Circolo Culturale

"Don Rinaldo Beretta"

Robbiano di Giussano (MI)

La Figura di Don Rinaldo Beretta

Testimonianze:

"Ricordo del mio primo incontro con Don Rinaldo":

"Circa quarant'ann fa hoo dervii la mia casa de Caraa per tutt l'ann invece del temp appenn di vacanz. La famiglia coi fioeu la stava là benone, meì che a Milan; gh'era scool per studia; un bel giardinon selvadigh de pràa e de bosch per fann una pell senza pericol; aria bonna; tutt per stà alegher de anima e de corp.
Per la comodità de Milan visin mi podevi andà e vegnì tutti i moment a tegnì d'oeucc affari e famiglia.
Naturalment 'sta novitàa la mi ha dàa contatt coi element pussée interessant del paes e d'intorni. L'è sta pussée che naturai, ma addirittura un rivelazion felice quand m'é stàa ditt che a Robbian gh'era curat don Rinaldo Beretta.
Don Rinaldo Beretta! l'è stada pussée che ona molla la notizia e me sont preparàa all'incontro con ona preparazion de penser e de anima. Me figuravi già in la fantasia sto preton, storich, paleografo, romanista, ecc., grave e maestos, in ona gran poltrona, davanti a una gran scrivania, in un gran stanzon dai mur tapezzàa de liber; saria staa annunciàa con ona voos seccada de la perpetua che voreva dì, vegnì minga ch'a romp tant i scatol e inscé me sont dàa all'impresa con tutta la soggezìon de la partìda.
Diffatti arrivi al paesin de Robbian, me prepari alla visita con ona visitina di preludio in la gesettina, poeu son alla casetta. Prima accoglienza on cagnoeu che me ven incontra come l'avrìa fàa col gatt; subit la perpetua l'imboniss con ona rognada pesg per mandali a la cuccia, ma lu l'è fedel e'l molla minga a mezz boià e mezz rognà insemma, vegnen adree alla larga per paura de la scoa fissa a l'usc dove, intanto é già compars el don Rinaldo; apparizion a l'incontrari : el gran preton l'è un pretin minudel tutto grazia con ona confusion, quasi da rallegraas per la sorpresa de la visita! Un'accoglienza che metteva l'istinto de brasciall su prima ammò de basaggh i man. Come confus insemma al piasé che ghe traspariva el m'ha faa setta giò su ona banchetta e lì semm subit sentii che affiatamento de coeur era nassuu in num. Ma lù, l'era lù; pussée se cerca de tirali in del camp de la cultura, de la ricerca, di so pubblicazion, pussée lu el se retìra, el se tira in del bus come fa el grill, che, pussée el se inziga col ramettin in fond al bus, semper men te riessett a fall vegni foeura! Mi hoo cercaa de fagghel de nascondon e siccome gh'avevi la confidenza col cardinal Shuster, l'hoo mess in l'oreggia de tirali foeura in manera de fann on bel Dottor de l'Ambrosiana. Conclusion finale e presente l'è che don Rinaldo de Curat la voruu vess nominàa cugitour.
Se po ritoccà on ritratt de' sta fatta de don Rinaldo Beretta?
Per quanto lu el cercherà de scondes i cent ann che lu el cunta sarann bon de fagghela stavolta e el grill el dovrà vegnì foeura."

Conte Vincenzo Negri di Oleggio

 

"Un mito per noi chierici brianzoli":

"Sempre un po' schivo e quasi nascosto, fin sopra i cent'anni d'età, in un ameno paesello della sua amata Brianza, Robbiano di Giussano, don Rinaldo Beretta era già in qualche modo un "mito" nei miei anni di Seminario. I chierici di origine brianzola, specialmente i più appassionati per la storia locale, non disdegnavano d'andare in vacanza a trovarlo, magari per sentire, narrata da lui, qualche gustosa vicenda d'altri tempi: ora a proposito dei terrazzani di Porto d'Adda, ansiosi di non perdere il diritto ad un bastone del baldacchino nelle processioni eucaristiche di Cornate; ora in merito al famigerato prevosto-brigante di Seveso, Giovanni Battista Beanio, una sorta di "passator cortese" negli anni del manzoniano cardinal Federigo; ora soprattutto circa quella costellazione di antichi monasteri e conventi che concorsero a rendere tanto fecondo nel secoli l'humus religioso dei territori briantei.
Più di un tratto appare paradossale nella figura di don Rinaldo: la sua prima destinazione, da parte del beato cardinale Ferrari, fu in una minuscola parrocchia, stante quella cagionevole salute... che gli avrebbe fatto superare i 100 anni; in quell'ambiente il novello sacerdote seppe nonostante tutto attivarsi con zelo nel "cattolicesimo sociale" - così vivace negli anni segnati di fresco dalla Rerum novarum -, sino ad anticipare, in certe originali intelligenti realizzazioni, quelle che noi oggi chiamiamo le unità pastorali! Ed anche nel campo degli studi di storia locale non può non apparire sorprendente che un autodidatta qual sempre fu don Rinaldo - cui non mancarono, a onor del vero, ispiratori remoti della statura di Antonio M. Ceriani, prefetto dell'Ambrosiana - abbia potuto e saputo scandagliare con tanta perizia investigativa e con tanta lucidità interpretativa le fonti documentarie, da meritarsi financo, come si dice, la stima e l'encomio di Benedetto Croce!
Superiore ad un intero secolo l'ampiezza della sua limpida parabola biografica (1875-1976), 78 gli anni del ministero sacerdotale, tutti vissuti a Robbiano (62 dei quali con dirette responsabilità nella cura animorum), sessantennale la sua rigorosa e talora un po' tormentata produzione storiografica, cominciata attorno al 1910 ed approdata agli anni del post-Concilio.
Come Arcivescovo di Milano, come conterraneo di un "brianzolo DOC" (ho ben presente San Feriolo di Barzanò, frazione natale del nostro), persuaso come sono sempre stato circa l'importanza delle "radici" della fede e della religiosità del nostro popolo ambrosiano, non posso che compiacermi sinceramente alla notizia di una ripubblicazione, tramite i moderni strumenti e supporti informatici, dell'Opera omnia del caro don Rinaldo. E della bella e felice iniziativa mi dico oltremodo grato a chi dirige e sostiene il periodico Brianze.
"

 

"Rinaldo Beretta: sacerdote e storico":

