dodici chilometri da Monza...
Con regio decreto del 9 febbraio 1869, venne privato dell'autonoma
amministrazione comunale ed aggregato, quale frazione, al
Comune di Giussano».
Era un mondo eminentemente agricolo, con prodotti della nostra campagna
costellata di gelsi per avere la foglia indispensabile all'allevamento
del baco da seta, che rappresentava una risorsa economica tut-t'altro
che indifferente.
Non mancavano i vigneti, dei quali si ricavavano uve che davano un vino
allora apprezzato, non sdegnato dalla musa di Carlo
Porta:
"Vin nostran, vin di noster campagn, ma legittem, ma scrett, ma sinzer"
vini «scialós e baffiós», brillanti ed eccellenti da
leccarsi i baffi.
Nella seconda metà dell'Ottocento, la vite in Brianza scomparve, vinta
dalla concorrenza dei vini piemontesi e dell'Italia meridionale; si
intensificò invece la coltivazione del grano e del baco da seta.
Sostegno dei poveri erano i granì minuti (il panico, il miglio: pan dei
mei), le castagne, i legumi (fagioli, piselli, fave, veccia) e frutta.
La biada grossa (frumento e segala) era quasi tutta di spettanza
padronale.
Da un «Quistionario per lo studio delle condizioni igieniche e
sanitarie, civili ed economiche dei lavoratori della terra in Italia»,
redatto nel 1878 dal dottor Agostino Bertani, commissario parlamentare
per l'inchiesta agraria, togliamo alcune notizie riguardanti il comune
di Monza e dintorni: «La base dell'alimentazione del colono è il
granoturco in pagnotte e specialmente in polenta, concorrentemente però,
in più o
meno larga misura, col riso, col latte, col cacio, coi legumi, col pane
di frumento pei malati e pei vecchi.
Il pane, come si disse, è di granoturco o misto, ma prevale la polenta.
Il companatico più comune, oltre il cacio, sono il lardo e le carni
porcine insaccate; la carne di manzo, più spesso di vacca, è riservata
in generale pei giorni festivi, ma i capocasa ne mangiano più spesso
all'osteria.
Il condimento più comune è il burro, e pei più poveri l'olio: d'oliva,
di lino, di noce...».
Circa l'igiene, si legge: «Non esistono nel comune pubblici edifici
appositi sia per lavanderia [a Robbiano un lavatoio pubblico sarà aperto
soltanto nel 1913], sia per bagno o nuoto, ma nelle numerose roggie ci
sono gli accessi ed i commodi per le lavandaie, ed i contadini si
bagnano però nelle roggie e nel Lambro, ma più per spasso che per
pratica di pulizia e salubrità».
Riguardo al riposo: «Il contadino d'estate si corica presto, dopo cena e
si alza avanti il sole. D'inverno si corica a serata più inoltrata, ma
si leva sempre per tempo...
Il contadino dorme sempre su pagliericcio, il più spesso ha anche
materasso di lana. Pel pagliericcio sono preferite le foglie delle spire
di mais. L'uso dei letti elastici non è ancora penetrato fra i
contadini.
Un requisito pel matrimonio è l'impianto di un doppio letto matrimoniale
con cavalletto, pagliericci, materassi, trapunte, ecc.».
he abitazioni vengono così descritte: «I villaggi non constano che di
poche case agglomerate, la nettezza delle vie pubbliche
è sufficientemente curata e non sono tollerati su di esse né sfoghi di
fogne, né depositi di lordure, né ristagni d'acqua...
Le case coloniche constano in generale di un piano terreno e di un piano
superiore; nel primo vi sono le cucine e le camere da lavoro; nel
secondo le camere da letto ed i granai; a parte poi le stalle ed i
fienili.
Le stalle o fanno corpo con la casa o mettono sulla corte comune, ed
ugualmente hanno al di sopra le tettoie pel fieno e per lo strame.
Le famiglie si raccolgono nelle stalle d'inverno...
Gli animali non coabitano con la famiglia, quantunque debba lamentarsi
che, per vegliarli contro i ladri, si costumi di costruire i porcili ed
i pollai troppo vicini all'uscio di casa.
I cessi vi sono dappertutto, e quantunque poco puliti, sono sempre
vuotati al bisogno, dandosi grande importanza all'ingrasso umano...
I concimi sono accumulati fuori delle stalle, sia nelle corti, sia
dietro le abitazioni, in generale purtroppo a non molta distanza.
La pratica dei letamai coperti non è sconosciuta, ma non è generale».
Alla domanda se «il lavoratore delle terre, ...mediante il lavoro
indefesso, potesse mettere da parte il bisognevole per la sua vecchiaia»
si ha la seguente risposta: «Per vivere stentatamente occorrono almeno
300 lire all'anno, quindi perché un lavoratore e sua moglie, arrivati a
60 anni, potessero avere un reddito vitalizio di almeno 500 lire,
bisognerebbe che in 45 anni potessero aver risparmiato dalle 5 alle 6
mila lire, cioè dal 120 a 150 lire all'anno; questo è impossibile nelle
condizioni attuali e in questa forma. Ma l'investimento corrispondente
avviene nell'allevamento del figlio che, salvo disgrazie, alimenta a suo
tempo i vecchi genitori, come questi hanno fatto coi loro».
Allora, come afferma la relazione che stiamo presentando, non vi erano
«istituzioni speciali di soccorso pei contadini bisognosi, pareggiati
agli altri poveri del comune, all'amministrazione delle cui pie
fondazioni gestite in conformità alla legge sulle Opere Pie, prendono
parte anche benestanti ecclesiastici, ma per elezione, non per
privilegio».
Tale era la situazione di Robbiano sulla fine dell'Ottocento, quando
arrivò in parrocchia don Rinaldo Beretta, giovanissimo sacerdote, che in
seminario aveva studiato anche sociologia.
L'ultimo decennio dell'Ottocento a Robbiano
«L'istruzione elementare del popolo -scrisse don
Beretta nel Liber
Chronìcus parrocchiale - non fu trascurata, e venne
man mano migliorando. È merito del governo austriaco l'aver esteso in
Lombardia a tutti l'obbligo dell'istruzione primaria, per cui anche le
famigliuole, fino allora trascurate, poterono avere le necessarie
cognizioni del leggere e dello scrivere.
È bensì vero che fin dal 4 settembre 1802 fu promulgata una legge [da
Napoleone Bonaparte], per la quale in ogni comune si doveva istituire
una pubblica scuola primaria, ma questa legge durante la dominazione
francese in Italia rimase quasi lettera morta, così che, al cadere
dell'impero napoleonico, nelle campagne non vi erano pubbliche scuole
per le ragazze del popolo, pur non mancando scuole private. Invece al
finire della dominazione austriaca, si può dire che non frequentavano le
scuole un terzo dei ragazzi e un quarto delle ragazze; la maggior
frequenza era data dai comuni dell'Alta Lombardia e la minima da quelli
della Bassa.
In Robbiano - conclude don Beretta -non c'era che la scuola per i
figliuoli, i quali imparavano a suon di nerbate, come mi ebbe ad
affermare qualche vecchio».
L'esito concreto di questo insegnamento si ebbe nel 1865, con 37 «eletti
amministrativi», i quali poterono essere tali soltanto se sapevano
leggere e scrivere, e con un solo «elettore politico», prerogativa che
richiedeva un lettore «abbiente e letterato» qualità difficilmente
coniugabili negli abitanti di Robbiano, poveri come erano.
Una situazione incresciosa, alla quale cercherà un palliativo il nostro
don Rinaldo.
