home

Opera omnia

LIBRI

Porto d'Adda

Consuetudini... Valtravaglia

Robbiano Brianza

Misura... di Vimercate

Cornate d'Adda

Appunti storici

Il congresso di Pontida...

Barzanò

Agliate e la sua basilica

Pagine di storia briantina

CORNATE D'ADDA. Note di storia
(Carate Brianza, 1953)

LE ORIGINI DELLA ROCCHETTA di Santa Maria presso Porto d’Adda

La Rocchetta, situata ai confini della pieve di Pontirolo con quelli della Pieve di Brivio, per cui erano facili delle confusioni, specialmente durante l’elaborazione dei progetti e i lavori del Naviglio di Paderno, fu dopo S. Carlo pomo di discordia per non pochi anni tra i confinanti Parroci di Paderno e i frati Agostiniani di S. Marco in Milano, pretendendo gli uni di esercitarvi diritti parrocchiali, negandolo agli altri. Se non che, mentre oggi ecclesiasticamente fa parte della parrocchia di Porto, nel civile fin dal 1760. col nuovo catasto di Maria Teresa, era stata definitivamente annessa al comune di Paderno, per cui oggi fa parte della provincia di Como.
Delle vicende di Porto e del fortilizio visconteo della Rocchetta mi sono già occupato in altre occasioni. (1) Qui si vuole soltanto indagare perché quest’altura ebbe il nome di Rocchetta di Santa Maria.

Scrive il Dozio: “Di questa Rocchetta alla quale era prossima un castelletto ricordato distintamente in più scritture, vedonsi ancora sul vertice gli avanzi. Ed io ho per credibile che qualche signore longobardo o franco, in questo sito deserto ma forte alle difese, facesse rizzar quel castello ne’ tempi intorno al mille, e pel culto religioso facesse erigere l’oratorio dedicato all’Annunciata, lui cui festa è una pratica antichissima, come appare dai più antichissimi codici Liturgici” (2).