"È per me un compito gradito, anzi doveroso, mettere in luce la personalità e i meriti di don Rinaldo Beretta per l'importanza che Egli ebbe nella mia vita, specialmente nell'orientamento intellettuale della mia prima giovinezza.
Don Rinaldo era amico di mio padre, che egli chiamava familiarmente «suo coscritto» essendo nato nello stesso anno 1875.
Quando mio padre per recarsi al lavoro — fu per parecchi anni Segretario Comunale di Giussano e poi, lasciato Giussano, divenne Segretario di Verano stabilendosi con la famiglia a Carate — passava in bicicletta, percorreva la strada tra Carate e Giussano e incontrava spesso don Rinaldo che faceva la stessa strada a piedi col parasole grigio; don Rinaldo si fermava, gli faceva segno con la mano e lo salutava: «Salve, coscritto».
Fu sempre affezionato alla mia famiglia e quando morì mia madre si fece trasportare a Verano per il funerale, all'età di 95 anni.
Mio padre ne aveva stima e ammirazione e a me, ancora ragazzo, parlava di Lui esprimendo la sua meraviglia sia per la scienza di don Rinaldo, ma anche per la dedizione al lavoro, per la vita che conduceva in mezzo ai libri a documenti e alla polvere nonostante la salute precaria, perché — mi disse — aveva un polmone solo; questo di lui colpiva mio padre: «Un uomo che ha un polmone solo e vive sempre in mezzo alle carte». Io non ho conferma della notizia secondo cui don Rinaldo doveva aver subito l'operazione che chiamiamo pneu-motomia quando era ancora giovane!
Quando io ero al liceo don Rinaldo sentì parlare della mia inclinazione verso lo studio dell'ebraico e allora mi incoraggiò in diverse occasioni; mi predisse che io sarei finito alla Biblioteca Ambrosiana.
Appena nominato Dottore dell'Ambrosiana scrissi una lettera, recapitata a don Beretta, dicendo: «Sono diventato Dottore dell'Ambrosiana e Lei don Rinaldo è stato profeta».
Si compiaceva nel descrivermi l'ambiente della Biblioteca e nel dirmi i consigli ricevuti dall'Illustrissimo Prefetto Mons. Antonio Ceriani, consigli che voleva servissero anche a me.
Tra parentesi devo precisare che la mia vocazione all'ebraico è connessa con l'interesse per la Bibbia.
Ricordo anche con interesse quando don Rinaldo mi parlava delle sue esperienze nei pellegrinaggi in Terra Santa e ricordo della mia speranza, cullata fino da quei tempi, di poter un giorno anch'io visitare e studiare quello che era stato il paese di Gesù.
Non tutti comunque erano dello stesso parere di don Rinaldo, non tutti nutrivano quel senso di ammirazione per la Terra Santa. Il Prevosto di Carate, Mons. Crippa, diceva che è perfettamente inutile andare in Terra Santa: «Che cosa c'è là: una muntagna de sass!» Ma per don Rinaldo, e per me adesso, ogni sasso ha la sua storia.
Tutto questo spiega la mia soddisfazione di poter rievocare qui la figura di don Rinaldo, incominciando con qualche cenno biografico esposto in modo schematico.
Nato a S. Feriolo, frazione di Barzanò, il 26 Febbraio 1875 da una famiglia di agricoltori, frequentò il ginnasio; ciò lascia supporre che fosse in una famiglia che aveva capito che questo ragazzo aveva dei buoni progetti per l'avvenire e con sacrifici, naturalmente, lo fecero studiare al Collegio di Merate, poi al liceo all'Istituto Villoresi di Monza e finalmente studiò Teologia al Seminario di Corso Venezia a Milano.
Ordinato Sacerdote dal cardinal Ferrari, il 24 Giugno 1898, e destinato come coadiutore a Robbiano subito alla prima destinazione, vi rimase tutta la vita fino alla morte avvenuta il 21 Aprile 1976, a 101 anni.
Nei primi anni di Ministero a Robbiano, rispondendo alle esigenze di quei tempi segnati da grandi agitazioni sociali, si prodigò per il bene anche materiale della popolazione, in massima parte formata da contadini. Faccio solo qualche accenno.
Verso il 1900 fece sorgere la Società di Mutuo Soccorso contro i danni della mortalità del bestiame. I contadini avevano 1-2 mucche e la morte delle bestie era un disastro per quelle famiglie; allora mettevano insieme le forze e costituivano il fondo per venire incontro a queste evenienze.
Nel 1906 ci fu il famoso pellegrinaggio in Terra Santa — durato più di un mese — guidato dal Vescovo di Bergamo Mons. Tedeschi, che aveva come giovane segretario don Angelo Roncalli il quale poi diventò Papa. Don Rinaldo ha quindi conosciuto bene anche don A. Roncalli.
Nel 1907 fondò la Sezione Robbiano della Società di Mutuo soccorso per operai e contadini. Il termine Sezione dipende dal fatto che era federale: cioè comprendeva Giussano, Paina, Robbiano... perché allora non c'era un solo Comune; le Sezioni erano affiancate alle Parrocchie e in queste Società di soccorso, di aiuto, erano inseriti anche operai e non solo contadini.
Nello stesso anno sorge la Società Federale femminile di Mutuo Soccorso per le donne che lavoravano, specialmente per quelle che erano nelle filande il cui lavoro era pesante e pochissimo retribuito.
Alla parità di tutti i cittadini ci si è arrivati infatti per gradi: per esempio, agli inizi del secolo non votavano le donne; al tempo di don Rinaldo prima erano esclusi quelli che non avevano beni, poi gli analfabeti cioè quelli che non sapevano esprimersi. Prima di votare bisognava dimostrare di saper scrivere. A Robbiano ce n'era una 50a di uomini che non sapevano scrivere e don Rinaldo si mise a far scuola serale ai contadini analfabeti in modo da abilitarli a poter votare. Che animo bello questo don Rinaldo!
Poi nel 1909 sorse la Cooperativa di consumo.
Tutta la storia di queste iniziative, a carattere sociale, di Robbiano sono tutte ben descritte in un numero unico messo insieme da Fiorenzo Tagliabue, intitolato «don Rinaldo e la sua gente», pubblicato in occasione del 100° compleanno di Don Rinaldo nel 1975, quand'egli era ancora vivo.
Questo autore si è compiaciuto di insistere su questo aspetto descrivendo il momento sociale molto drammatico — fu un momento tremendo — le esigenze popolari di chi non voleva piegarsi, arrivando anche a spargimenti di sangue: si sparò sulla folla.
Un aspetto della personalità di don Beretta era la sua intelligente apertura verso i problemi sociali, unita all'affetto fattivo verso la sua gente. Non è sufficiente capire le cose bisogna mettersi a farle, a lavorare: così ha fatto don Rinaldo.
Un secondo aspetto fu l'amore per il proprio Ministero Sacerdotale. Era felice di essere prete, senza cercare titoli accademici e senza aspirare a promozioni, contento di essere a Robbiano tra la sua gente semplice.
Ne abbiamo avuto una prova quando, nel 1938, alla morte del Parroco don Francesco Tanzi, don Rinaldo — coadiutore da 40 anni — optò per diventare il Parroco e in quell'occasione ebbi una conversazione con Lui che mi fece capire bene il suo pensiero, il suo animo.
Allora don Rinaldo era già conosciuto per le sue pubblicazioni nel campo delle ricerche storiche. Qualcuno, che non volle nominare, gli aveva detto che non si aspettava di vederlo Parroco, pressappoco in questi termini: «Lei, don Rinaldo, certamente non vorrà diventare Parroco; ha degli studi troppo importanti per le mani per metterli da parte. Chiunque altro potrà fare il Parroco, ma gli studiosi come Lei non sono tanti». Al che don Rinaldo, quasi offeso, rispose protestando che per Lui la cosa più importante era quella di essere prete. Rimase in funzione di Parroco per 22 anni, fino al 1960, quando fu nominato il nuovo Parroco: accettò umilmente, all'età di 85 anni, di uscire dalla confortevole casa parrocchiale e di ritornare nella vecchia casa.
Questa cosa era spiaciuta ai suoi amici. Avrebbe potuto rimanere là!
Venne anche qualche onoreficenza: nel 1957 l'Amministrazione Provinciale gli conferì una medaglia d'argento di benemerenza, appunto per i suoi studi.
Nel 1962 fu nominato Cavaliere al merito della Repubblica.
Data l'età aveva il privilegio di celebrare la Messa in casa, ma di questo non volle servirsi se non in casi estremi: preferiva celebrare in Parrocchia, in mezzo alla sua gente. Io stesso lo sorpresi più volte nell'atto di scrivere la predica per la Messa domenicale: aveva 85-90 anni! È segno di un grande rispetto per la parola di Dio, ma anche di un grande rispetto per la gente a cui voleva predicare. Si preparava ancora a quell'età, scrivendo.
Il terzo aspetto, quello dello studioso, non è tanto semplice da spiegare! Fu un ricercatore di prima mano; indagò negli archivi e nelle Biblioteche per ricostruire le vicende storiche delle località della sua amata Brianza e cominciò con il «Liber Chronicus» cioè con la cronaca degli importanti avvenimenti della Parrocchia, compito allora affidato dal cardinal Ferrari a tutti i Parroci e ai Preti delle Parrocchie: essi dovevano tener annotato sempre, di volta in volta, tutto quello che fosse avvenuto di importante. Forse fu quella la scintilla che gli fece discernere la sua vocazione di storico, ciò che ha tirato fuori la stoffa che c'era in lui spingendolo a mettersi a scrivere, a tornare indietro, a vedere ciò che si poteva trovare nel passato.
Dopo i primi pregevolissimi libri pubblicati, compreso della serietà dell'impegno che si era assunto e della responsabilità di fronte ai lettori, si fece di nuovo studente e frequentò la scuola di paleografia dell'Università statale di Milano, prendendo poi il diploma appunto di paleografo. Tale scienza è una pratica indispensabile per leggere la scrittura degli antichi documenti, scrittura caratterizzata da forme diverse di caratteri e specialmente dalle frequentissime abbreviazioni. L'elenco delle sue pubblicazioni si trova nel già lodato numero unico curato da Fiorenzo Tagliabue. Per dare un'idea riassuntiva delle pubblicazioni basti dire che si tratta di diciotto libri e di circa 40 articoli. Gli articoli, in genere molto estesi, sono stati pubblicati in varie riviste o collezioni, specialmente in importanti riviste archivio-storiche lombarde e nelle memorie storiche della Diocesi di Milano, diretta da Mons. Marcora. Quando scriveva per queste riviste, don Rinaldo era sicuro di essere letto da specialisti ad alto livello.
Quanto ai libri, che possono soddisfare l'intelligente curiosità di un numero maggiore di lettori, questi riguardano le origini di paesi della Brianza o fatti particolari che li concernono.
Ricordiamo così a volo d'uccello: «Alberto da Giussano» e «La Battaglia di Legnano»; affrontò la questione, molto discussa tra gli storici, relativa alla localizzazione di «Cassìciacum» dove risiedette per qualche tempo S. Agostino: il luogo viene identificato con Cassago oppure con Casciago (Cassago è in Brianza mentre Casciago in Provincia di Varese); si occupò di Agliate e dei suoi monumenti, di Robbiano, di Vimercate, delle origini e limiti della Brianza, questo nome che egli qualificava anticamente; si interrogò su come mai questa Brianza avesse avuto una sua identità in mezzo alle altre Regioni; ricostruì la storia di Barzanò antica sua patria.
Tra gli articoli delle memorie storiche figurano gli studi sui monasteri e i conventi di Lambrugo, Verano, Casatenovo e, fuori dalla Brianza, i suoi interessi di storico si rivolsero anche a Cassano d'Adda, a Trezzo D'Adda, a Porto D'Adda ad altre località.
Delineata così rapidamente la figura di don Rinaldo, come sacerdote e come pastore, che voleva bene alla sua gente, come studioso, ci domandiamo: fu anche maestro? Ebbe cioè dei discepoli, nella sua competenza di ricercatore nel campo della storia?
Sappiamo che ha validamente contribuito alla elaborazione della tesi di qualche studente universitario («..meglio attaccarsi a don Rinaldo»...) se la quiete di Robbiano gli consentiva di lavorare con tranquillità tuttavia non favoriva l'afflusso di discepoli. Io però, in un certo senso, posso considerarmi suo discepolo e sono lieto di consegnare a qualcuno di voi, in questa circostanza, la «fiaccola» che prima ha menzionato Mons. Marcora, la fiaccola dei consigli che don Rinaldo, in diverse occasioni, ebbe modo di darmi.
Il primo consiglio fu questo: «non fossilizzarti (in dialetto, perché parlava sempre in dialetto) nello studio delle grane». Cosa voleva dire visto che io ero ancora studente? Già ho detto che Egli prevedeva che sarei finito alla Biblioteca Ambrosiana; quel consiglio voleva essere un avvertimento ad allargare il campo verso il quale mi portava la mia passione di studioso. Una conoscenza, seppur approfondita come deve essere, se è isolata non è l'ideale. Una conoscenza approfondita non può restare isolata. Una ultra-specializzazione, che escluda il resto, non giova ad un ricercatore perché tale esclusione gli preclude eventualmente la visione di cose che illuminerebbero il suo campo di ricerca.
Il secondo consiglio è stato: «non fidarti delle esitazioni degli altri e non commettere l'ingiustizia di citare, come frutto delle tue ricerche, le citazioni copiate da altri. Devi sentire il dovere di verificare tutte le citazioni direttamente sulle fonti, siano libri stampati o documenti di archivio.
Se per impossibilità, o per la fretta, non puoi andare alla fonte, almeno riferisci l'autore da cui hai preso la notizia, lasciando a lui la responsabilità; così il lettore non sarà ingannato e, se sarà il caso, andrà lui stesso a verificare la citazione che tu hai dato sinceramente, ma di seconda mano, dicendo che è di seconda mano».
Questo consiglio mi fu dato più volte e, come l'ho ricevuto io da don Beretta, don Beretta l'aveva ricevuto a sua volta dall'Illustre Prefetto dell'Ambrosiana Mons. Ceriani. Son queste le direttive di don Rinaldo e noi possiamo ora capire l'enorme lavoro di consultazione che sta sotto la sua opera e che gli dà tanto valore.
Mi auguro che tra voi, suoi estimatori, ci siano di quelli che continueranno la sua opera.
"