«Il 4 novembre 1890 si inaugurava l'O-spedale Carlo Borella in Giussano
per gli ammalati poveri dei Comuni di Giussano e Briosco: opera munifica
lasciata per testamento dal sig. Carlo Borella di Giussano, morto nel
1882. Robbiano, facente parte del Comune, veniva in tal modo a
usufruirne».
Sono parole di don Rinaldo Beretta, che non sarà estraneo
nell'amministrazione di questo ente benefico.
Durante gli anni 1891-99, resse la parrocchia di Robbiano don Anacleto
Santambrogio, che ebbe come ultimo coadiutore don Beretta, il quale lo
ricordò nella sua storia di Robbiano con queste parole: «Ordinato
sacerdote nel 1877, trascorse sette anni come coadiutore a Costa Masnaga
ed altri sette come parroco di San Nazaro Val-cavagna, finché nel 1891
venne eletto curato di Robbiano. Nel 1892-93 rialzò il vecchio campanile
a torre, dandogli una forma snella e slanciata a cuspide, e vi aggiunse
tre nuove campane alle tre antiche preesistenti.
Nel 1894 comperò per lire 675, in occasione dei restauri della basilica
di Agliate, la bellissima balaustrata di marmo in stile barocco
dell'altar maggiore.
Nel 1895-96 fece decorare e affrescare la chiesa dal pittore Farina di
Macherio, e contemporaneamente pensò alla costruzione dell'oratorio di
Santa Filomena, della quale era molto devoto, allo scopo di raccogliervi
per la Dottrina Cristiana i figliuoli e le figliuole nei giorni festivi.
Inoltre nella parrocchiale collocò nelle rispettive ancone la statua del
Sacro
Cuore di Gesù e quella dei patroni Quirico e Giulitta.
Altro meditava di compiere per la sua chiesa, quando lo colse la morte
nell'ancor giovane età di 45 anni, il 23 gennaio 1899.
Fu sepolto nella cappella mortuaria Forlanelli-Razunz».
Dopo aver accennato all'impegno con il quale il parroco Santambrogio
attese a coltivare la pietà del suo popolo durante i sette anni in cui
resse la parrocchia, don Rinaldo Beretta continua: «E' doveroso
ricordare come nel 1898 la Sig.ra Teresa Razunz, facendo costruire a sue
spese un Asilo Infantile e affidandone la direzione alle Suore di Maria
Bambina, concedeva che il locale nei giorni festivi rimanesse aperto per
ricreatorio per i ragazzi.
Alla sua morte, avvenuta il 17 ottobre 1907, avendo lasciato erede della
sua sostanza le sopraddette Suore, queste assestarono l'Asilo nella casa
padronale (ove continuarono l'Oratorio femminile) e il fabbricato
dell'Asilo, passato di proprietà del Parroco, rimase totalmente a
disposizione per i ragazzi dell'Oratorio.
Nell'ampia casa padronale, anni dopo le Suore apersero inoltre un
Probandato del loro Istituto, chiamando un sacerdote a prestare i suoi
uffici in qualità di cappellano...».
Asilo infantile con Oratorio Femminile, ed Oratorio Maschile, due
istituzioni tanto propugnate dal cardinale Andrea Carlo Ferrari, già
sulla fine del secolo scorso prendevano vita in quel minuscolo paese,
poco più di un villaggio, destinato ad accogliere, con parroci di
valore, un coadiutore eccezionale.
L'avevano preceduto, in quello scorcio di secolo, sacerdoti rimasti a
Robbiano «lo spazio di un mattino». Scrisse il nostro don Rinaldo: «In
quanto ai coadiutori ... venne nel 1892 don Pietro Figini. Dopo quattro
mesi, per malattia dovette ritirarsi presso la casa paterna e vi moriva
di tubercolosi.
Successe don Carlo Villa di Turro Milanese, divenuto poi prevosto di
Casoretto [in Milano], il quale giunto nel 1895 non si fermò anche lui
che pochi mesi.
La mancanza di una rendita sufficiente per vivere e di una casa decente
per abitazione rendeva non facile la residenza ai coadiutori.
Il parroco Santambrogio cercò di rimediarvi in parte coll'ottenere dalla
sig. Teresa Razunz8 una casa alquanto migliore con annesso un po' di
terreno per orto e giardino. Troppo poco in verità perché la coadiutoria
di Robbiano potesse dirsi definitivamente sistemata.
Al Villa subentrò don Pietro Tenca, nativo di Margno in Valsassina,
ordinato sacerdote nel 1880. Dalla coadiutoria di Monte Introzzo se ne
veniva nel 1894 a quella di Robbiano, rimanendovi per circa quattro anni
e mezzo. A metà del 1898 volle farsi frate cappuccino...
Al Tenca, nel giugno 1898, seguì lo scrivente, che vi rimane tuttora».
Siamo nel 1968; gli rimangono ancora otto anni di vita: morirà il 21
aprile 1976, a cento uno anni di età, dei quali 78
trascorsi a Robbiano.
Studente di sociologia
Il 20 febbraio 1878, dopo appena due giorni di
conclave tenuto a Roma
in Vaticano, i cardinali elessero papa il cardinale
Giocchino Pecci, sessantottenne, che prese il nome di Leone XIII; il suo
pontificato durò fino al 1903. Durante questi 25 anni, papa Pecci
pubblicò innumerevoli encicliche. Le prime due, emanate nel 1878, sono
di contenuto sociale: la prima, Inscrutabili Dei Consilio, sopra i mali
che affliggevano la società contemporanea, uscita il 21 aprile, mette in
luce i pericoli derivanti dalla ostentazione dei lumi e del progresso, e
deplora la decadenza dei grandi ideali non solo dell'ordine
soprannaturale, ma anche di quello naturale, patrimonio inalienabile
dell'umana natura.
Nella seconda, Quod apostolici munoris del 28 dicembre 1878, Leone XIII
fa la disamina dei principi enunciati nella precedente, espone la
dottrina del socialismo rivoluzionario, cui contrappone la dottrina
cristiana sull'autorità sovrana, sull'unità, indissolubilità e santità
del matrimonio. Si estende quindi a parlare della società civile e dei
rapporti fra ricchi e poveri, fra padroni e operai.
Queste due encicliche possono ritenersi i prodromi della Rerum novarum,
pubblicata il 15 maggio 1891, che fu subito considerata la «Magna Charta»
della sociologia cristiana.
Con la presa di Roma (breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870) da
parte dell'esercito italiano, si era accentuato il dissidio fra l'Italia
ufficiale e la Chiesa; i cattolici, allontanati dalla vita pubblica si
organizzarono in vari sodalizi tendenti a propugnare la libertà della
Chiesa sotto tutti i suoi aspetti: nel campo religioso, sociale,
naturale. A queste forze si pensò di dare un centro unitario: questo si
ebbe nell'Opera dei congressi, il primo dei quali si tenne a Venezia dal
12 al 16 gennaio 1874; intorno ad essa gravitarono per circa mezzo
secolo i Comitati diocesani ed i Comitati parrocchiali: uno di questi fu
istituito anche a Robbiano, ma ebbe, come diremo vita breve.
Operante dapprima in campo religioso, l'Opera dei Congressi, si aprì più
tardi al campo sociale; essa costituì il primo tentativo dei cattolici
italiani di organizzare il lavoro in modo sistematico e in campo
nazionale.
La Rerum novarum, perspicua e serrata nell'esposizione dei principi,
rivendica la dignità ed i diritti dei lavoratori, e la proprietà
privata, che trova la sua origine nel lavoro e nello sviluppo della
persona e della famiglia; mentre la divisione delle classi assume un
carattere di distribuzione di oneri e di responsabilità. Gli stati sono
a loro volta chiamati a compiere i propri doveri verso le classi umili e
povere.