Le scritture nelle quali egli dice di aver trovato distintamente ricordo di un castelletto, probabilmente non possono essere altre che quelle da lui pubblicate nel Cartolario Briantino. Se si fosse trattato di altre carte medioevali le avrebbe certamente citate o riportate nel Cartolario stesso. Si potrebbe fors’anche pensare che il Dozio, avendo trovato accenni di un forte o rocchetta in carte del secolo XV o XVI, ritenesse trattarsi di un castello eretto intorno al mille, basandosi, a quanto sembra, sull’incerto accenno di una carta del 998.
Le carte o scritture che egli ricorda, sono: una del 15 gennaio 998, e un’altra del 21 novembre 1001; alle quali si può aggiungerne una terza del 7 maggio 1014 che ha attinenza con le due precedenti carte pubblicate dal Muratori e che il Dozio riporta e illustra.
In queste carte, dopo essersi fatto cenno della chiesa di Cornate, si nomina un « Castrum quod nominatur Rauca » ossia rocca.
Il Dozio, contraddicendosi con quanto abbiamo sopra riportato, così commenta « Potrebb’essere la Rocca o Rocchetta, dove finisce il Naviglio di Paderno, ma più verosimilmente dal tenore delle due carte, la rocca d’Angera od altra presso il Lago maggiore » (3).
Mentre si hanno precise notizie della rocca di Airuno, pieve di Brivio, fin dal 960, la quale era abitata, secondo il Dozio, dagli ascendenti della illustre famiglia dei Capitanei di Vimercate, famiglia longobarda o longobardizzata, rimasta ricca e potente quando sopravvennero i Franchi, (4) per la nostra Rocchetta si naviga nell’incertezza.
Se non che ci soccorrono altri dati per schiarire alquanto la cosa.
Infatti, Beltrando « de Cornate », dottor fisico e cittadino milanese, aveva fatto costruire nel suo possesso della Rocchetta un conventino con chiesina donandolo agli Agostiniani. Nella bolla di Bonifacio IX del 29 novembre 1389 con la quale confermava tale donazione, vi si dice che l’erezione avvenne nel luogo che si dice la Rocchetta. (5).
Pertanto, se la bolla riportata dal Toselli è veritiera, al tempo di Beltrando il luogo portava già tal nome ; nome che doveva necessariamente rimontare ai tempi precedenti, per cui la congettura del Dozio di un castello signorile intorno al mille ha una maggiore probabilità di accostarsi al vero.
Riguardo poi agli avanzi che vedeansi ancora sul vertice, quando scriveva il Dozio, si devono evidentemente riferire al fortilizio erettovi a guardia dell’Adda poco dopo il 1428. (6).
Le congetture del Dozio passarono in altri scrittori, e ultimamente nella Storia dei Comuni nella Provincia di Milano di Paolo Buzzi (Milano 1934). Chi fornì notizie al Buzzi vi aggiunse dell’altro: il castelletto del Dozio lo fece diventare un grande castello, cosa inverosimile quando si consideri il breve spazio disponibile su quel vertice e lungo il fianco che scende al Naviglio; e a quel grande castello vi attribuì il ritrovamento di grosse fondamenta e di due cisterne, delle quali, in modo alquanto generico e senza ben precisarne il luogo, parla il Ferrari nelle sue Lettere Lombarde, (Milano 1765, p. 22), più probabilmente per sentito dire, che non per suo personale sopraluogo.
Le asserzioni del Ferrari, il quale congetturò che quei ruderi non potevano essere che di un castello, indussero alcuni storici briantini a pensare ad un secondo castello situato nelle vicinanze della Rocchetta.
Il Redaelli (Antiquario della Diocesi di Milano di Francesco Bonbognini. Terza edizione con correzioni e giunte del Dr. Carlo Redaelli, Milano 1856, p. 210), ritiene che Due castelli stavano alla difesa del paese (di Cornate); di uno si vedono le vestigia vicino
alla Rocchetta, dell’altro si scoprirono i fondamenti in un bosco ed in una campagna vicina ». E Ignazio Cantù (Le vicende della Brianza, vol. I, Milano 1853, p. 44) «A Cornate sorgevano due castelli, dell’uno dei quali rimane ancora qualche avanzo presso la Rocchetta, e dell’altro una grossa muraglia scoperta, non è guari, in un bosco vicino».