 

mons. Enrico Galbiati

 

"L'opera sociale di Don Rinaldo Beretta":

Robbiano nella seconda metà dell'Ottocento

Poco più di un secolo fa, Amato Amati scrisse nel suo ponderoso Dizionario Corografico dell'Italia: «Robbiano già Comune in
Lombardia, provincia di Milano, circondario di Monza, mandamento di Carate Brianza.
Aveva una superficie di 149 ettari.
La sua popolazione di fatto, secondo il censimento del 1861, contava abitanti 589 (maschi 306 e femmine 283). Quella di
diritto di 606.
La Guardia Nazionale consta di 27 militi attivi.
Gli elettori amministrativi nel 1865 erano 37, ed uno i politici, inscritto nel Collegio di Vimercate.
L'Ufficio postale è a Giussano.
Appartiene alla Diocesi di Milano.
Il territorio, che apparteneva a questa comunità, si stende in piano ed in colle, e viene lambito dal Lambro: il suolo è fertile e ben coltivato. I prodotti principali si ricavano dalle viti e dai gelsi: di qualche rilievo sono le raccolte delle biade, del fieno e dei legumi. Si mantiene limitata la quantità di bestiame.
Questo villaggio sta a meno di un chilometro dalla riva destra del Lambro, a tramontana (settentrione) da Carate, a maestro (nord-ovest) da Verano, ed a quasi dodici chilometri da Monza...
Con regio decreto del 9 febbraio 1869, venne privato dell'autonoma amministrazione comunale ed aggregato, quale frazione, al
Comune di Giussano».
Era un mondo eminentemente agricolo, con prodotti della nostra campagna costellata di gelsi per avere la foglia indispensabile all'allevamento del baco da seta, che rappresentava una risorsa economica tut-t'altro che indifferente.
Non mancavano i vigneti, dei quali si ricavavano uve che davano un vino allora apprezzato, non sdegnato dalla musa di Carlo
Porta:
"Vin nostran, vin di noster campagn, ma legittem, ma scrett, ma sinzer"

vini «scialós e baffiós», brillanti ed eccellenti da leccarsi i baffi.
Nella seconda metà dell'Ottocento, la vite in Brianza scomparve, vinta dalla concorrenza dei vini piemontesi e dell'Italia meridionale; si intensificò invece la coltivazione del grano e del baco da seta.
Sostegno dei poveri erano i granì minuti (il panico, il miglio: pan dei mei), le castagne, i legumi (fagioli, piselli, fave, veccia) e frutta.
La biada grossa (frumento e segala) era quasi tutta di spettanza padronale.
Da un «Quistionario per lo studio delle condizioni igieniche e sanitarie, civili ed economiche dei lavoratori della terra in Italia», redatto nel 1878 dal dottor Agostino Bertani, commissario parlamentare per l'inchiesta agraria, togliamo alcune notizie riguardanti il comune di Monza e dintorni: «La base dell'alimentazione del colono è il granoturco in pagnotte e specialmente in polenta, concorrentemente però, in più o
meno larga misura, col riso, col latte, col cacio, coi legumi, col pane di frumento pei malati e pei vecchi.
Il pane, come si disse, è di granoturco o misto, ma prevale la polenta.
Il companatico più comune, oltre il cacio, sono il lardo e le carni porcine insaccate; la carne di manzo, più spesso di vacca, è riservata in generale pei giorni festivi, ma i capocasa ne mangiano più spesso all'osteria.
Il condimento più comune è il burro, e pei più poveri l'olio: d'oliva, di lino, di noce...».
Circa l'igiene, si legge: «Non esistono nel comune pubblici edifici appositi sia per lavanderia [a Robbiano un lavatoio pubblico sarà aperto soltanto nel 1913], sia per bagno o nuoto, ma nelle numerose roggie ci sono gli accessi ed i commodi per le lavandaie, ed i contadini si bagnano però nelle roggie e nel Lambro, ma più per spasso che per pratica di pulizia e salubrità».
Riguardo al riposo: «Il contadino d'estate si corica presto, dopo cena e si alza avanti il sole. D'inverno si corica a serata più inoltrata, ma si leva sempre per tempo...
Il contadino dorme sempre su pagliericcio, il più spesso ha anche materasso di lana. Pel pagliericcio sono preferite le foglie delle spire di mais. L'uso dei letti elastici non è ancora penetrato fra i contadini.
Un requisito pel matrimonio è l'impianto di un doppio letto matrimoniale con cavalletto, pagliericci, materassi, trapunte, ecc.».
he abitazioni vengono così descritte: «I villaggi non constano che di poche case agglomerate, la nettezza delle vie pubbliche
è sufficientemente curata e non sono tollerati su di esse né sfoghi di fogne, né depositi di lordure, né ristagni d'acqua...
Le case coloniche constano in generale di un piano terreno e di un piano superiore; nel primo vi sono le cucine e le camere da lavoro; nel secondo le camere da letto ed i granai; a parte poi le stalle ed i fienili.
Le stalle o fanno corpo con la casa o mettono sulla corte comune, ed ugualmente hanno al di sopra le tettoie pel fieno e per lo strame.
Le famiglie si raccolgono nelle stalle d'inverno...
Gli animali non coabitano con la famiglia, quantunque debba lamentarsi che, per vegliarli contro i ladri, si costumi di costruire i porcili ed i pollai troppo vicini all'uscio di casa.
I cessi vi sono dappertutto, e quantunque poco puliti, sono sempre vuotati al bisogno, dandosi grande importanza all'ingrasso umano...
I concimi sono accumulati fuori delle stalle, sia nelle corti, sia dietro le abitazioni, in generale purtroppo a non molta distanza.
La pratica dei letamai coperti non è sconosciuta, ma non è generale».
Alla domanda se «il lavoratore delle terre, ...mediante il lavoro indefesso, potesse mettere da parte il bisognevole per la sua vecchiaia» si ha la seguente risposta: «Per vivere stentatamente occorrono almeno 300 lire all'anno, quindi perché un lavoratore e sua moglie, arrivati a 60 anni, potessero avere un reddito vitalizio di almeno 500 lire, bisognerebbe che in 45 anni potessero aver risparmiato dalle 5 alle 6 mila lire, cioè dal 120 a 150 lire all'anno; questo è impossibile nelle condizioni attuali e in questa forma. Ma l'investimento corrispondente avviene nell'allevamento del figlio che, salvo disgrazie, alimenta a suo tempo i vecchi genitori, come questi hanno fatto coi loro».
Allora, come afferma la relazione che stiamo presentando, non vi erano «istituzioni speciali di soccorso pei contadini bisognosi, pareggiati agli altri poveri del comune, all'amministrazione delle cui pie fondazioni gestite in conformità alla legge sulle Opere Pie, prendono parte anche benestanti ecclesiastici, ma per elezione, non per privilegio».
Tale era la situazione di Robbiano sulla fine dell'Ottocento, quando arrivò in parrocchia don Rinaldo Beretta, giovanissimo sacerdote, che in

seminario aveva studiato anche sociologia.