L'azione sociale della Chiesa, dal giorno della pubblicazione di questa
enciclica, procedette più sicura, concorde e manifesta.
Occorreva che gli studi sociali si diffondessero fra i cattolici, che il
giovane clero non ignorasse i mali che soffriva la cristianità. Nel 1893
venne alla luce, per volere del Papa, la Rivista internazionale di
scienze sociali, a dirigere la quale furono chiamati due uomini di
valore: mons. Salvatore Talamo e il prof. Giuseppe Toniolo.
Rinaldo Beretta iniziò gli studi teologici nel Seminario di Corso
Venezia in Milano nel mese di ottobre nel 1894; il 3 novembre successivo
entrò in diocesi il nuovo arcivescovo, cardinal Andrea Carlo Ferrari,
«un Vescovo giovane e dinamico, che dava l'impressione di voler scuotere
la diocesi dal tepore in cui si trovava immersa causa l'immobilismo
caratteristico degli ultimi anni dell'episcopato di mons. Luigi Nazari
di Calabiana (1867-93), suo immediato predecessore».
L'ideale dei giovani preti di quegli anni erano la pastorale giovanile,
che si esplicava negli oratori parrocchiali, e la pastorale del mondo
del lavoro che si svolgeva nell'organizzazione del Movimento Cattolico.
A questa attività erano stati preparati dalle lezioni di sociologia
cristiana, tenute da Giuseppe Toniolo, figura di primo piano nel
movimento cattolico nazionale, nato a Treviso nel 1845 e dal 1883
professore ordinario di economia politica all'Università di Pisa; questi
era coadiuvato da don Dalmazio Carlo Minoretti, professore nella Facoltà
teologica del seminario in Corso Venezia, poi cardinale arcivescovo di
Genova.
Erano lezioni saltuarie, tendenti a illuminare i futuri sacerdoti con i
principi della sociologia cristiana nei confronti dello stato liberale,
allora dominante, e del fenomeno socialista che nell'ultimo decennio del
secolo aveva messo radici un po' dovunque in Italia, e soprattutto, dato
il suo particolare sviluppo economico, in provincia di Milano.
A partire dall'anno scolastico 1897-98, l'ultimo di seminario per don
Beretta, fu introdotto nel programma degli studi teologici il corso di
sociologia cristiana, detto allora Economia Sociale: primo docente fu
proprio Giuseppe Toniolo.
«Don Rinaldo Beretta dovette seguire con entusiasmo le lezioni del
Toniolo. Infatti ad una laureanda dell'Università Cattolica, che nel
1975 lo intervistò sui cappellani del lavoro, lui centenario rispose con
molta vivacità: «Ma eravamo tutti cappellani del lavoro».
Tra i suoi compagni di studi teologici, anche se appartenenti a corsi
diversi, troviamo i futuri cappellani del lavoro don Luigi Parodi e don
Carlo Grugni, che svolsero la loro attività soprattutto nella città di
Milano; don Pietro Bosisio che operò in Monza e nella Brianza; don
Giulio Rusconi, l'apostolo del Movimento Cattolico a Rho.
Suoi condiscepoli erano don Costante Mattavelli, ordinato sacerdote il 7
dicembre 1898 e destinato coadiutore dapprima a Cortenova Valsassina e,
nel 1901, a Carate; di lui dirà don Beretta: «Era Costante nei fatti
come nel nome; un tipo duro popolare. La sua casa era diventata il
secondo municipio per gli operai ed i contadini di Carate Brianza».
L'altro compagno di Messa, ordinato lo stesso giorno di don Beretta, era
don Edoardo Bonzi, coadiutore di Albiate, fondatore ed animatore della
locale Lega Cattolica del Lavoro, che nel 1902 contava più di 400 soci.
Una triade legata da fraterna amicizia, che fece un mondo di bene fra i
lavoratori cattolici della nostra contrada.
Un mese prima che don Rinaldo Beretta e i suoi compagni di corso
salissero l'altare per la prima Messa, la quiete del Seminario fu
turbata da fatti di sangue avvenuti in città. «La carestia — scrisse
Franco Catalano dell'Università degli Studiosi di Milano — questa parola
che sembrava dovesse essere ormai quasi sconosciuta, tornava invece ad
essere una triste realtà. Una crisi fattasi particolarmente acuta fra il
'97 e il '98, non riguardava solamente il pane: c'era un rincaro
artificiale di parecchi altri generi (petrolio, sale, medicinali,
cotone), di tutto ciò insomma che costituiva il consumo del povero e il
cui prezzo era stato elevato dalla protezione statale. Poi, le imprese
coloniali, le spese militari, quelle dei lavori pubblici improduttivi, i
furti delle imprese edilizie, lo sperpero delle banche e degli impianti
di industrie protette
avevano stremato il capitale disponibile nel paese e quindi ribassato il
prezzo del lavoro.
Di fronte a questo stato di cose, soprattutto all'aumento del prezzo del
grano e, di conseguenza, di quello del pane, con un Governo mosso da
interessi di classe [quella padronale], si ebbe la rivolta popolare, che
a Milano scoppiò il 6 maggio 1898 e durò fino al 10 successivo. Tutti i
quartieri della città si videro coinvolti: si tornò alle barricate, a
scontri fra i rivoltosi ed i soldati del generale Fiorenzo Bava Beccaris,
che non esitò a far piazzare i cannoni e sparare contro la folla». «Il
comunicato ufficiale parlò di 80 morti e 450 feriti, ma probabilmente
tali cifre dovevano essere raddoppiate: era stata una grande tragedia
che aveva visto i ceti popolari impegnati in una disperata lotta non
contro lo straniero, come era stato nelle epiche resistenze del
Risorgimento, ... ma contro le autorità civili e militari del proprio
paese».
Gli esponenti dei partiti (radicale, Carlo Romussi; repubblicano, Luigi
De Andreis; cattolico intransigente, don Davide Alber-tario; socialista:
Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Emilio Caldara) ritenuti responsabili
di aver provocato e organizzato l'insurrezione popolare furono arrestati
e condannati dal Tribunale Militare a vari anni di detenzione13.
I provvedimenti adottati dallo stesso Bava Beccaris contro i cattolici a
seguito dei fatti di Milano, furono drastici: L'Osservatore Cattolico,
il battagliero quotidiano milanese diretto dall'Albertario, fu
soppresso; il Comitato Diocesano dell'Opera dei Congressi venne sciolto,
e furono aboliti i Comitati Parrocchiali.
Quello di Robbiano non fu risparmiato. Redigendo il Liber Chronicus
parrocchiale, il nostro don Rinaldo si accontentò di scrivere: «Da
notarsi come nel 1898, nelle cinque tristi giornate di Maggio, venne
soppresso il Comitato Parrocchiale, associazione innocua di padri di
famiglia, per ordine del Governo. Il ministro (Giuseppe) Zanardelli,
timoroso dinnanzi ai socialisti insorti, volle mostrarsi forte coi
cattolici che in quei fatti non c'entravano».
Il 4 Giugno 1898, don Rinaldo Beretta ricevette in Duomo la
consacrazione sacerdotale, il giorno dopo cantò solennemente la
sua prima Messa nella chiesa parrocchiale di Barzanò e, nello stesso
mese, raggiunse la parrocchia di Robbiano, sua prima e unica
destinazione.
La Società Mutua Bestiame San Sebastiano
Il paese, in Comune di Giussano, aveva una
popolazione di poco
superiore ai mille abitanti (un paesello, dirà
sovente don Beretta parlando o scrivendo di Robbiano) ed era
economicamente abbastanza depresso. La presenza di un cannatolo di seta
e di una filatura di cotone non era certo sufficiente a cambiargli il
volto di paese eminentemente agricolo.