In realtà, da quello che ci lasciò scritto il Ferrari, ed è l’unica fonte in merito nota, nulla di certo si può dire; né a quale epoca possano rimontare quei pochi ed incerti ruderi, né a quale sorta di edificio abbiano appartenuto. Sappiamo soltanto che poco lontano dalla Rocchetta, verso Porto, sorgeva anticamente la chiesa di S. Giovanni Apostolo. (7).
Più difficile è lo schiarire l’altra congettura del Dozio, e cioè che presso quel castello signorile ci doveva essere un oratorio dedicato all’Annunciata, e che, scomparso il castello, lasciando il nome al luogo, la chiesina sia rimasta in picchi e custodita da romiti lungo i secoli.
Continua infatti a dire il Dozio: « Quel castellotto signorile, di cui verosimilmente era parte la rocchetta, posto in luogo così ermo e lontano dall’umano consorzio, fu poi abbandonato, e, non essendo riparato andò grado grado in ruina. Ma rimasta in piè la chiesuola con accanto alcune stanze della rocca, in quelle, come avveniva di frequente nel medioevo, si annidarono l’un dopo l’altro alcuni Romiti, guardiani della chiesa, viventi di limosine, e, ad averle più facili, predicatori all’intorno di grazie e miracoli operati colà, visitati sovente da devoti, e, per uno strano contrasto, anche da banditi ed assassini, soliti accovacciarsi a nascondiglio in luoghi deserti e boscosi al confine: ché confine fu qui l’Adda, dal 1428 al cadere del passato secolo (secolo XVIII), tra il ducato di Milano e lo stato Veneto. Ai romiti, non so come né quando, successero poi i Frati agostiniani di S. Marco a Milano nella custodia della chiesa della Rocchetta, i quali tenevano in Porto un di loro a sopraintendere alle possessioni del convento in quel territorio ». (8).
Che a quel probabile castello signorile ci fosse annesso un piccolo oratorio non è per sè, inverosimile; e non si può nemmeno ragionevolmente escludere che, se veramente esistito, possa essersi conservato, chi sa come, attraverso i secoli successivi. Ma il guaio si è che nessun documento, nessuna memoria (storica o leggendaria) ce lo ricorda.
Non solo, ma il fatto che Beltrando « de Cornate » facesse costruire « de novo » convento e chiesa per gli Agostiniani, sembrerebbe quasi escludere la presenza di altra chiesuola in luogo.
Tuttavia nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani della fine del secolo XIII vi è accennata in Porto una chiesa dedicata a Santa Maria. (9) Ma in qual punto del territorio?…
Mentre sappiamo che poco sotto la Rocchetta, verso Porto, su di un pianoro, sorgeva la chiesa di S. Giovanni Apostolo, giesa rotta nel 1519 e totalmente scomparsa al tempo di S. Carlo, della chiesa di Santa Maria non è possibile precisare, nemmeno per indizi locali, in qual punto si trovasse. (10).
Della Rocchetta non si fa parola.
Nondimeno, poiché nel Liber non vi è segnata alcuna chiesa dedicata alla Madonna nel confinante territorio di Paderno, non potrebbe trattarsi di quella della Rocchetta che in antico faceva parte della pieve di Pontirolo?
Se si potesse provare, o quanto meno avere sicuri indizi, che la chiesa citata dal Liber in Porto, sorgeva alla Rocchetta, si potrebbe seriamente supporre che, conservatasi attraverso l’avvicendarsi dei tempi, Beltrando la facesse ricostruire adattandola al convento, e che perciò possa in certo qual modo corrispondere a quella del castello signorile.
Sono congetture che sottopongo al sagace criterio del lettore.
Comunque sia, nei documenti del secolo XV la chiesetta è sempre distinta col nome generico di Santa Maria, senza alcuna specificazione. La Rocchetta invece è per lo più chiamata Rocchetta di Santa Maria, e talvolta Rocchetta di Santa Maria sopra l’Adda, Rocchetta di Santa Maria sopra Trezzo, Fortezza di Santa Maria di Trezzo.
Gli Agostiniani celebravano la festa all’8 di settembre (Natività di Maria), e non già al 25 marzo (Annunciata).
Come e quando sia stata poi dedicata all’Annunciata non saprei dire.
Ad ogni modo tanto la Natività quanto l’Annunciazione sono liturgicamente tra le feste più antiche del culto mariano.