L'ultimo decennio dell'Ottocento a Robbiano

«L'istruzione elementare del popolo -scrisse don Beretta nel Liber

Chronìcus parrocchiale - non fu trascurata, e venne man mano migliorando. È merito del governo austriaco l'aver esteso in Lombardia a tutti l'obbligo dell'istruzione primaria, per cui anche le famigliuole, fino allora trascurate, poterono avere le necessarie cognizioni del leggere e dello scrivere.
È bensì vero che fin dal 4 settembre 1802 fu promulgata una legge [da Napoleone Bonaparte], per la quale in ogni comune si doveva istituire una pubblica scuola primaria, ma questa legge durante la dominazione francese in Italia rimase quasi lettera morta, così che, al cadere dell'impero napoleonico, nelle campagne non vi erano pubbliche scuole per le ragazze del popolo, pur non mancando scuole private. Invece al finire della dominazione austriaca, si può dire che non frequentavano le scuole un terzo dei ragazzi e un quarto delle ragazze; la maggior frequenza era data dai comuni dell'Alta Lombardia e la minima da quelli della Bassa.
In Robbiano - conclude don Beretta -non c'era che la scuola per i figliuoli, i quali imparavano a suon di nerbate, come mi ebbe ad affermare qualche vecchio».
L'esito concreto di questo insegnamento si ebbe nel 1865, con 37 «eletti amministrativi», i quali poterono essere tali soltanto se sapevano leggere e scrivere, e con un solo «elettore politico», prerogativa che richiedeva un lettore «abbiente e letterato» qualità difficilmente coniugabili negli abitanti di Robbiano, poveri come erano.
Una situazione incresciosa, alla quale cercherà un palliativo il nostro don Rinaldo.
«Il 4 novembre 1890 si inaugurava l'O-spedale Carlo Borella in Giussano per gli ammalati poveri dei Comuni di Giussano e Briosco: opera munifica lasciata per testamento dal sig. Carlo Borella di Giussano, morto nel 1882. Robbiano, facente parte del Comune, veniva in tal modo a usufruirne».
Sono parole di don Rinaldo Beretta, che non sarà estraneo nell'amministrazione di questo ente benefico.
Durante gli anni 1891-99, resse la parrocchia di Robbiano don Anacleto Santambrogio, che ebbe come ultimo coadiutore don Beretta, il quale lo ricordò nella sua storia di Robbiano con queste parole: «Ordinato sacerdote nel 1877, trascorse sette anni come coadiutore a Costa Masnaga ed altri sette come parroco di San Nazaro Val-cavagna, finché nel 1891 venne eletto curato di Robbiano. Nel 1892-93 rialzò il vecchio campanile a torre, dandogli una forma snella e slanciata a cuspide, e vi aggiunse tre nuove campane alle tre antiche preesistenti.
Nel 1894 comperò per lire 675, in occasione dei restauri della basilica di Agliate, la bellissima balaustrata di marmo in stile barocco dell'altar maggiore.
Nel 1895-96 fece decorare e affrescare la chiesa dal pittore Farina di Macherio, e contemporaneamente pensò alla costruzione dell'oratorio di Santa Filomena, della quale era molto devoto, allo scopo di raccogliervi per la Dottrina Cristiana i figliuoli e le figliuole nei giorni festivi. Inoltre nella parrocchiale collocò nelle rispettive ancone la statua del Sacro
Cuore di Gesù e quella dei patroni Quirico e Giulitta.
Altro meditava di compiere per la sua chiesa, quando lo colse la morte nell'ancor giovane età di 45 anni, il 23 gennaio 1899.
Fu sepolto nella cappella mortuaria Forlanelli-Razunz».
Dopo aver accennato all'impegno con il quale il parroco Santambrogio attese a coltivare la pietà del suo popolo durante i sette anni in cui resse la parrocchia, don Rinaldo Beretta continua: «E' doveroso ricordare come nel 1898 la Sig.ra Teresa Razunz, facendo costruire a sue spese un Asilo Infantile e affidandone la direzione alle Suore di Maria Bambina, concedeva che il locale nei giorni festivi rimanesse aperto per ricreatorio per i ragazzi.
Alla sua morte, avvenuta il 17 ottobre 1907, avendo lasciato erede della sua sostanza le sopraddette Suore, queste assestarono l'Asilo nella casa padronale (ove continuarono l'Oratorio femminile) e il fabbricato dell'Asilo, passato di proprietà del Parroco, rimase totalmente a disposizione per i ragazzi dell'Oratorio.
Nell'ampia casa padronale, anni dopo le Suore apersero inoltre un Probandato del loro Istituto, chiamando un sacerdote a prestare i suoi uffici in qualità di cappellano...».
Asilo infantile con Oratorio Femminile, ed Oratorio Maschile, due istituzioni tanto propugnate dal cardinale Andrea Carlo Ferrari, già sulla fine del secolo scorso prendevano vita in quel minuscolo paese, poco più di un villaggio, destinato ad accogliere, con parroci di valore, un coadiutore eccezionale.
L'avevano preceduto, in quello scorcio di secolo, sacerdoti rimasti a Robbiano «lo spazio di un mattino». Scrisse il nostro don Rinaldo: «In quanto ai coadiutori ... venne nel 1892 don Pietro Figini. Dopo quattro mesi, per malattia dovette ritirarsi presso la casa paterna e vi moriva di tubercolosi.
Successe don Carlo Villa di Turro Milanese, divenuto poi prevosto di Casoretto [in Milano], il quale giunto nel 1895 non si fermò anche lui che pochi mesi.
La mancanza di una rendita sufficiente per vivere e di una casa decente per abitazione rendeva non facile la residenza ai coadiutori.
Il parroco Santambrogio cercò di rimediarvi in parte coll'ottenere dalla sig. Teresa Razunz8 una casa alquanto migliore con annesso un po' di terreno per orto e giardino. Troppo poco in verità perché la coadiutoria di Robbiano potesse dirsi definitivamente sistemata.
Al Villa subentrò don Pietro Tenca, nativo di Margno in Valsassina, ordinato sacerdote nel 1880. Dalla coadiutoria di Monte Introzzo se ne veniva nel 1894 a quella di Robbiano, rimanendovi per circa quattro anni e mezzo. A metà del 1898 volle farsi frate cappuccino...
Al Tenca, nel giugno 1898, seguì lo scrivente, che vi rimane tuttora». Siamo nel 1968; gli rimangono ancora otto anni di vita: morirà il 21

aprile 1976, a cento uno anni di età, dei quali 78 trascorsi a Robbiano.

Studente di sociologia

Il 20 febbraio 1878, dopo appena due giorni di conclave tenuto a Roma

in Vaticano, i cardinali elessero papa il cardinale Giocchino Pecci, sessantottenne, che prese il nome di Leone XIII; il suo pontificato durò fino al 1903. Durante questi 25 anni, papa Pecci pubblicò innumerevoli encicliche. Le prime due, emanate nel 1878, sono di contenuto sociale: la prima, Inscrutabili Dei Consilio, sopra i mali che affliggevano la società contemporanea, uscita il 21 aprile, mette in luce i pericoli derivanti dalla ostentazione dei lumi e del progresso, e deplora la decadenza dei grandi ideali non solo dell'ordine soprannaturale, ma anche di quello naturale, patrimonio inalienabile dell'umana natura.
Nella seconda, Quod apostolici munoris del 28 dicembre 1878, Leone XIII fa la disamina dei principi enunciati nella precedente, espone la dottrina del socialismo rivoluzionario, cui contrappone la dottrina cristiana sull'autorità sovrana, sull'unità, indissolubilità e santità del matrimonio. Si estende quindi a parlare della società civile e dei rapporti fra ricchi e poveri, fra padroni e operai.
Queste due encicliche possono ritenersi i prodromi della Rerum novarum, pubblicata il 15 maggio 1891, che fu subito considerata la «Magna Charta» della sociologia cristiana.
Con la presa di Roma (breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870) da parte dell'esercito italiano, si era accentuato il dissidio fra l'Italia ufficiale e la Chiesa; i cattolici, allontanati dalla vita pubblica si organizzarono in vari sodalizi tendenti a propugnare la libertà della Chiesa sotto tutti i suoi aspetti: nel campo religioso, sociale, naturale. A queste forze si pensò di dare un centro unitario: questo si ebbe nell'Opera dei congressi, il primo dei quali si tenne a Venezia dal
12 al 16 gennaio 1874; intorno ad essa gravitarono per circa mezzo secolo i Comitati diocesani ed i Comitati parrocchiali: uno di questi fu istituito anche a Robbiano, ma ebbe, come diremo vita breve.
Operante dapprima in campo religioso, l'Opera dei Congressi, si aprì più tardi al campo sociale; essa costituì il primo tentativo dei cattolici italiani di organizzare il lavoro in modo sistematico e in campo nazionale.
La Rerum novarum, perspicua e serrata nell'esposizione dei principi, rivendica la dignità ed i diritti dei lavoratori, e la proprietà privata, che trova la sua origine nel lavoro e nello sviluppo della persona e della famiglia; mentre la divisione delle classi assume un carattere di distribuzione di oneri e di responsabilità. Gli stati sono a loro volta chiamati a compiere i propri doveri verso le classi umili e povere.
L'azione sociale della Chiesa, dal giorno della pubblicazione di questa enciclica, procedette più sicura, concorde e manifesta.
Occorreva che gli studi sociali si diffondessero fra i cattolici, che il giovane clero non ignorasse i mali che soffriva la cristianità. Nel 1893 venne alla luce, per volere del Papa, la Rivista internazionale di scienze sociali, a dirigere la quale furono chiamati due uomini di valore: mons. Salvatore Talamo e il prof. Giuseppe Toniolo.
Rinaldo Beretta iniziò gli studi teologici nel Seminario di Corso Venezia in Milano nel mese di ottobre nel 1894; il 3 novembre successivo entrò in diocesi il nuovo arcivescovo, cardinal Andrea Carlo Ferrari, «un Vescovo giovane e dinamico, che dava l'impressione di voler scuotere la diocesi dal tepore in cui si trovava immersa causa l'immobilismo caratteristico degli ultimi anni dell'episcopato di mons. Luigi Nazari di Calabiana (1867-93), suo immediato predecessore».
L'ideale dei giovani preti di quegli anni erano la pastorale giovanile, che si esplicava negli oratori parrocchiali, e la pastorale del mondo del lavoro che si svolgeva nell'organizzazione del Movimento Cattolico.
A questa attività erano stati preparati dalle lezioni di sociologia cristiana, tenute da Giuseppe Toniolo, figura di primo piano nel movimento cattolico nazionale, nato a Treviso nel 1845 e dal 1883 professore ordinario di economia politica all'Università di Pisa; questi era coadiuvato da don Dalmazio Carlo Minoretti, professore nella Facoltà teologica del seminario in Corso Venezia, poi cardinale arcivescovo di Genova.
Erano lezioni saltuarie, tendenti a illuminare i futuri sacerdoti con i principi della sociologia cristiana nei confronti dello stato liberale, allora dominante, e del fenomeno socialista che nell'ultimo decennio del secolo aveva messo radici un po' dovunque in Italia, e soprattutto, dato il suo particolare sviluppo economico, in provincia di Milano.
A partire dall'anno scolastico 1897-98, l'ultimo di seminario per don Beretta, fu introdotto nel programma degli studi teologici il corso di sociologia cristiana, detto allora Economia Sociale: primo docente fu proprio Giuseppe Toniolo.
«Don Rinaldo Beretta dovette seguire con entusiasmo le lezioni del Toniolo. Infatti ad una laureanda dell'Università Cattolica, che nel 1975 lo intervistò sui cappellani del lavoro, lui centenario rispose con molta vivacità: «Ma eravamo tutti cappellani del lavoro».
Tra i suoi compagni di studi teologici, anche se appartenenti a corsi diversi, troviamo i futuri cappellani del lavoro don Luigi Parodi e don Carlo Grugni, che svolsero la loro attività soprattutto nella città di Milano; don Pietro Bosisio che operò in Monza e nella Brianza; don Giulio Rusconi, l'apostolo del Movimento Cattolico a Rho.
Suoi condiscepoli erano don Costante Mattavelli, ordinato sacerdote il 7 dicembre 1898 e destinato coadiutore dapprima a Cortenova Valsassina e, nel 1901, a Carate; di lui dirà don Beretta: «Era Costante nei fatti come nel nome; un tipo duro popolare. La sua casa era diventata il secondo municipio per gli operai ed i contadini di Carate Brianza».
L'altro compagno di Messa, ordinato lo stesso giorno di don Beretta, era don Edoardo Bonzi, coadiutore di Albiate, fondatore ed animatore della locale Lega Cattolica del Lavoro, che nel 1902 contava più di 400 soci.
Una triade legata da fraterna amicizia, che fece un mondo di bene fra i lavoratori cattolici della nostra contrada.
Un mese prima che don Rinaldo Beretta e i suoi compagni di corso salissero l'altare per la prima Messa, la quiete del Seminario fu turbata da fatti di sangue avvenuti in città. «La carestia — scrisse Franco Catalano dell'Università degli Studiosi di Milano — questa parola che sembrava dovesse essere ormai quasi sconosciuta, tornava invece ad essere una triste realtà. Una crisi fattasi particolarmente acuta fra il '97 e il '98, non riguardava solamente il pane: c'era un rincaro artificiale di parecchi altri generi (petrolio, sale, medicinali, cotone), di tutto ciò insomma che costituiva il consumo del povero e il cui prezzo era stato elevato dalla protezione statale. Poi, le imprese coloniali, le spese militari, quelle dei lavori pubblici improduttivi, i furti delle imprese edilizie, lo sperpero delle banche e degli impianti di industrie protette
avevano stremato il capitale disponibile nel paese e quindi ribassato il prezzo del lavoro.
Di fronte a questo stato di cose, soprattutto all'aumento del prezzo del grano e, di conseguenza, di quello del pane, con un Governo mosso da interessi di classe [quella padronale], si ebbe la rivolta popolare, che a Milano scoppiò il 6 maggio 1898 e durò fino al 10 successivo. Tutti i quartieri della città si videro coinvolti: si tornò alle barricate, a scontri fra i rivoltosi ed i soldati del generale Fiorenzo Bava Beccaris, che non esitò a far piazzare i cannoni e sparare contro la folla». «Il comunicato ufficiale parlò di 80 morti e 450 feriti, ma probabilmente tali cifre dovevano essere raddoppiate: era stata una grande tragedia che aveva visto i ceti popolari impegnati in una disperata lotta non contro lo straniero, come era stato nelle epiche resistenze del Risorgimento, ... ma contro le autorità civili e militari del proprio paese».
Gli esponenti dei partiti (radicale, Carlo Romussi; repubblicano, Luigi De Andreis; cattolico intransigente, don Davide Alber-tario; socialista: Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Emilio Caldara) ritenuti responsabili di aver provocato e organizzato l'insurrezione popolare furono arrestati e condannati dal Tribunale Militare a vari anni di detenzione13.
I provvedimenti adottati dallo stesso Bava Beccaris contro i cattolici a seguito dei fatti di Milano, furono drastici: L'Osservatore Cattolico, il battagliero quotidiano milanese diretto dall'Albertario, fu soppresso; il Comitato Diocesano dell'Opera dei Congressi venne sciolto, e furono aboliti i Comitati Parrocchiali.
Quello di Robbiano non fu risparmiato. Redigendo il Liber Chronicus parrocchiale, il nostro don Rinaldo si accontentò di scrivere: «Da notarsi come nel 1898, nelle cinque tristi giornate di Maggio, venne soppresso il Comitato Parrocchiale, associazione innocua di padri di famiglia, per ordine del Governo. Il ministro (Giuseppe) Zanardelli, timoroso dinnanzi ai socialisti insorti, volle mostrarsi forte coi cattolici che in quei fatti non c'entravano».
Il 4 Giugno 1898, don Rinaldo Beretta ricevette in Duomo la consacrazione sacerdotale, il giorno dopo cantò solennemente la
sua prima Messa nella chiesa parrocchiale di Barzanò e, nello stesso mese, raggiunse la parrocchia di Robbiano, sua prima e unica