La popolazione, religiosa e ben organizzata in confraternite e
associazioni, rimaneva, nella quasi totalità, povera e senza previdenza
alcuna; la pellagra, causata dalla cattiva e insufficiente nutrizione, e
la tubercolosi, favorita dalle condizioni ambientali sopraddescritte,
erano abbastanza diffuse.
Di fronte a queste realtà, il giovane coadiutore non rimase con le mani
in mano. In breve sintesi, nella storia di Robbiano, egli presentò il
suo nuovo parroco con parole semplici, com'era nel suo stile: «Passato a
migliore vita nel febbraio del 1899 il parroco Santambrogio, vi successe
don Francesco Tanzi (1899-1938), nato a Carate Brianza nel 1860,
ordinato sacerdote nel 1885, ... arrivò a Robbiano il 16 luglio 1899,
festosamente accolto dalla popolazione.
Testimoni del suo zelo, oltre la viva cura nel mantenere e accrescere la
pietà del suo popolo, sono il nuovo concerto di cinque campane in re
maggiore della ditta Barigozzi (a. 1899), le nuove case coloniche del
Beneficio e la nuova ampia sagrestia (a. 1902), ... l'allargamento del
coro (a. 1910), ...la nuova casa del coadiutore (a. 1912), il
rifacimento del vecchio organo della ditta Recalcati di Sovico (a. 1921)
la mensa tutta in marmo dell'altare maggiore».
Nel Liber Chronicus don Rinaldo fu più esplicito; dopo l'accenno alle
nuove campane, collocate sul campanile nel dicembre del 1899,
«rifondendovi le preesistenti, delle quali due si erano rotte», egli
aggiunse: «il 13 aprile 1900 venne posto, concorrendovi per metà della
spesa il Municipio di Giussano, l'orologio da torre sul campanile, tanto
desiderato dalla popolazione. Non era più sufficiente la meridiana fatta
dipingere sul muro della chiesa, nella parte meridionale, dal parroco
[don Giuseppe] Pifferi il 26 giugno 1839».
L'accenno alle case coloniche apre uno spiraglio che permette la visione
reale della situazione in cui si trovava la chiesa parrocchiale: «il 25
marzo 1902, vennero atterrate le vecchie case del Beneficio addossate
alla chiesa ... I coloni furono collocati in un ampio nuovo fabbricato,
con stalle e cascine, edificato sopra una pertica e più di terreno
venduto dal Sig. Francesco Villa di Pietro, tintore di Agliate.
Fu questa un'opera degna di lode sotto ogni riguardo per il curato,
perché oltre all'aver procurato ai coloni una decente abitazione, liberò
la chiesa da brutte e cadenti catapecchie, le quali mandavano non di
rado il puzzo di stalla fino all'altare.
Certo che sarebbe stato più conveniente comperare più terreno, anche a
costo di spendere qualcosa di più, ed edificare il nuovo fabbricato
colonico nella parte nord della piazza, ancora tutta aperta alla
campagna; in tal modo la piazza sarebbe stata chiusa almeno in parte,
dando l'illusione a chi viene da San Luigi (strada provinciale) di una
piazza circondata da case: il paesello avrebbe avuto una migliore
fisionomia; oltre il vantaggio per il curato di avere vicino i propri
coloni per qualsiasi evenienza».
Dopo la presentazione del parroco con il quale avrebbe collaborato per
un quarantennio, don Rinaldo scrisse di se: «Mentre questi [don
Francesco Tanzi] era impegnato in una migliore sistemazione della chiesa
parrocchiale, il coadiutore, d'accordo col parroco, intraprendeva la
fondazione e l'organizzazione di un oratorio per i ragazzi che poi
diresse per molti anni, e al quale nel 1920 vi aggiunse la sezione
robbianese dei Giovani Cattolici Italiani.
Nello stesso tempo attendeva a trovare il modo di sollevare le depresse
condizioni della popolazione, pressochè tutta di poveri contadini
dispersi in vecchi cascinali; i padroni dimoravano altrove ...
Pertanto, nel 1904 [20 gennaio, festa di San Sebastiano] vi eresse la
Società di Mutuo Soccorso per il bestiame bovino.
Quando ad un contadino veniva a mancare la mucca, che era allora un
sostegno della famiglia - afferma don Beretta - era una faccenda seria
trovare i soldi per rimpiazzarla».
Le Mutue Soccorso Bestiame erano diffuse in tutti i paesi di economia
agricola e, per lo più, erano dedicate a San Sebastiano, soldato
martire, cresciuto a Milano, morto per la fede sotto un saettar di
frecce; e poiché queste divennero simbolo di peste, il santo martire fu
assunto come protettore contro i mali contagiosi; prerogativa che nel
secolo XIV condivise con San Rocco di Montpellier.
La Mutua Bestiame fu una vera provvidenza. «Quando ad
un contadino veniva a mancare una mucca - ebbe a dire don Rinaldo -
interveniva l'associazione che ritirava la bestia morta e la vendeva. Al
ricavato della vendita si aggiungevano le quote (per lo più minime) che
gli associati versavano, e questo era sufficiente per raccogliere una
somma adeguata per poter acquistare un'altra mucca, che veniva data al
proprietario».
Fu benefica l'iscrizione a questa Mutua per tre famiglie di San Giovanni
in Baraggia, alle quali un fulmine, caduto il 24 luglio 1906, uccise tre
mucche.
«Gli iscritti a questa prima forma di associazione previdenziale furono
moltissimi, un migliaio all'incirca, tutti cioè i contadini del paese».
«L'indirizzo della Società è cristiano - si legge nel Liber Chronicus -
perché oltre il bene materiale, essa ha per scopo di curare anche il
bene morale dei soci. Assistente dei medesimi è il coadiutore che ne
promosse l'istituzione».
Società di Mutuo Soccorso per Agricoltori ed Operai
La Mutua San Sebastiano rappresenta il primo passo
nel campo sociale
del giovane coadiutore di Robbiano, che nel 1906
lascia la parrocchia per poco più di un mese, dal 16 settembre al 24
ottobre, per partecipare al terzo Pellegrinaggio Nazionale in Terra
Santa guidato da mons. Giacomo Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, una
diocesi particolarmente sensibile all'impegno sociale. Durante il
viaggio ebbe modo di conoscere a fondo il giovane segretario del
vescovo, don Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII.
Ritornato a Robbiano, d'accordo con il parroco Tanzi, don Rinaldo prende
contatti con don Ernesto Acquati curato di Paina e
don Antonio Consonni parroco di Giussano, che già avevano istituito
nelle loro cure la Società di Mutuo Soccorso per gli Agricoltori ed
Operai, allo scopo di fondarla anche a Robbiano e formare fra le tre
parrocchie, tutte appartenenti allo stesso Comune, un unico consorzio,
diviso in tre sezioni.
La notizia data dal Liber Chronicus è laconica: «gennaio 1907 - I
parroci di Giussano, Paina e Robbiano (le tre parrocchie nelle quali è
diviso il Comune di Giussano) fondano una società Federale di Mutuo
Soccorso fra operai e contadini, dividendola in tre sezioni
parrocchiali, e ciò allo scopo di opporsi al dilagare di società di
spirito socialista o
anticattolico.
Nella sezione di Robbiano si iscrissero subito un centinaio di soci, e
vi fa da assistente spirituale il coadiutore che la organizzò».
Durante il mese di luglio successivo, «nella ricorrenza della festa
patronale, venne benedetta la bandiera della sezione robbianese della
Società di Mutuo Soccorso, con l'intervento di bandiere delle società
cattoliche di Carate, Giussano, Paina, ecc. Dall'oratorio i soci, in
bell'ordine sfilarono fino alla chiesa.