In conclusione, all’infuori delle su esposte congetture, quello che si può affermare è che Beltrando « che Cornate » vi fece erigere un piccolo convento, con chiesina dedicata a Maria, e lo donò agli Agostiniani.
Un conventino, zenobiolum è dichiarato talvolta nelle carte, nel quale non dimoravano che alcuni padri compreso il priore.
Conclusasi ha pace tra il duca di Milano e la Repubblica Veneta, e divenuta l’Adda nel 1428 il confine tra i due stati, quel piccolo convento non poté più oltre sussistere, e i padri, pur continuando ad esistere giuridicamente il cenobio, si dispersero nei paesi vicini aiutando le chiese secolari. Filippo Maria Visconti lo fece occupare e fortificare, ponendovi un castellano con soldati. E a questo tempo che rimonta anche ha Torre di Porto, la quale ebbe pure una piccola guarnigione col suo castellano. Piccoli fortilizi, destinati, più che altro, a sorvegliare i vicini guadi dell’Adda.
La chiesetta fu conservata. Ma abbandonata a se stessa andò lentamente decadendo. Al tempo di S. Carlo Borromeo fu trovata così diroccata che fu imposto ai padri di S. Marco e agli uomini di Porto di ricostruirla o di completamente atterrarla entro sei mesi.
Sul finire del secolo XV, o poco dopo, per la diminuita importanza militare, col perfezionarsi dei mezzi di difesa e di attacco, il forte della Rocchetta e la Torre di Porto furono abbandonati. Divenuto ricettacolo di ladroni e di banditi, il forte della Rocchetta fu distrutto, lasciando intatta la chiesa, da Gian Giacomo de’ Medici detto il Medeghino, durante il suo dominio nella Brianza. (11).
Rimasero in efficienza i castelli chi Brivio e di Trezzo.
Non essendo ormai più possibile ricostruire il convento, questo fu canonicamente soppresso e incorporato con tutte le sue ragioni e possessi, con quello di S. Marco in Milano: unione confermata con bolla di Leone X del 28 ottobre 1514, e divenuta effettiva, per difficoltà pratiche insorte, qualche anno dopo.
Gli Agostiniani non tennero in Porto nella loro casa padronale, presso la quale avevano aperto un oratorio dedicato a S. Nicola, che un sopraintendente ai loro possedimenti.
Con la soppressione del convento di S. Marco nel 1797 gli Agostiniani non ebbero più ingerenze né in Porto né alla Rocchetta.
I loro beni furono venduti a privati dal governo della Repubblica Cisalpina.
Del convento, del forte, e dei connessi avvenimenti, travolti dall’ala edace del tempo, altro non resta che il ricordo. Benché rimaneggiata lungo i secoli, rimase la solitaria e divota chiesina, venerata oggi sotto il titolo di Santuario della Madonna della Rocchetta, vigile custode ai confini di tre provincie. Lambita dalle acque frementi del fiume che scorrono a valle, domina dall’alto un paesaggio di severa bellezza, mistico richiamo ai terrieri vicini e lontani.