destinazione.

La Società Mutua Bestiame San Sebastiano

Il paese, in Comune di Giussano, aveva una popolazione di poco

superiore ai mille abitanti (un paesello, dirà sovente don Beretta parlando o scrivendo di Robbiano) ed era economicamente abbastanza depresso. La presenza di un cannatolo di seta e di una filatura di cotone non era certo sufficiente a cambiargli il volto di paese eminentemente agricolo.
La popolazione, religiosa e ben organizzata in confraternite e associazioni, rimaneva, nella quasi totalità, povera e senza previdenza alcuna; la pellagra, causata dalla cattiva e insufficiente nutrizione, e la tubercolosi, favorita dalle condizioni ambientali sopraddescritte, erano abbastanza diffuse.
Di fronte a queste realtà, il giovane coadiutore non rimase con le mani in mano. In breve sintesi, nella storia di Robbiano, egli presentò il suo nuovo parroco con parole semplici, com'era nel suo stile: «Passato a migliore vita nel febbraio del 1899 il parroco Santambrogio, vi successe don Francesco Tanzi (1899-1938), nato a Carate Brianza nel 1860, ordinato sacerdote nel 1885, ... arrivò a Robbiano il 16 luglio 1899, festosamente accolto dalla popolazione.
Testimoni del suo zelo, oltre la viva cura nel mantenere e accrescere la pietà del suo popolo, sono il nuovo concerto di cinque campane in re maggiore della ditta Barigozzi (a. 1899), le nuove case coloniche del Beneficio e la nuova ampia sagrestia (a. 1902), ... l'allargamento del coro (a. 1910), ...la nuova casa del coadiutore (a. 1912), il rifacimento del vecchio organo della ditta Recalcati di Sovico (a. 1921) la mensa tutta in marmo dell'altare maggiore».
Nel Liber Chronicus don Rinaldo fu più esplicito; dopo l'accenno alle nuove campane, collocate sul campanile nel dicembre del 1899, «rifondendovi le preesistenti, delle quali due si erano rotte», egli aggiunse: «il 13 aprile 1900 venne posto, concorrendovi per metà della spesa il Municipio di Giussano, l'orologio da torre sul campanile, tanto desiderato dalla popolazione. Non era più sufficiente la meridiana fatta dipingere sul muro della chiesa, nella parte meridionale, dal parroco
[don Giuseppe] Pifferi il 26 giugno 1839».
L'accenno alle case coloniche apre uno spiraglio che permette la visione reale della situazione in cui si trovava la chiesa parrocchiale: «il 25 marzo 1902, vennero atterrate le vecchie case del Beneficio addossate alla chiesa ... I coloni furono collocati in un ampio nuovo fabbricato, con stalle e cascine, edificato sopra una pertica e più di terreno venduto dal Sig. Francesco Villa di Pietro, tintore di Agliate.
Fu questa un'opera degna di lode sotto ogni riguardo per il curato, perché oltre all'aver procurato ai coloni una decente abitazione, liberò la chiesa da brutte e cadenti catapecchie, le quali mandavano non di rado il puzzo di stalla fino all'altare.
Certo che sarebbe stato più conveniente comperare più terreno, anche a costo di spendere qualcosa di più, ed edificare il nuovo fabbricato colonico nella parte nord della piazza, ancora tutta aperta alla campagna; in tal modo la piazza sarebbe stata chiusa almeno in parte, dando l'illusione a chi viene da San Luigi (strada provinciale) di una piazza circondata da case: il paesello avrebbe avuto una migliore fisionomia; oltre il vantaggio per il curato di avere vicino i propri coloni per qualsiasi evenienza».
Dopo la presentazione del parroco con il quale avrebbe collaborato per un quarantennio, don Rinaldo scrisse di se: «Mentre questi [don Francesco Tanzi] era impegnato in una migliore sistemazione della chiesa parrocchiale, il coadiutore, d'accordo col parroco, intraprendeva la fondazione e l'organizzazione di un oratorio per i ragazzi che poi diresse per molti anni, e al quale nel 1920 vi aggiunse la sezione robbianese dei Giovani Cattolici Italiani.
Nello stesso tempo attendeva a trovare il modo di sollevare le depresse condizioni della popolazione, pressochè tutta di poveri contadini dispersi in vecchi cascinali; i padroni dimoravano altrove ...
Pertanto, nel 1904 [20 gennaio, festa di San Sebastiano] vi eresse la Società di Mutuo Soccorso per il bestiame bovino.
Quando ad un contadino veniva a mancare la mucca, che era allora un sostegno della famiglia - afferma don Beretta - era una faccenda seria trovare i soldi per rimpiazzarla».
Le Mutue Soccorso Bestiame erano diffuse in tutti i paesi di economia agricola e, per lo più, erano dedicate a San Sebastiano, soldato martire, cresciuto a Milano, morto per la fede sotto un saettar di frecce; e poiché queste divennero simbolo di peste, il santo martire fu assunto come protettore contro i mali contagiosi; prerogativa che nel secolo XIV condivise con San Rocco di Montpellier.

La Mutua Bestiame fu una vera provvidenza. «Quando ad un contadino veniva a mancare una mucca - ebbe a dire don Rinaldo - interveniva l'associazione che ritirava la bestia morta e la vendeva. Al ricavato della vendita si aggiungevano le quote (per lo più minime) che gli associati versavano, e questo era sufficiente per raccogliere una somma adeguata per poter acquistare un'altra mucca, che veniva data al proprietario».
Fu benefica l'iscrizione a questa Mutua per tre famiglie di San Giovanni in Baraggia, alle quali un fulmine, caduto il 24 luglio 1906, uccise tre mucche.
«Gli iscritti a questa prima forma di associazione previdenziale furono moltissimi, un migliaio all'incirca, tutti cioè i contadini del paese».
«L'indirizzo della Società è cristiano - si legge nel Liber Chronicus - perché oltre il bene materiale, essa ha per scopo di curare anche il bene morale dei soci. Assistente dei medesimi è il coadiutore che ne

promosse l'istituzione».