La bandiera in seta dai tre colori nazionali, sormontata dalla croce, è
lavoro della ditta Savelli di Milano. Prima della Messa solenne, il
prevosto di Mariano la benedisse ritualmente, rivolgendo quindi
opportune parole ai soci e alla popolazione tutta. Madrina della
bandiera fu la Sig.ra Razunz».
Lo scopo precipuo della Società è specificato nell'art. 2 dello Statuto
della Società di Mutuo Soccorso per agricoltori ed operai in Giussano,
l'unico giunto a noi, nel quale si legge: «L'associazione ha per scopo
il mutuo soccorso, l'istruzione, l'eccitamento al lavoro e tutto ciò che
tende a migliorare la condizione morale e materiale dei soci,
provvedendo ai medesimi con sussidi in caso di malattia ed impotenza al
lavoro».
Nel medesimo anno, 1907, venne fondata fra le tre predette parrocchie
una Società Federale Femminile di Mutuo Soccorso. Circa l'attività di
questo organismo non si hanno notizie dettagliate. «Dallo Statuto
sappiamo che la Società ammette tra le iscritte bambine fin dai 10 anni.
Per quanto riguarda la sezione di Giussano, si sa che una delle
iniziative promosse dalla Società di Mutuo Soccorso Femminile consisteva
nell'assistenza delle socie ammalate, che veniva espletata da un gruppo
di infermiere della Mutuo Soccorso designate di volta in volta dalla
presidente».
La Mutuo Soccorso durò a lungo: fino al 1931. In quell'anno, con decreto
del prefetto di Milano, del 30 maggio, considerato che «le associazioni
cattoliche svolgono attività contraria all'ordine Nazionale dello
Stato», esse vennero sciolte: a Robbiano le prime ad essere eliminate
furono l'Unione Giovani Cattolici e il Circolo della Gioventù Cattolica
Femminile Italiana; poi venne la volta della Società a Mutuo Soccorso.
Le prime due, dopo la forte reazione di Papa Pio XI, furono ripristinate
ed ebbero il loro periodo glorioso durante il ventennio fascista
(1925-45); la Mutua si autodistrusse.
La fine della Mutua Soccorso fu registrata nel Liber Chronicus dal
nostro don Rinaldo con queste parole: « ... Il fascismo, sistema
politico e sociale totalitario, che annientò ogni altro partito, se ne
impossessò; ma essa prima che venisse assorbita nel nuovo ordine di
cose, si
sciolse».
Scuola Serale
Il 1904 è l'anno dell'abolizione del non expedit,
decretato dal pontefice
Pio IX nel 1874, con il quale si proibì ai cattolici
italiani di partecipare alle elezioni politiche. Nel mese di ottobre del
1905, «nel Collegio Politico di Desio, di cui fa parte Robbiano, per la
prima volta dopo il 1870, si presentò ufficialmente un candidato
cattolico, l'avv. Angelo Mauri di Monza, direttore del giornale Il
Momento di Torino. La lotta fu combattuta contro il conservatore
liberale dott. Innocente Arnaboldi, notaio di Desio, sostenuto dai
signori, e il sig. Cesare Silva di Seregno sostenuto dal partito
radicale e massone. Fu eletto deputato del Parlamento quest'ultimo,
specialmente per aver fatto correre molto denaro e vino».
Don Beretta, che vergò queste notizie, le fece seguire dal seguente
commento: «I cattolici non devono spaventarsi delle sconfitte: il
cammino è duro. Abbiamo alle nostre spalle più di 35 anni di inazione e
di pregiudizi da combattere. Il clero si volle appartare da tutto ciò
che era movimento politico nazionale e, per voler conservare troppo,
rischiava di perdere tutto. Si accorse troppo tardi (meglio tardi che
mai!) che il mondo, bene o male andava avanti anche senza di lui e
contro di lui».
La legge elettorale allora vigente escludeva dal diritto di voto i
cittadini analfabeti. Per ovviare a questo inconveniente don Rinaldo,
nel mese di dicembre del 1907, «tenne la scuola serale onde preparare i
soci delle nostre associazioni cattoliche all'esame davanti al pretore
di Carate per essere iscritti nelle liste elettorali politiche e
amministrative».
Fu un'iniziativa che ebbe ottimo risultato: «Una cinquantina di persone
frequentarono la scuola che superò - come ricorda don Beretta - lo scopo
per cui era sorta originariamente, per diventare anche un ambito di
apprendimento dei fatti principali riguardanti la vita politica del
paese: i partiti che c'erano, le loro idee, i loro programmi».
L'esame davanti al pretore ebbe esito positivo per tutti i candidati, i
quali ottennero il certificato elettorale.
La scuola serale continuò per qualche anno,
acconsentendo a molti dei
nostri contadini di esercitare il diritto di voto.
La strada di San Giovanni in Baraggia
Don Rinaldo Beretta seppe prendere decisioni anche
contro la locale
Amministrazione Comunale, incentrata a Giussano, in
favore dei terrazzani della frazione di Robbiano.
«Gennaio 1909 - si legge nel Liber Chronicus. Il 2 di questo mese, senza
tante pratiche burocratiche, i terrieri della Cascina San Giovanni in
Baraggia si diedero ad allargare ed a sistemare la strada che da
Robbiano conduce alla soprannominata cascina. Il lavoro, energicamente
condotto, fu ultimato in una settimana».
Qualche proprietario confinante tentò di fare delle opposizioni, ma di
fronte alla tenacia di quei terrieri dovette cedere.
In tal modo si potè avere finalmente una bella strada larga di 4 metri e
piantonata coi relativi termini in vivo. Il Comune somministrò poi la
ghiaia, promettendo la manutenzione anche per gli anni successivi. Ma se
non verrà messa nel ruolo delle strade comunali (ora non è che una
strada vicinale), andrà ancora in deperimento, perché si sa cosa valgono
le semplici promesse quando si tratta di spendere.
Era già da anni che si domandava al Comune di Giussano di riparare la
strada, ridotta in uno stato miserando.
Nel 1905 il sindaco scrisse una lettera d'ufficio al signor Pietro
Luccardi nostro consigliere comunale, per dirgli che il Comune come tale
non poteva rimediarvi, ma solo concorrervi qualora si operasse per
iniziativa privata. Ecco il testo del documento.
«Municipio di Giussano n° 943. 20 Agosto 1905.
Stimatissimo Signor Pietro Luccardi - Robbiano.
La ringrazio delle informazioni datemi circa il conto del ramiere.
Quanto al restante della pregiata sua lettera, ella sa come io prenda a
cuore i bisogni dell'ottima popolazione di Robbiano.
Ho riscontrato appunto la necessità di due provvedimenti: nuove scuole e
strada di San Giovanni.
Il primo dipende esclusivamente dal Comune e mi assumo l'impegno di
provvedervi compatibilmente con le altre esigenze in corso.
Nel secondo invece, come credevo aver già dimostrato, il Comune, con
tutta la sua buona volontà, non può ne potrà mai fare nulla, fuorchè
pagare le duemila e cinquecento lire italiane (L. 2.500) promesse,
voltachè gli interessati abbiano eseguito la strada progettata.
Trattasi di strada privata che la legge vieta di far diventare comunale,
tanto più che San Giovanni non faceva parte dell'ex-Comune di Robbiano
ma di quello di Giussano, e che si è fatto lo sproposito di costruire e
rendere obbligatoria la strada di San Giovanni - Birone - Giussano.