S. GIORGIO DI CORNATE D’ADDA (Monastero o arcipretura?)

Come la basilica monzese di S. Giovanni Battista deve la sua fondazione alla regina Teodolinda, così la chiesa di S. Giorgio martire in Cornate fu eretta dal re longobardo Cuniberto; con la differenza che l’arcipretura di Monza, sorta in luogo importante e arricchita di privilegi lungo i secoli, ebbe vita prospera, mentre quella di Cornate, eretta in un piccolo villaggio fuori mano, sbalestrata da una commenda all’altra, da uno in altro possesso, ebbe un decorso travagliato e oscuro: lentamente decadde, così da finire soppressa da S. Carlo Borromeo come si dirà più avanti.
E’ noto che sul declinare del secolo VII a Cornate si combatté aspra battaglia tra il ribelle Alahis, duca di Trento e di Brescia, ed il re Cuniberto. Secondo alcuni, Alahis con le sue truppe avrebbe passato l’Adda a Porto, e la cosa ha del probabile. Alahis cadde sul campo ed il suo esercito fu sconfitto. A perenne ricordo di tanta vittoria, Cuniberto fece erigere sul luogo un monastero, dedicandolo a S. Giorgio martire: « Hic in campo Coronate - scrive Paolo Diacono - ubi bellum contra Alalhis gessit, in honorem beati Georgi martiris monasterium construxit », e l’avrà certamente dotato dei necessari mezzi di sussistenza (12).
Dal breve cenno di Paolo Diacono dobbiamo scendere al 7 dicembre del 901 per trovare memoria di S. Giorgio in Cornate, e cioè quando Ludovico II, con diploma datato da Pavia, donava ai vescovi di Como l’abbazia di S. Giorgio in Cornate presso l’Adda: « abbatiam quae Coronatae nominatur in honorem Sancti Georgii constructam et prope flumen Abduam sitam » (13).
Dalla mensa vescovile di Como l’abbazia passò poi, chi sa come, in altre mani. Infatti sul cadere del secolo, ossia il 15 gennaio del 998, Liutefredo vescovo di Tortona, dopo aver vinto, con duello in Pavia nel tribunale dell’imperatore Ottone III, una lite contro i coniugi Riccardo e Valderata e ottenuta perciò una grande quantità di beni, di questi ne fece due parti delle quali una donò all’imperatore, l’altra vendette al duca Ottone padre del Sommo Pontefice.
Tra i beni venduti, in buona parte situati nella diocesi di Milano e alcuni nelle vicinanze di Cornate, troviamo la metà di una Corte che chiamasi Coronate (Cornate), e di un castello ivi fabbricato e di una chiesa dedicata a S. Giorgio dentro il castello, e delle cappelle, case, servi e serve, aldioni e aldiane, spettanti a quella chiesa e a quella Corte: « finitum precium pro medietatem de duas porciones de corte una domui coltile, qui nominatur Coronate, et de Castro uno ibi abente et de ecclesia infra ipso castro constructa in onore sancti Georgii: seu et rnedietatem de duas porciones de casis et omnibtìs rebus illis seu capellis, servis et ancillis, aldiones et aldianas ad ipsam cortem et ad eadem ecclesia pertinentibus, seu et medietatem de duas porciones de castrum qui nominatur Rauca. Item Coronate qui est iuxta fluvio Adua, et de casis et rebus seu capellis, servis et ancillis, aldionis et aldianas ibidem abitantibus vel exinde pertinentibus quod esse videntur ipsis casis et rebus ad ipso castro et ad predicta ecclesia Coronate, seu ad iam dicto castro qui dicitur Rauca, item Coronate pertinentibus tam in ipsis locis et fundis Coronate et in Coronate ecc. (14).