Società di Mutuo Soccorso per Agricoltori ed Operai

La Mutua San Sebastiano rappresenta il primo passo nel campo sociale

del giovane coadiutore di Robbiano, che nel 1906 lascia la parrocchia per poco più di un mese, dal 16 settembre al 24 ottobre, per partecipare al terzo Pellegrinaggio Nazionale in Terra Santa guidato da mons. Giacomo Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, una diocesi particolarmente sensibile all'impegno sociale. Durante il viaggio ebbe modo di conoscere a fondo il giovane segretario del vescovo, don Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII.
Ritornato a Robbiano, d'accordo con il parroco Tanzi, don Rinaldo prende contatti con don Ernesto Acquati curato di Paina e
don Antonio Consonni parroco di Giussano, che già avevano istituito nelle loro cure la Società di Mutuo Soccorso per gli Agricoltori ed Operai, allo scopo di fondarla anche a Robbiano e formare fra le tre parrocchie, tutte appartenenti allo stesso Comune, un unico consorzio, diviso in tre sezioni.
La notizia data dal Liber Chronicus è laconica: «gennaio 1907 - I parroci di Giussano, Paina e Robbiano (le tre parrocchie nelle quali è diviso il Comune di Giussano) fondano una società Federale di Mutuo Soccorso fra operai e contadini, dividendola in tre sezioni parrocchiali, e ciò allo scopo di opporsi al dilagare di società di spirito socialista o
anticattolico.
Nella sezione di Robbiano si iscrissero subito un centinaio di soci, e vi fa da assistente spirituale il coadiutore che la organizzò».
Durante il mese di luglio successivo, «nella ricorrenza della festa patronale, venne benedetta la bandiera della sezione robbianese della Società di Mutuo Soccorso, con l'intervento di bandiere delle società cattoliche di Carate, Giussano, Paina, ecc. Dall'oratorio i soci, in bell'ordine sfilarono fino alla chiesa.
La bandiera in seta dai tre colori nazionali, sormontata dalla croce, è lavoro della ditta Savelli di Milano. Prima della Messa solenne, il prevosto di Mariano la benedisse ritualmente, rivolgendo quindi opportune parole ai soci e alla popolazione tutta. Madrina della bandiera fu la Sig.ra Razunz».
Lo scopo precipuo della Società è specificato nell'art. 2 dello Statuto della Società di Mutuo Soccorso per agricoltori ed operai in Giussano, l'unico giunto a noi, nel quale si legge: «L'associazione ha per scopo il mutuo soccorso, l'istruzione, l'eccitamento al lavoro e tutto ciò che tende a migliorare la condizione morale e materiale dei soci, provvedendo ai medesimi con sussidi in caso di malattia ed impotenza al lavoro».
Nel medesimo anno, 1907, venne fondata fra le tre predette parrocchie una Società Federale Femminile di Mutuo Soccorso. Circa l'attività di questo organismo non si hanno notizie dettagliate. «Dallo Statuto sappiamo che la Società ammette tra le iscritte bambine fin dai 10 anni. Per quanto riguarda la sezione di Giussano, si sa che una delle iniziative promosse dalla Società di Mutuo Soccorso Femminile consisteva nell'assistenza delle socie ammalate, che veniva espletata da un gruppo di infermiere della Mutuo Soccorso designate di volta in volta dalla presidente».
La Mutuo Soccorso durò a lungo: fino al 1931. In quell'anno, con decreto del prefetto di Milano, del 30 maggio, considerato che «le associazioni cattoliche svolgono attività contraria all'ordine Nazionale dello Stato», esse vennero sciolte: a Robbiano le prime ad essere eliminate furono l'Unione Giovani Cattolici e il Circolo della Gioventù Cattolica Femminile Italiana; poi venne la volta della Società a Mutuo Soccorso.
Le prime due, dopo la forte reazione di Papa Pio XI, furono ripristinate ed ebbero il loro periodo glorioso durante il ventennio fascista (1925-45); la Mutua si autodistrusse.
La fine della Mutua Soccorso fu registrata nel Liber Chronicus dal nostro don Rinaldo con queste parole: « ... Il fascismo, sistema politico e sociale totalitario, che annientò ogni altro partito, se ne impossessò; ma essa prima che venisse assorbita nel nuovo ordine di cose, si

sciolse».

Scuola Serale

Il 1904 è l'anno dell'abolizione del non expedit, decretato dal pontefice

Pio IX nel 1874, con il quale si proibì ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche. Nel mese di ottobre del 1905, «nel Collegio Politico di Desio, di cui fa parte Robbiano, per la prima volta dopo il 1870, si presentò ufficialmente un candidato cattolico, l'avv. Angelo Mauri di Monza, direttore del giornale Il Momento di Torino. La lotta fu combattuta contro il conservatore liberale dott. Innocente Arnaboldi, notaio di Desio, sostenuto dai signori, e il sig. Cesare Silva di Seregno sostenuto dal partito radicale e massone. Fu eletto deputato del Parlamento quest'ultimo, specialmente per aver fatto correre molto denaro e vino».
Don Beretta, che vergò queste notizie, le fece seguire dal seguente commento: «I cattolici non devono spaventarsi delle sconfitte: il cammino è duro. Abbiamo alle nostre spalle più di 35 anni di inazione e di pregiudizi da combattere. Il clero si volle appartare da tutto ciò che era movimento politico nazionale e, per voler conservare troppo, rischiava di perdere tutto. Si accorse troppo tardi (meglio tardi che mai!) che il mondo, bene o male andava avanti anche senza di lui e contro di lui».
La legge elettorale allora vigente escludeva dal diritto di voto i cittadini analfabeti. Per ovviare a questo inconveniente don Rinaldo, nel mese di dicembre del 1907, «tenne la scuola serale onde preparare i soci delle nostre associazioni cattoliche all'esame davanti al pretore di Carate per essere iscritti nelle liste elettorali politiche e amministrative».
Fu un'iniziativa che ebbe ottimo risultato: «Una cinquantina di persone frequentarono la scuola che superò - come ricorda don Beretta - lo scopo per cui era sorta originariamente, per diventare anche un ambito di apprendimento dei fatti principali riguardanti la vita politica del paese: i partiti che c'erano, le loro idee, i loro programmi».
L'esame davanti al pretore ebbe esito positivo per tutti i candidati, i quali ottennero il certificato elettorale.

La scuola serale continuò per qualche anno, acconsentendo a molti dei

nostri contadini di esercitare il diritto di voto.

La strada di San Giovanni in Baraggia

Don Rinaldo Beretta seppe prendere decisioni anche contro la locale

Amministrazione Comunale, incentrata a Giussano, in favore dei terrazzani della frazione di Robbiano.
«Gennaio 1909 - si legge nel Liber Chronicus. Il 2 di questo mese, senza tante pratiche burocratiche, i terrieri della Cascina San Giovanni in Baraggia si diedero ad allargare ed a sistemare la strada che da Robbiano conduce alla soprannominata cascina. Il lavoro, energicamente condotto, fu ultimato in una settimana».
Qualche proprietario confinante tentò di fare delle opposizioni, ma di fronte alla tenacia di quei terrieri dovette cedere.
In tal modo si potè avere finalmente una bella strada larga di 4 metri e piantonata coi relativi termini in vivo. Il Comune somministrò poi la ghiaia, promettendo la manutenzione anche per gli anni successivi. Ma se non verrà messa nel ruolo delle strade comunali (ora non è che una strada vicinale), andrà ancora in deperimento, perché si sa cosa valgono le semplici promesse quando si tratta di spendere.
Era già da anni che si domandava al Comune di Giussano di riparare la strada, ridotta in uno stato miserando.
Nel 1905 il sindaco scrisse una lettera d'ufficio al signor Pietro Luccardi nostro consigliere comunale, per dirgli che il Comune come tale non poteva rimediarvi, ma solo concorrervi qualora si operasse per iniziativa privata. Ecco il testo del documento.
«Municipio di Giussano n° 943. 20 Agosto 1905.
Stimatissimo Signor Pietro Luccardi - Robbiano.
La ringrazio delle informazioni datemi circa il conto del ramiere.
Quanto al restante della pregiata sua lettera, ella sa come io prenda a cuore i bisogni dell'ottima popolazione di Robbiano.
Ho riscontrato appunto la necessità di due provvedimenti: nuove scuole e strada di San Giovanni.
Il primo dipende esclusivamente dal Comune e mi assumo l'impegno di provvedervi compatibilmente con le altre esigenze in corso.
Nel secondo invece, come credevo aver già dimostrato, il Comune, con tutta la sua buona volontà, non può ne potrà mai fare nulla, fuorchè pagare le duemila e cinquecento lire italiane (L. 2.500) promesse, voltachè gli interessati abbiano eseguito la strada progettata.
Trattasi di strada privata che la legge vieta di far diventare comunale, tanto più che San Giovanni non faceva parte dell'ex-Comune di Robbiano ma di quello di Giussano, e che si è fatto lo sproposito di costruire e rendere obbligatoria la strada di San Giovanni - Birone - Giussano.
Come ho già detto, la cosa deve farsi per iniziativa privata e il Comune non può che concorrervi. Mi sono informato ancora a Milano e ho studiato la partita convincendomi che per procedere in via legale si andrebbe alle calende greche e si spenderebbe il doppio per lo meno.
Sempre ai suoi graditi comandi, con tutta osservanza mi protesto
Suo devotissimo Adolfo Corbetta - Sindaco».
Se questa missiva voleva essere un capolavoro di diplomazia, trovò in don Beretta un demolitore incomparabile con il commento che le fece seguire:
«La lettera merita qualche osservazione. Lasciamo andare il fabbricato nuovo in luogo per le scuole, trovato necessario fin d'allora ma che fino a quest'oggi [quattro anni dopo] non è ancora fatto; ma per la strada di San Giovanni si deve osservare come la legge non vieta ai Comuni di aprire nuove strade comunali per gli accresciuti bisogni delle rispettive popolazioni, così non proibisce affatto di far diventare comunale una strada qualora risulti una necessità. Ed è veramente necessario che
quella strada diventi comunale, e quindi regolarmente mantenuta in buono stato, per l'aumentata popolazione di quel cascinale e per le nuove case fabbricate lungo la strada, con gente che deve venire a Robbiano per le funzioni di chiesa, per la scuola, per l'asilo e per tanti altri bisogni.
E' evidente che le strade si devono costruire per comodità della popolazione, e non per contentare i capricci di qualche privilegiato che siede in Municipio, come si è fatto per la strada San Giovanni - Birone - Giussano. E d'altra parte non è detto che fatto una volta lo sbaglio non si possa poi rimediarvi.
Se invece della poveraglia avessero dovuto passarvi i ricchi o i nostri reggitori comunali, tutte le difficoltà sarebbero svanite e la strada sarebbe già stata messa in buon ordine chissà da quanto tempo. La ragione vera, se non erro, era che il Comune di Giussano non voleva far l'utile anche a quello di Verano, che si era opposto a concorrervi, giacchè la strada per gran tratto è un divisorio fra i due Comuni».
Comunque, visto che non si riusciva a nulla di pratico, tanto più che alcuni proprietari facevano anche egoisticamente delle opposizioni, il coadiutore sottomano indusse quei terrieri a fare quello che hanno fatto.
Però invece delle lire 2.500 il Comune si accontentò di somministrare un

po' di ghiaia e di porre i termini di sasso.