Come ho già detto, la cosa deve farsi per iniziativa privata e il Comune
non può che concorrervi. Mi sono informato ancora a Milano e ho studiato
la partita convincendomi che per procedere in via legale si andrebbe
alle calende greche e si spenderebbe il doppio per lo meno.
Sempre ai suoi graditi comandi, con tutta osservanza mi protesto
Suo devotissimo Adolfo Corbetta - Sindaco».
Se questa missiva voleva essere un capolavoro di diplomazia, trovò in
don Beretta un demolitore incomparabile con il commento che le fece
seguire:
«La lettera merita qualche osservazione. Lasciamo andare il fabbricato
nuovo in luogo per le scuole, trovato necessario fin d'allora ma che
fino a quest'oggi [quattro anni dopo] non è ancora fatto; ma per la
strada di San Giovanni si deve osservare come la legge non vieta ai
Comuni di aprire nuove strade comunali per gli accresciuti bisogni delle
rispettive popolazioni, così non proibisce affatto di far diventare
comunale una strada qualora risulti una necessità. Ed è veramente
necessario che
quella strada diventi comunale, e quindi regolarmente mantenuta in buono
stato, per l'aumentata popolazione di quel cascinale e per le nuove case
fabbricate lungo la strada, con gente che deve venire a Robbiano per le
funzioni di chiesa, per la scuola, per l'asilo e per tanti altri
bisogni.
E' evidente che le strade si devono costruire per comodità della
popolazione, e non per contentare i capricci di qualche privilegiato che
siede in Municipio, come si è fatto per la strada San Giovanni - Birone
- Giussano. E d'altra parte non è detto che fatto una volta lo sbaglio
non si possa poi rimediarvi.
Se invece della poveraglia avessero dovuto passarvi i ricchi o i nostri
reggitori comunali, tutte le difficoltà sarebbero svanite e la strada
sarebbe già stata messa in buon ordine chissà da quanto tempo. La
ragione vera, se non erro, era che il Comune di Giussano non voleva far
l'utile anche a quello di Verano, che si era opposto a concorrervi,
giacchè la strada per gran tratto è un divisorio fra i due Comuni».
Comunque, visto che non si riusciva a nulla di pratico, tanto più che
alcuni proprietari facevano anche egoisticamente delle opposizioni, il
coadiutore sottomano indusse quei terrieri a fare quello che hanno
fatto.
Però invece delle lire 2.500 il Comune si accontentò di somministrare un
po' di ghiaia e di porre i termini di sasso.
La Cooperativa di Consumo
Nel primo decennio del nostro secolo procurarsi
generi alimentari nei
piccoli paesi non era un'impresa da pigliare a gobbo.
A Robbiano le cose stavano in questo modo: «Di esercenti non ce n'erano
allora - scrisse don Beretta - che due osterie, delle quali una con
licenza di vendere sale e tabacco, e un prestinaio che col pane giallo
(ordinario alimento, con la polenta e la minestra di riso con legumi)
sfornava giornalmente una cotta di pane bianco che finiva smaltita in
parte fuori parrocchia».
Parte dei commestibili più in uso veniva dalla campagna, ma per altri
prodotti, come zucchero, caffè, riso, carni e salumi, e quanto occorreva
per le necessità quotidiane della famiglia bisognava spingersi fino a
Giussano.
Nei dintorni, come a Carate, Verano, Albiate, Seregno, durante gli anni
1901-1902, si erano fondate Cooperative di Consumo, che fornivano a
prezzi onesti ogni sorta di generi alimentari e altro.
A Robbiano nel 1907 fu costituito un Cìrcolo di
Ritrovo in un vecchio edificio dietro la chiesa. In quest'ambiente un
gruppo di uomini, consigliati da don Rinaldo Beretta, dopo lunghe
discussioni, decisero di dar vita a una Cooperativa dì Consumo.
La sua genesi fu descritta dallo stesso don Rinaldo nel Liber Chronicus:
«Il giorno 10 giugno 1909 fu rogato l'atto costitutivo di una Società
Anonima denominata Cooperativa dì Consumo fra operai ed agricoltori di
Robbiano. Rogò l'atto il notaio Antonio Gallavresi residente in Monza, e
registrato nella stessa città il 14 ottobre.
La durata della cooperativa è stabilita fino al 31 dicembre 1959.
La nuova istituzione fu annessa alle opere cattoliche sociali diocesane.
Assistente spirituale fu eletto il coadiutore, per cui merito sorse
quest'altra opera di bene materiale e spirituale per i cari Robbianesi».
Costituita la Cooperativa si dovette pensare alla sede. Nel mese di
febbraio 1910, «comperatisi il fondo dal capomastro Angelo Boffi di
Giussano, la Cooperativa incominciò la costruzione di un fabbricato
nuovo adatto all'esercizio».
Appena tre mesi dopo tutto era pronto. «Nel mese di maggio 1910, ebbe
luogo l'inaugurazione del nuovo edificio della Cooperativa con
intervento dell'onorevole Lodovico Taverna deputato del Collegio di
Desio, di Panizzardi prefetto di Milano, e del Sindaco del Comune cav.
Adolfo Corbetta».
La Cooperativa svolse il suo compito tranquillamente per un ventennio;
ma con l'avvento del fascismo essa ebbe vita tormentata.
Dopo le elezioni politiche del 15 maggio 1921, la situazione precipitò:
gli scioperi agrari, la marcia su Roma (ottobre 1922), turbano e, in
qualche regione (Emilia Romagna, Toscana), sconvolgono il Paese.
Nel gennaio dell'anno appresso venne fondata a Giussano una sezione del
Partito Nazionale Fascista: nessuno dei Robbianesi diede il proprio
nome.
Nel 1924, alla vigilia delle elezioni politiche s'intensificarono le
violenze fasciste. Il 6 aprile si svolsero le elezioni con una nuova
legge (Acerbo) che permise ai fascisti la maggioranza assoluta in
Parlamento. Robbiano votò compatto per il Partito Popolare (l'odierna
Democrazia Cristiana), ad eccezione di solo otto voti. E come a Robbiano
in tutta la Brianza i
fascisti uscirono sconfitti.
Il loro livore si manifestò in una serie di rappresaglie «con saccheggi,
ferimenti e morti».
Continua don Beretta: «Colpite in modo particolare furono le istituzioni
economiche-sociali del Monzese e della Brianza, in maggioranza
cattoliche, poiché quelle socialiste erano già state in precedenza
distrutte in buona parte.
A Monza, per la seconda volta, danneggiarono per migliaia e migliaia di
lire la tipografia sociale dove si stampa Il Cittadino, giornale
cattolico della città; la medesima sorte subirono altri circoli e
Cooperative dello stesso luogo, compresa la socialista Camera del
Lavoro.
Circoli familiari, Cooperative, Case del Popolo subirono devastazione e
saccheggio ...A Giussano [i fascisti] arrivarono improvvisamente in
pieno giorno su di un camion e, smontati, si diedero senz'altro a
picchiare botte con nerbi di bue all'impazzata su quanti incontravano».
Queste spedizioni punitive erano compiute da squadristi provenienti da
altri paesi, edotti da fascisti locali.
«La Cooperativa di Robbiano, fra quelle dei nostri dintorni, fu la prima
ad essere colpita. La notte del giorno 7, alle ore 23,40, quando ormai
tutti si erano ritirati al riposo e nel paesello dominava piena quiete,
un forte gruppo di fascisti armati (oltre una cinquantina) giunsero
silenziosi e si fermarono davanti alla Cooperativa.
Rotta la lampada elettrica esterna onde evitare di essere riconosciuti,
una voce chiamò il dispensiere. Questi scese dal letto e si affacciò
alla finestra, ma subito dovette ritirarsi preso da spavento.