Il Dozio nelle note illustrative a questa carta scrive: « E’ poi da notare che il Cornate posto nell’attuale pieve di Trezzo, a que’ tempi era diviso in due frazioni, l’una il Cornate Canonicorum, ossia il castello, o chiesa di S. Giorgio e Canonica, ricinti di muraglia, come era stile di canoniche e monasteri a que’ tempi, e cominciati ad edificarsi da Cuniberto nell’aperta pianura; l’altra il vecchio villaggio di Coronate, presso cui, come narra il Diacono, avvenne la battaglia tra Cuniberto e Alachi ». - La divisione di Cornate in due frazioni verso il mille, quasi fossero tra loro lontani, come lascia supporre il Dozio, non mi sembra convincente, sempreché si tratti del medesimo Cornate d’Adda, e non di un’altro situato altrove. La distinzione mi pare, più che altro, giuridica, in quanto si trattava della vendita di enti diversi. Inoltre l’espressione Cornate canonicorum non è di quel tempo, poiché non vi è cenno in nessun documento, ma di molto posteriore. Il Dozio l’ha desunta dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, attribuito a Goffredo da Bussero, della fine del secolo XIII. Infatti l’autore del Liber mentre segna semplicemente in Cornate tutte le altre chiese spettanti al suo territorio, quella di S. Maurizio la dichiara nell’ambito della canonica: « in Cornate canonicorum est ecclesia sancti mauritii ».
Tuttavia questo non ci autorizza, a mio giudizio, a ritenere Cornate diviso in due frazioni, poiché Goffredo, come risulta dal Liber, usa così specificare il luogo degli altari e delle chiese quando sono erette nel recinto delle canoniche. Se si fosse trattato di un Cornate canonicorum, come di una frazione a sé stante lontana dal villaggio, avrebbe dovuto a maggior ragione includere la chiesa di S. Giorgio, mentre invece quando accenna agli altari di S. Giovanni Battista e di S. Maria li dice in Cornate nella chiesa di S. Giorgio: «Cornate altare sancti iohannis baptiste in sancto georgio » ... « Cornate altare sante marie in sancto georgio ». La carta del 901 e quella del 998 si completano a vicenda quando affermano che l’abbazia che si chiamava Coronate era presso il fiume Adda, e che Coronate si trovava presso lo stesso fiume.
D’altra parte vi è sempre stata memoria di un sol villaggio in quel luogo ed è il presente come l’antica chiesa di S. Giorgio sorgeva presso a poco sull’area dell’attuale, le cui case canonicali durarono fino alla soppressione operata da S. Carlo nel 1574.
Scrive il Meani che parte dell’attuale campanile rimonterebbe al secolo VIII, e sarebbe stato una torre, la quale per la sua grande solidità ha potuto resistere all’azione di tanti secoli (15). Comunque sia, quella torre doveva certamente far parte del castello del decimo secolo nel cui recinto stava la chiesa di S. Giorgio e la canonica. Si comprende come intorno alla canonica, eretta in origine alla periferia dell’abitato, dove avvenne la battaglia tra Cuniberto e Alahis, venisse sviluppandosi nei decorso dei secoli l’antico villaggio di Cornate.
D’altra parte il Giulini, riguardo a questa carta del 901, osserva che « troviamo una corte detta Coronate con un castello e con una chiesa dedicata a S. Giorgio, ma senza alcun indizio di monistero. A tali sventure erano soggetti in quei miseri tempi i luoghi ecclesiastici, che francamente si concedevano dai principi in beneficio a chi più loro pareva ». E in altro passo « Come in luogo della badia siasi formata un’arcipretura non si sa precisamente… Questo per altro è il più antico chiostro di monaci benedettini che si trovi nel milanese ». (16).
Orbene, quello fatto costruire da Cuniberto fu un vero monastero nello stretto significato della parola? Tale lo ritennero il Tatti, il Mabillon, il Ferrari, il Giulini, il Fumagalli, il Meani ed altri.
Tuttavia è lecito dubitarne.