La Cooperativa di Consumo

Nel primo decennio del nostro secolo procurarsi generi alimentari nei

piccoli paesi non era un'impresa da pigliare a gobbo. A Robbiano le cose stavano in questo modo: «Di esercenti non ce n'erano allora - scrisse don Beretta - che due osterie, delle quali una con licenza di vendere sale e tabacco, e un prestinaio che col pane giallo (ordinario alimento, con la polenta e la minestra di riso con legumi) sfornava giornalmente una cotta di pane bianco che finiva smaltita in parte fuori parrocchia».
Parte dei commestibili più in uso veniva dalla campagna, ma per altri prodotti, come zucchero, caffè, riso, carni e salumi, e quanto occorreva per le necessità quotidiane della famiglia bisognava spingersi fino a Giussano.
Nei dintorni, come a Carate, Verano, Albiate, Seregno, durante gli anni 1901-1902, si erano fondate Cooperative di Consumo, che fornivano a prezzi onesti ogni sorta di generi alimentari e altro.

A Robbiano nel 1907 fu costituito un Cìrcolo di Ritrovo in un vecchio edificio dietro la chiesa. In quest'ambiente un gruppo di uomini, consigliati da don Rinaldo Beretta, dopo lunghe discussioni, decisero di dar vita a una Cooperativa dì Consumo.
La sua genesi fu descritta dallo stesso don Rinaldo nel Liber Chronicus: «Il giorno 10 giugno 1909 fu rogato l'atto costitutivo di una Società Anonima denominata Cooperativa dì Consumo fra operai ed agricoltori di Robbiano. Rogò l'atto il notaio Antonio Gallavresi residente in Monza, e registrato nella stessa città il 14 ottobre.
La durata della cooperativa è stabilita fino al 31 dicembre 1959.
La nuova istituzione fu annessa alle opere cattoliche sociali diocesane. Assistente spirituale fu eletto il coadiutore, per cui merito sorse quest'altra opera di bene materiale e spirituale per i cari Robbianesi».
Costituita la Cooperativa si dovette pensare alla sede. Nel mese di febbraio 1910, «comperatisi il fondo dal capomastro Angelo Boffi di Giussano, la Cooperativa incominciò la costruzione di un fabbricato nuovo adatto all'esercizio».
Appena tre mesi dopo tutto era pronto. «Nel mese di maggio 1910, ebbe luogo l'inaugurazione del nuovo edificio della Cooperativa con intervento dell'onorevole Lodovico Taverna deputato del Collegio di Desio, di Panizzardi prefetto di Milano, e del Sindaco del Comune cav. Adolfo Corbetta».
La Cooperativa svolse il suo compito tranquillamente per un ventennio; ma con l'avvento del fascismo essa ebbe vita tormentata.
Dopo le elezioni politiche del 15 maggio 1921, la situazione precipitò: gli scioperi agrari, la marcia su Roma (ottobre 1922), turbano e, in qualche regione (Emilia Romagna, Toscana), sconvolgono il Paese.
Nel gennaio dell'anno appresso venne fondata a Giussano una sezione del Partito Nazionale Fascista: nessuno dei Robbianesi diede il proprio nome.
Nel 1924, alla vigilia delle elezioni politiche s'intensificarono le violenze fasciste. Il 6 aprile si svolsero le elezioni con una nuova legge (Acerbo) che permise ai fascisti la maggioranza assoluta in Parlamento. Robbiano votò compatto per il Partito Popolare (l'odierna Democrazia Cristiana), ad eccezione di solo otto voti. E come a Robbiano in tutta la Brianza i
fascisti uscirono sconfitti.
Il loro livore si manifestò in una serie di rappresaglie «con saccheggi, ferimenti e morti».
Continua don Beretta: «Colpite in modo particolare furono le istituzioni economiche-sociali del Monzese e della Brianza, in maggioranza cattoliche, poiché quelle socialiste erano già state in precedenza distrutte in buona parte.
A Monza, per la seconda volta, danneggiarono per migliaia e migliaia di lire la tipografia sociale dove si stampa Il Cittadino, giornale cattolico della città; la medesima sorte subirono altri circoli e Cooperative dello stesso luogo, compresa la socialista Camera del Lavoro.
Circoli familiari, Cooperative, Case del Popolo subirono devastazione e saccheggio ...A Giussano [i fascisti] arrivarono improvvisamente in pieno giorno su di un camion e, smontati, si diedero senz'altro a picchiare botte con nerbi di bue all'impazzata su quanti incontravano».
Queste spedizioni punitive erano compiute da squadristi provenienti da altri paesi, edotti da fascisti locali.
«La Cooperativa di Robbiano, fra quelle dei nostri dintorni, fu la prima ad essere colpita. La notte del giorno 7, alle ore 23,40, quando ormai tutti si erano ritirati al riposo e nel paesello dominava piena quiete, un forte gruppo di fascisti armati (oltre una cinquantina) giunsero silenziosi e si fermarono davanti alla Cooperativa.
Rotta la lampada elettrica esterna onde evitare di essere riconosciuti, una voce chiamò il dispensiere. Questi scese dal letto e si affacciò alla finestra, ma subito dovette ritirarsi preso da spavento. Rimbombarono tosto colpi di moschetto e di rivoltella, mentre una parte degli assalitori con una grossa mazza fracassarono il cancelletto del cortile donde, sfondato l'uscio di legno, penetrarono all'interno della Cooperativa.
Gli altri rimasti fuori a fare la guardia continuavano a sparare colpi per intimidire e tener lontano quei del paese.
Infatti, coloro che abitavano la casa prospettante la Cooperativa, nell'udire tanto indiavolamento, vennero alle finestre per vedere di che si trattava, ma dovettero subito ritirarsi sotto la minaccia d'essere colpiti; e alle donne, che piene di spavento, gridavano e piangevano, una voce levatasi da quella masnada gridò: è inutile piangere; questo lo avete meritato con il vostro voto.
I fascisti entrati in negozio fracassarono i mobili, le bilance, tutte le damigiane contenenti marsala, olio, ecc., tutte le bottiglie degli sciroppi, le scatole dei biscotti, caramelle, caffè, ecc., un barile quasi pieno di aceto; rovesciarono sul pavimento lardo, burro, i sacchi di riso, le casse di pasta e di altri commestibili, producendo un'orribile miscela
impregnata di petrolio, olio, aceto e liquori. Asportarono invece gran parte del salame crudo e cotto.
Dalla bottega passarono in cucina fracassandovi le stoviglie, il rame, i mobili, ecc.; rubarono le posate che erano nuove.
Entrati nel salone infransero tutto quanto serviva per la vendita del vino: misure, bicchieri, calici; spaccarono un barile pieno di marsala ed un altro pieno di nebbiolo, allagandone il pavimento; vi asportarono invece tutto il salame crudo che stava appeso per la stagionatura.
Tutti questi danni e rubamenti furono compiuti in una quindicina di minuti o poco più, quindi si portarono a Verano per fare altrettanto verso quella Cooperativa Cattolica».
Questa minuta descrizione rende evidente la conformazione ambientale della nostra Cooperativa: negozio di generi alimentari, un salone per la mescita del vino, la cucina del dispensiere, che aveva nel piano superiore le camere da letto.
I danni causati da quei vandali-ladri furono registrati dopo la cronaca appena riferita: « ... merce rubata Lire 6.765; merce distrutta completamente L. 6.350; merce orribilmente devastata, della quale ben poco, per non dire nulla, commerciabile L. 10.389»; il tutto sommante a lire 23.513.
Una cifra che dice ben poco a chi non visse in quel decennio, ma che costituì un danno economicamente enorme per la nostra Cooperativa.
Osserva ancora don Beretta: «E ciò che rende ancor peggiore la cosa, si è che queste azioni punitive rimasero impunite negli autori, e nessun risarcimento di danni ebbero i danneggiati».
Oltre il danno anche le beffe. «Dopo aver provocato i sopraddetti disastri i fascisti di Monza e del Circondario ebbero la sfrontatezza di diffondere fra le nostre popolazioni un foglietto volante che riporto testualmente ...».
Non vale la pena di riferirlo; si tratta di uno scritto pieno di livore e d'improperi verso «i comunisti bianchi», coloro che votarono per il Partito Popolare, che in tutto il circondario raggiunsero il 65 % dei voti; lasciando alla Lista Nazionale Fascista «l'obbrobioso risultato del 16%».
Seguono minacce verso «i sessantamila bastardi... ed ai loro perfidi consiglieri» che avevano osato negare il voto ai fascisti.
Noi oggi non ci meravigliamo di questi atteggiamenti propri dei regimi totalitari: qualche tempo prima dei misfatti esposti, i fascisti del Ferrarese eliminarono a randellate l'arciprete di Argenta, don Minzoni, eroico e superdecorato cappellano della prima guerra mondiale; e il 17 giugno di quel 1924, uccisero il deputato socialista onorevole Matteotti, nativo del Polesine.
Entrambi avevano osato alzare la voce contro le nefandezze fasciste: dopo processi-farse, mandanti ed assassini furono praticamente assolti.
La Cooperativa lentamente riprese la sua funzione socialmente benefica, che continuò indisturbata fino al 1931. In quell'anno, oltre al colpo mancino sferrato contro l'Azione Cattolica, il fascismo annientò, con la Società di Mutuo Soccorso anche la nostra Cooperativa.
«Inquadrata nelle opere fasciste, ricostruita dopo l'assalto del 7 aprile 1924 con l'aiuto di tutta la popolazione, per contenere le ulteriori pressioni che i fascisti facevano nei confronti della Cooperativa, si dovettero ammettere nel consiglio di amministrazione anche qualcuno di loro»; ma ciò non bastò a salvarla. In quel 1931 essa perse la sua autonomia e la sua fisionomia cattolica, che l'aveva qualificata fin dalla nascita: «Rimase la Cooperativa - scrisse don Rinaldo - ma inquadrata nelle opere economiche fasciste».
Riebbe la sua autonomia dopo il secondo conflitto mondiale (1940-45), che eliminò il partito totalitario fascista e diede ampio respiro agli altri partiti. Lo Statuto Cooperative dì Consumo tra operai ed agricoltori di Robbiano, 1949, all'articolo quinto del titolo primo, esprime la natura morale-politica della rinata istituzione: «La Cooperativa, che si ispira ai
principi della scuola cristiana, aderisce alla organizzazione che espressamente ispira tali principi».
Cooperativa di chiaro stampo cattolico, ma aperta a tutti i Robbianesi, purché non aderenti «ad associazioni anticlericali ed antisociali».
Don Rinaldo Beretta che nel 1938, alla morte di don Francesco Tanzi, dopo quarant'anni di coadiutorato, aveva avuto dal card. Alfredo Ildefonso Schuster la nomina di parroco di Robbiano, e nel decennio successivo si era visto premiare con alcuni riconoscimenti civili la sua fatica di storico, poteva ritenersi soddisfatto: il fascismo aveva eliminato alcune istituzioni da lui create ed amorosamente seguite, ma

la sua Cooperativa, scampata agli eventi, viveva ancora.