Rimbombarono tosto colpi di moschetto e di rivoltella, mentre una parte
degli assalitori con una grossa mazza fracassarono il cancelletto del
cortile donde, sfondato l'uscio di legno, penetrarono all'interno della
Cooperativa.
Gli altri rimasti fuori a fare la guardia continuavano a sparare colpi
per intimidire e tener lontano quei del paese.
Infatti, coloro che abitavano la casa prospettante la Cooperativa,
nell'udire tanto indiavolamento, vennero alle finestre per vedere di che
si trattava, ma dovettero subito ritirarsi sotto la minaccia d'essere
colpiti; e alle donne, che piene di spavento, gridavano e piangevano,
una voce levatasi da quella masnada gridò: è inutile piangere; questo lo
avete meritato con il vostro voto.
I fascisti entrati in negozio fracassarono i mobili, le bilance, tutte
le damigiane contenenti marsala, olio, ecc., tutte le bottiglie degli
sciroppi, le scatole dei biscotti, caramelle, caffè, ecc., un barile
quasi pieno di aceto; rovesciarono sul pavimento lardo, burro, i sacchi
di riso, le casse di pasta e di altri commestibili, producendo
un'orribile miscela
impregnata di petrolio, olio, aceto e liquori. Asportarono invece gran
parte del salame crudo e cotto.
Dalla bottega passarono in cucina fracassandovi le stoviglie, il rame, i
mobili, ecc.; rubarono le posate che erano nuove.
Entrati nel salone infransero tutto quanto serviva per la vendita del
vino: misure, bicchieri, calici; spaccarono un barile pieno di marsala
ed un altro pieno di nebbiolo, allagandone il pavimento; vi asportarono
invece tutto il salame crudo che stava appeso per la stagionatura.
Tutti questi danni e rubamenti furono compiuti in una quindicina di
minuti o poco più, quindi si portarono a Verano per fare altrettanto
verso quella Cooperativa Cattolica».
Questa minuta descrizione rende evidente la conformazione ambientale
della nostra Cooperativa: negozio di generi alimentari, un salone per la
mescita del vino, la cucina del dispensiere, che aveva nel piano
superiore le camere da letto.
I danni causati da quei vandali-ladri furono registrati dopo la cronaca
appena riferita: « ... merce rubata Lire 6.765; merce distrutta
completamente L. 6.350; merce orribilmente devastata, della quale ben
poco, per non dire nulla, commerciabile L. 10.389»; il tutto sommante a
lire 23.513.
Una cifra che dice ben poco a chi non visse in quel decennio, ma che
costituì un danno economicamente enorme per la nostra Cooperativa.
Osserva ancora don Beretta: «E ciò che rende ancor peggiore la cosa, si
è che queste azioni punitive rimasero impunite negli autori, e nessun
risarcimento di danni ebbero i danneggiati».
Oltre il danno anche le beffe. «Dopo aver provocato i sopraddetti
disastri i fascisti di Monza e del Circondario ebbero la sfrontatezza di
diffondere fra le nostre popolazioni un foglietto volante che riporto
testualmente ...».
Non vale la pena di riferirlo; si tratta di uno scritto pieno di livore
e d'improperi verso «i comunisti bianchi», coloro che votarono per il
Partito Popolare, che in tutto il circondario raggiunsero il 65 % dei
voti; lasciando alla Lista Nazionale Fascista «l'obbrobioso risultato
del 16%».
Seguono minacce verso «i sessantamila bastardi... ed ai loro perfidi
consiglieri» che avevano osato negare il voto ai fascisti.
Noi oggi non ci meravigliamo di questi atteggiamenti propri dei regimi
totalitari: qualche tempo prima dei misfatti esposti, i fascisti del
Ferrarese eliminarono a randellate l'arciprete di Argenta, don Minzoni,
eroico e superdecorato cappellano della prima guerra mondiale; e il 17
giugno di quel 1924, uccisero il deputato socialista onorevole
Matteotti, nativo del Polesine.
Entrambi avevano osato alzare la voce contro le nefandezze fasciste:
dopo processi-farse, mandanti ed assassini furono praticamente assolti.
La Cooperativa lentamente riprese la sua funzione socialmente benefica,
che continuò indisturbata fino al 1931. In quell'anno, oltre al colpo
mancino sferrato contro l'Azione Cattolica, il fascismo annientò, con la
Società di Mutuo Soccorso anche la nostra Cooperativa.
«Inquadrata nelle opere fasciste, ricostruita dopo l'assalto del 7
aprile 1924 con l'aiuto di tutta la popolazione, per contenere le
ulteriori pressioni che i fascisti facevano nei confronti della
Cooperativa, si dovettero ammettere nel consiglio di amministrazione
anche qualcuno di loro»; ma ciò non bastò a salvarla. In quel 1931 essa
perse la sua autonomia e la sua fisionomia cattolica, che l'aveva
qualificata fin dalla nascita: «Rimase la Cooperativa - scrisse don
Rinaldo - ma inquadrata nelle opere economiche fasciste».
Riebbe la sua autonomia dopo il secondo conflitto mondiale (1940-45),
che eliminò il partito totalitario fascista e diede ampio respiro agli
altri partiti. Lo Statuto Cooperative dì Consumo tra operai ed
agricoltori di Robbiano, 1949, all'articolo quinto del titolo primo,
esprime la natura morale-politica della rinata istituzione: «La
Cooperativa, che si ispira ai
principi della scuola cristiana, aderisce alla organizzazione che
espressamente ispira tali principi».
Cooperativa di chiaro stampo cattolico, ma aperta a tutti i Robbianesi,
purché non aderenti «ad associazioni anticlericali ed antisociali».
Don Rinaldo Beretta che nel 1938, alla morte di don Francesco Tanzi,
dopo quarant'anni di coadiutorato, aveva avuto dal card. Alfredo
Ildefonso Schuster la nomina di parroco di Robbiano, e nel decennio
successivo si era visto premiare con alcuni riconoscimenti civili la sua
fatica di storico, poteva ritenersi soddisfatto: il fascismo aveva
eliminato alcune istituzioni da lui create ed amorosamente seguite, ma
la sua Cooperativa, scampata agli eventi, viveva
ancora.
Altre attività sociali
«La terribile guerra mondiale (1914-1918) - come
scrisse don Beretta -
segnò per il popolo anni di sofferenze e di dolori.
Chiamati alle armi tutti gli uomini validi dai 18 ai 42 anni, molte
famiglie rimasero senza uomini in casa. La coltura dei campi la si
continuò alla meglio che si poté: tutto quanto era necessario al vivere
andò man mano crescendo di costo, specialmente dopo la nostra rotta di
Caporetto [ottobre 1917] ... Si viveva secondo il razionamento imposto
per legge, perché tutto veniva requisito dal Governo. Naturalmente il
regime di tesseramento e di calmiere fioriva il contrabbando. Il
granoturco, ad esempio, fu venduto nei nostri paesi fino a 120 lire il
quintale ai montanari della Valsassina, che scendevano a comperarne di
nascosto dagli agenti del Governo, essendo troppo scarsa la razione di
cibarie loro assegnata. E così si dica degli altri generi in
proporzione.
Le famiglie poi erano continuamente in ansia per l'incerta sorte dei
loro cari.
In parrocchia si facevano continue preghiere, oltre a quelle comandate
dal Santo Padre Benedetto XV e dall'Arcivescovo [card. Andrea Carlo
Ferrari], per implorare da Dio la cessazione di così inumane flagello
...