Già il Dozio ebbe a dire: « io non dubito che si abbia ad intendere, avere quel re longobarbo eretta a Cornate una chiesa in onore di S. Giorgio con chiostro o domicilio di preti e diaconi che l’avessero ad officiare. Perocché di quella chiesa e canonica di Cornate, dedicata appunto a S. Giorgio, non già d’un vero monastero, giunsero fino a noi parecchi cenni nelle carte del secolo undicesimo in poi: del che ne parlerò largamente in altro libro » (17).
Anch’io ritengo, nonostante l’opinione contraria dei più, quanto asserisce il Dozio. Certamente che dalla fine del secolo VII al secolo X c’è un bel asso di tempo senza un documento che riguardi S. Giorgio di Cornate. Tuttavia, quando si pensa alla tenacia conservativa degli ordini religiosi per le loro istituzioni, e alla differenza sostanziale tra un vero monastero e una canonica di clero secolare, non mi sembra tanto facile l’ammettere, pur tenendo calcolo delle turbolenze del secolo X, che, qualora si fosse trattato in origine di un monastero di monaci benedettini, siasi trasformato in arcipretura collegiata.
Si sarebbe verificato, a mio avviso, per il monastero o abbazia di Cornate, quello che avvenne per la chiesa di Monza, la quale, per essere stata chiamata nelle antiche pergamene monasterium e abbatia, fu ritenuta dal Mabillion un tempo monastero benedettino, (18) e il Giulini credette ci fossero presso la basilica di S. Giovanni Battista due canoniche, l’una di clero secolare coll’arciprete, l’altra di regolari col loro abate (19).
Il Frisi, diligentissimo raccoglitore e interprete delle memorie monzesi, rifiutò tale erronea asserzione, dimostrando come in realtà la chiesa di S. Giovanni Battista fu in origine, e tale sempre si conservò, una collegiata officiata da sacerdoti, chiamati col tempo canonici sotto la direzione di un arciprete.
Né punto mi sgomentano - soggiunge il Frisi - le obbiezioni tratte dalle voci: Abbatia, Monasterium, Fratres, congregatio, de hordine et congregacione e simili; imperocché elle sono così decisamente interpretate dal Du - Cange, maestro fuor d’ogni eccezione delle antichità dei bassi tempi : « Abbatia, Ecclesia Parochialis, maxima illa quae curatum habebat primitivum, qui non semel Abbas in veteribus instrumentis etc. Pari ratione Ecclesiae Parochiales etiam dictae sunt Monasteria, unde antiqua vox Gallica Le Monstier quae de qualibet Ecclesia intelligitur ». (20).
Se il Frisi poté dimostrare chiaramente il suo asserto, avendo a disposizione maggior copia chi documenti, ciò non toglie che similmente si possano seriamente interpretare le poche carte antiche superstiti riguardanti S. Giorgio di Cornate.
D’altra parte, se in origine si fosse trattato di un monastero di monaci benedettini o d’altro ordine, non ci pare verosimile che attraverso i secoli successivi non ne rimanesse in qualche modo memoria. Invece nessun cenno di una cappella, di un altare, o di altro che richiami qualche cosa di benedettino o di monastico nella chiesa di S. Giorgio.
Nel 1398 la Canonica di Cornate, oltre l’arciprete, contava sette canonici. Vi era inoltre una cappella con beneficio proprio dedicata a S. Giovanni Battista, santo molto venerato dai Longobardi. (21). Questa cappella ci richiama l’altare dedicato allo stesso santo nella chiesa di S. Giorgio e ricordato nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani. E il lettore ricorderà come in questo stesso Liber si accenna all’esistenza, nell’ambito della canonica, di una chiesetta dedicata a S. Maurizio, santo guerriero come lo era S. Giorgio.
Nella persuasione invece che Cuniberto abbia fondato un vero monastero, e volendo rintracciarlo sul luogo, si è preso dal Tatti, dal Ferrari, dal Meani e da altri il monastero delle benedettine alla Fugazza dedicato a S. Maria, per quello eretto da Cuniberto in onore di S. Giorgio.
La Fugazza è oggi un cascinale lontano da Cornate poco meno di un mezzo chilometro sulla via per Colnago.
Dal Liber Notitiae Sanctorum Mediolani non risulta alcun monastero nel territorio di Cornate, e alla Fugazza vi è ricordata solamente la chiesa di S. Maria: « In fugatia ecclesia sancte marie ». Di S. Giorgio invece vi è riportata la tradizione che la innalzasse un certo qual conte «velut quidam comes»; tradizione in parte errata, poiché Cuniberto la eresse e non un conte, ma che lascia comprendere come durasse la memoria della sua antica e nobile fondazione. (22). Da questo si intuisce subito l’origine diversa delle due chiese.