Altre attività sociali

«La terribile guerra mondiale (1914-1918) - come scrisse don Beretta -

segnò per il popolo anni di sofferenze e di dolori.
Chiamati alle armi tutti gli uomini validi dai 18 ai 42 anni, molte famiglie rimasero senza uomini in casa. La coltura dei campi la si continuò alla meglio che si poté: tutto quanto era necessario al vivere andò man mano crescendo di costo, specialmente dopo la nostra rotta di Caporetto [ottobre 1917] ... Si viveva secondo il razionamento imposto per legge, perché tutto veniva requisito dal Governo. Naturalmente il regime di tesseramento e di calmiere fioriva il contrabbando. Il granoturco, ad esempio, fu venduto nei nostri paesi fino a 120 lire il quintale ai montanari della Valsassina, che scendevano a comperarne di nascosto dagli agenti del Governo, essendo troppo scarsa la razione di
cibarie loro assegnata. E così si dica degli altri generi in proporzione.
Le famiglie poi erano continuamente in ansia per l'incerta sorte dei loro cari.
In parrocchia si facevano continue preghiere, oltre a quelle comandate dal Santo Padre Benedetto XV e dall'Arcivescovo [card. Andrea Carlo Ferrari], per implorare da Dio la cessazione di così inumane flagello ...
Si cercò di aiutare anche materialmente le famiglie più bisognose, sovvenendole con denaro e aiutandole nei lavori più urgenti dei campi. A tale scopo fin dal giugno 1915 si costituì nel Comune di Giussano un Comitato Centrale e tre Sottocomitati per le tre Parrocchie del Comune».
L'annuncio fu dato alla popolazione con un manifesto, redatto a Giussano il 20 giugno 1915, nel quale si legge:
«Mentre sui campi di battaglia i nostri soldati con sacrificio del sangue affrettano il nuovo destino della Patria, sorge in noi il dovere di far opera di fraterna solidarietà coll'assistenza morale e materiale alle famiglie bisognose di tutti i militari che si trovano sotto le armi.
A tale intento, per iniziativa del Sindaco, è sorto in Giussano un Comitato Centrale di Soccorso, il quale provvederà ad ottenere tutti i sussidi possibili dagli Enti Pubblici ed alla distribuzione diretta alle famiglie.
Si è poi costituito un Sottocomitato per ogni singola Parrocchia (Giussano, Paina e Robbiano), allo scopo di promuovere sottoscrizioni ed ottenere possibili offerte nel modo che ciascun Sottocomitato stimerà più del caso».
Dopo un breve accenno alle modalità da seguire per la raccolta e distribuzione dei fondi, il Comitato Centrale fa appello alla «Popolazione Giussanese» e attende «da Essa con larghezza l'obolo fraterno, destinato a lenire i danni e le sofferenze delle nostre famiglie povere, che sacrificano i loro cari per una Italia più grande e più forte».
Presidente del Comitato Centrale era Ambrogio Viganò, Cassiere Ercole Varenna, Segretario Giuseppe Leoni.
Il Sottocomitato di Robbiano era così costituito: «Parroco don Francesco Tanzi, presidente, Beretta don Rinaldo, Brambilla Luigi, Colombo Natale, Elli Enrico, Elli Santino, Rigamonti Domenico».
«Nella nostra Parrocchia - afferma don Rinaldo - si raccolsero in tutto circa L. 3.000, le quali furono distribuite dal Parroco dietro parere dei membri del Sottocomitato, i quali di quando in quando venivano raccolti a Consiglio dal Curato.
Si noti che le oblazioni pervennero, per la maggior parte, da enti pubblici, da persone facoltose e dal sindaco Ambrogio Viganò; il paese, data la sua piccolezza e la povertà degli abitanti, poteva dare ben poco. Non mancarono inoltre sussidi da parte del Governo alle famiglie dei richiamati alle armi».
Ma la collaborazione di don Rinaldo Beretta nelle predette contingenze belliche fu assai più ampia. Racconta egli stesso con la semplicità di sempre: «Senonchè la guerra portò molto altro lavoro, sostenuto dal Curato e dal Coadiutore, col far si che nessun campo rimanesse incolto o perisse il grano per mancanza di braccia nel tempo della mietitura; coll'attendere al disbrigo di pratiche burocratiche per gli aventi diritto a soccorsi governativi; con il tenere corrispondenza coi soldati
della Parrocchia per animarli a compiere il proprio dovere dimostrandosi sempre buoni cristiani e bravi soldati, e con i prigionieri per consolarli nella loro prigionia in terre lontane; con lo spedire agli stessi denaro, viveri, indumenti, ed altre cose che era loro concesso mandare.
Lavoro assorbente e gratuito ma che si faceva volentieri perché, una volta dichiarata la guerra, era dovere d'ognuno l'adoperarsi a sostenerla, concorrendo a seconda delle proprie condizioni e attitudini».
Durante il decennio che seguì il primo conflitto mondiale, don Beretta ebbe due incarichi civili riguardanti la Scuola e l'Ospedale. «Il Consiglio Comunale, nella seduta del 30 ottobre 1923, aveva nominato il sac. Rinaldo Beretta alla carica di membro della Commissione di Vigilanza scolastica. La Regia Prefettura rese esecutiva tale deliberazione con visto del 19 novembre».
Trascorso un lustro, «con atto del Municipio di Giussano, in data 12 gennaio 1928, venne partecipata al sac. Rinaldo Beretta, coadiutore di Robbiano, la nomina di membro del Consiglio di Amministrazione dell'Opera Pia Ospedale Carlo Borella di Giussano; nomina fatta dal podestà [...] il 22 novembre 1927 e resa quindi effettiva dall'autorità prefettizia di Milano.
Noto questo — conclude l'interessato — perché, da quando fu eretto l'Ospedale di Giussano, è il primo sacerdote delle frazioni che entra come Consigliere d'Amministrazione in luogo del Parroco di Giussano».
L'ultimo gesto di valore sociale del nostro don Rinaldo è commovente, non tanto per la realtà che esprime quanto per l'età veneranda di chi l'ha compiuto.
«Nel 1950, si legge nel Liber Chronicus - in Parrocchia si ebbe l'apertura del nuovo fabbricato scolastico comunale benedetto dal Parroco, e del nuovo Cimitero benedetto dal Vicario foraneo [prevosto] di Carate. Due opere veramente necessarie per Robbiano, per le quali il Parroco si era molto interessato».
A quell'epoca il curato del nostro paese ha 75 anni di età e da tempo pensa di avviare la soluzione di un complesso problema parrocchiale che egli giustamente ritiene importante. Sotto l'anno 1951, scrive nel Liber Chronicus: «E' da ricordarsi la compera del terreno, fatta dal Parroco, sul quale costruire la nuova Chiesa parrocchiale, ormai necessaria per l'aumento della popolazione in questi ultimi anni, e di un
Oratorio Maschile conforme alle moderne esigenze.
Il terreno acquistato e donato alla Chiesa è in posizione abbastanza centrale: unico appezzamento di una certa ampiezza ancora disponibile...
Dopo quasi due anni di laboriose e dispendiose pratiche presso le superiori autorità ecclesiastiche e civili, l'operazione fu condotta in porto.
In compenso del terreno ceduto [al venditore del predetto appezzamento], il Parroco comperò a sue spese dieci pertiche di terreno coltivo in Robbiano e le cedette al Beneficio».
Si trattava di «poco meno di una ventina di pertiche milanesi di terreno, di cui un terzo per la nuova Chiesa e Casa parrocchiale, e due terzi per l'Oratorio o Casa del Giovane».
Il pezzo di cronaca si conclude con le seguenti parole: «Lascio al mio successore, poiché io sono ormai vecchio, la fatica e la soddisfazione» di realizzare i tre edifici nell'ordine indicato.
Questo parroco straordinario nel 1960, a 85 anni di età, rinunciò alla cura di Robbiano, lasciandola a don Mario Meroni, il quale, sono ancora parole di don Rinaldo, «condusse a termine la grandiosa costruzione del nuovo Oratorio Maschile, iniziata nel 1959, della quale Sua Eccellenza Mons. Sergio Pignedoli aveva benedetto la prima pietra con inclusa a

ricordo un'iscrizione latina su pergamena, dettata da don Beretta».

Muor giovane colui ch'al cielo è caro dice il poeta; ma non è dello

stesso parere lo Spirito Santo che promette vita lunga a chi onora i

genitori.
Don Rinaldo Beretta godette di questa benedizione, partecipata ai Robbianesi nella gioia di venerare la canizie di un sacerdote che, in 78 anni di ministero nella stessa parrocchia (caso unico, credo, nella storia dell'arcidiocesi ambrosiana), ha beneficato «il paesello» e l'ha nobilitato con il prestigio della sua eccezionale personalità."

 

Eugenio Cazzani