Si cercò di aiutare anche materialmente le famiglie più bisognose,
sovvenendole con denaro e aiutandole nei lavori più urgenti dei campi. A
tale scopo fin dal giugno 1915 si costituì nel Comune di Giussano un
Comitato Centrale e tre Sottocomitati per le tre Parrocchie del Comune».
L'annuncio fu dato alla popolazione con un manifesto, redatto a Giussano
il 20 giugno 1915, nel quale si legge:
«Mentre sui campi di battaglia i nostri soldati con sacrificio del
sangue affrettano il nuovo destino della Patria, sorge in noi il dovere
di far opera di fraterna solidarietà coll'assistenza morale e materiale
alle famiglie bisognose di tutti i militari che si trovano sotto le
armi.
A tale intento, per iniziativa del Sindaco, è sorto in Giussano un
Comitato Centrale di Soccorso, il quale provvederà ad ottenere tutti i
sussidi possibili dagli Enti Pubblici ed alla distribuzione diretta alle
famiglie.
Si è poi costituito un Sottocomitato per ogni singola Parrocchia
(Giussano, Paina e Robbiano), allo scopo di promuovere sottoscrizioni ed
ottenere possibili offerte nel modo che ciascun Sottocomitato stimerà
più del caso».
Dopo un breve accenno alle modalità da seguire per la raccolta e
distribuzione dei fondi, il Comitato Centrale fa appello alla
«Popolazione Giussanese» e attende «da Essa con larghezza l'obolo
fraterno, destinato a lenire i danni e le sofferenze delle nostre
famiglie povere, che sacrificano i loro cari per una Italia più grande e
più forte».
Presidente del Comitato Centrale era Ambrogio Viganò, Cassiere Ercole
Varenna, Segretario Giuseppe Leoni.
Il Sottocomitato di Robbiano era così costituito: «Parroco don Francesco
Tanzi, presidente, Beretta don Rinaldo, Brambilla Luigi, Colombo Natale,
Elli Enrico, Elli Santino, Rigamonti Domenico».
«Nella nostra Parrocchia - afferma don Rinaldo - si raccolsero in tutto
circa L. 3.000, le quali furono distribuite dal Parroco dietro parere
dei membri del Sottocomitato, i quali di quando in quando venivano
raccolti a Consiglio dal Curato.
Si noti che le oblazioni pervennero, per la maggior parte, da enti
pubblici, da persone facoltose e dal sindaco Ambrogio Viganò; il paese,
data la sua piccolezza e la povertà degli abitanti, poteva dare ben
poco. Non mancarono inoltre sussidi da parte del Governo alle famiglie
dei richiamati alle armi».
Ma la collaborazione di don Rinaldo Beretta nelle predette contingenze
belliche fu assai più ampia. Racconta egli stesso con la semplicità di
sempre: «Senonchè la guerra portò molto altro lavoro, sostenuto dal
Curato e dal Coadiutore, col far si che nessun campo rimanesse incolto o
perisse il grano per mancanza di braccia nel tempo della mietitura;
coll'attendere al disbrigo di pratiche burocratiche per gli aventi
diritto a soccorsi governativi; con il tenere corrispondenza coi soldati
della Parrocchia per animarli a compiere il proprio dovere dimostrandosi
sempre buoni cristiani e bravi soldati, e con i prigionieri per
consolarli nella loro prigionia in terre lontane; con lo spedire agli
stessi denaro, viveri, indumenti, ed altre cose che era loro concesso
mandare.
Lavoro assorbente e gratuito ma che si faceva volentieri perché, una
volta dichiarata la guerra, era dovere d'ognuno l'adoperarsi a
sostenerla, concorrendo a seconda delle proprie condizioni e
attitudini».
Durante il decennio che seguì il primo conflitto mondiale, don Beretta
ebbe due incarichi civili riguardanti la Scuola e l'Ospedale. «Il
Consiglio Comunale, nella seduta del 30 ottobre 1923, aveva nominato il
sac. Rinaldo Beretta alla carica di membro della Commissione di
Vigilanza scolastica. La Regia Prefettura rese esecutiva tale
deliberazione con visto del 19 novembre».
Trascorso un lustro, «con atto del Municipio di Giussano, in data 12
gennaio 1928, venne partecipata al sac. Rinaldo Beretta, coadiutore di
Robbiano, la nomina di membro del Consiglio di Amministrazione
dell'Opera Pia Ospedale Carlo Borella di Giussano; nomina fatta dal
podestà [...] il 22 novembre 1927 e resa quindi effettiva dall'autorità
prefettizia di Milano.
Noto questo — conclude l'interessato — perché, da quando fu eretto
l'Ospedale di Giussano, è il primo sacerdote delle frazioni che entra
come Consigliere d'Amministrazione in luogo del Parroco di Giussano».
L'ultimo gesto di valore sociale del nostro don Rinaldo è commovente,
non tanto per la realtà che esprime quanto per l'età veneranda di chi
l'ha compiuto.
«Nel 1950, si legge nel Liber Chronicus - in Parrocchia si ebbe
l'apertura del nuovo fabbricato scolastico comunale benedetto dal
Parroco, e del nuovo Cimitero benedetto dal Vicario foraneo [prevosto]
di Carate. Due opere veramente necessarie per Robbiano, per le quali il
Parroco si era molto interessato».
A quell'epoca il curato del nostro paese ha 75 anni di età e da tempo
pensa di avviare la soluzione di un complesso problema parrocchiale che
egli giustamente ritiene importante. Sotto l'anno 1951, scrive nel Liber
Chronicus: «E' da ricordarsi la compera del terreno, fatta dal Parroco,
sul quale costruire la nuova Chiesa parrocchiale, ormai necessaria per
l'aumento della popolazione in questi ultimi anni, e di un
Oratorio Maschile conforme alle moderne esigenze.
Il terreno acquistato e donato alla Chiesa è in posizione abbastanza
centrale: unico appezzamento di una certa ampiezza ancora disponibile...
Dopo quasi due anni di laboriose e dispendiose pratiche presso le
superiori autorità ecclesiastiche e civili, l'operazione fu condotta in
porto.
In compenso del terreno ceduto [al venditore del predetto appezzamento],
il Parroco comperò a sue spese dieci pertiche di terreno coltivo in
Robbiano e le cedette al Beneficio».
Si trattava di «poco meno di una ventina di pertiche milanesi di
terreno, di cui un terzo per la nuova Chiesa e Casa parrocchiale, e due
terzi per l'Oratorio o Casa del Giovane».
Il pezzo di cronaca si conclude con le seguenti parole: «Lascio al mio
successore, poiché io sono ormai vecchio, la fatica e la soddisfazione»
di realizzare i tre edifici nell'ordine indicato.
Questo parroco straordinario nel 1960, a 85 anni di età, rinunciò alla
cura di Robbiano, lasciandola a don Mario Meroni, il quale, sono ancora
parole di don Rinaldo, «condusse a termine la grandiosa costruzione del
nuovo Oratorio Maschile, iniziata nel 1959, della quale Sua Eccellenza
Mons. Sergio Pignedoli aveva benedetto la prima pietra con inclusa a
ricordo un'iscrizione latina su pergamena, dettata da
don Beretta».
Muor giovane colui ch'al cielo è
caro dice il poeta; ma non è dello
stesso parere lo Spirito Santo che promette vita
lunga a chi onora i
genitori.
Don Rinaldo Beretta godette di questa benedizione, partecipata ai
Robbianesi nella gioia di venerare la canizie di un sacerdote che, in 78
anni di ministero nella stessa parrocchia (caso unico, credo, nella
storia dell'arcidiocesi ambrosiana), ha beneficato «il paesello» e l'ha
nobilitato con il prestigio della sua eccezionale personalità."
Eugenio Cazzani