Quando sorgesse il monastero delle benedettine di S. Maria alla Fugazza non mi fu dato di rintracciare. Nel catalogo di Cencio Camerario del 1192 vi è un « monasterium de Partificacia » , il quale, come altri monasteri, pagava alla Santa Sede l’annuo tributo di sei denari. Se questo monastero corrisponde, come sembra, al nostro della Fugazza, la sua esistenza è senza alcun dubbio anteriore al secolo XIII. Probabilmente sorse nei secoli XI o XII nei quali ci fu una fioritura di simili monasteri nell’alto milanese.
Ad ogni modo ebbe vita affatto indipendennte dall’arcipretura collegiata di S. Giorgio in Cornate, come può vedersi dal Notitiae cleri mediolanensis de anno 1398, e dallo Status Ecclesiae Mediolanensis anno 1466.
Il 7 luglio 1491 frate Pacifico de Limiate, priore del convento di S. Maria della Rocchetta, dava in affitto a Zanino Brambilla, abitante in Cornate, una casa in Porto con fondi parte a coltivo e parte a boschi: tra i confinanti vi era il « monasterium de la fugazza. ». (23).
Doveva essere un piccolo monastero quello dello Fugazza, come si può desumere dalla sua tenue consistenza patrimoniale, poiché nel 1398 fin estimato in sole lire 2, soldi 4 e denari 2.
Allorquando S. Carlo il 20 settembre 1566 fece la sua prima visita a Cornate, il monastero della Fugazza più non esisteva. L’edificio tramutato in abitazione di contadini, era stato usurpato in proprio coi fondi annessi dall’arciprete di Cornate Galeazzo Giussani.
Quando precisamente, e per quali motivi, il monastero scomparve non saprei dire. Tuttavia per la diocesi di Milano si conosce che monasteri, già fiorenti e numerosi di religiose, nel secolo XV si sfasciarono per rilassatezza e conseguenti abusi, così che molti si ridussero a sparire soppressi o incorporati con altri. Il monastero delle benedettine di Aurona, il quale aveva probabilmente dei rapporti con quello della Fugazza per lo meno al cadere del secolo XIV (24), fu soppresso dalla Santa Sede nel 1472 e passato al Monastero di S. Ambrogio. (25).
Si può ritenere che sul finire del secolo XV o nella prima metà del seguente scomparisse anche quello della Fugazza.
S. Carlo comandò che si restaurasse l’antica chiesa del monastero, e si restituissero i beni usurpati. Ma il signor Ludovico Giussani non solo non volle restituire quei beni ereditati dall’arciprete Galeazzo, ma si oppose anche a che si restaurasse la chiesa.
Nemmeno l’inglese Harris nominato arciprete nel 1570, sacerdote energico e zelante, nulla poté contro il Giussani, benché la chiesa fosse «di grande devotione et ad essa si suole andare in processione. Et così sta aperta di continuo con puocha riverenza, et talvolta occupata con cose da massari. Similmente in quanto altri beni spettanti a detta giesa et goduti dal sig. Ludovico Giussani, non si sa come sieno alienati. S’avvertisca però che in dietro a detta giesa è continua una pezzetta di terra convertita dal suddetto Giussano in horto e vigna da massari, la quale si presuppone che sia cimitero, attesoché quando si vanga si truova ivi molte ossa di morti con assai edificatione ». (26).
La chiesa della Fugazza non venne mai restaurata, e tanto meno restituiti i beni ad essa spettanti.
Il gesuita Padre Ferrari nel 1758, mentre nella vicina Villa Paradiso trascorreva le vacanze autunnali, poté osservare il cadente cenobio, e la viva devozione dei terrieri verso l’antica immagine di Maria. (27). La vecchia Fugazza fu rifatta verso il 1830: nel rifacimento scomparvero gli ultimi resti, e dell’antico monastero, non rimase che la memoria. (28).
L’arcipretura di S. Giorgio di Cornate coi suoi canonicati fu soppressa da S. Carlo il 17 settembre 1574, aggregando titolo e beni alla collegiata di S. Lorenzo Maggiore in Milano.
A Cornate non vi lasciò che un semplice parroco al quale il capitolo di S. Lorenzo doveva pagare una annua rendita beneficiaria di L. 425.
Da nota dell’Harnis del 1572 si ha che l’arcipretura collegiata di Cornate, oltre i livelli e le decime, e senza tener conto di beni usurpati, possedeva in fondi oltre 1600 pertiche milanesi, con una popolazione di 410 anime.

L’ULTIMO ARCIPRETE di Cornate d’Adda

Mentre S. Carlo Borromeo attendeva alla riforma del suo clero e del suo popolo, e vigile si adoperava a tener lontano l’eresia che si insinuava alle porte della sua diocesi, la persecuzione contro la Chiesa cattolica infieriva in Inghilterra sotto la regina Elisabetta. Molti sacerdoti inglesi dovettero cercare scampo sul continente: parecchi ne accolse S. Carlo e li ascrisse al suo clero.
Fra questi ecclesiastici inglesi merita di essere ricordato Giovanni Harris, il quale, appena ricevuta la sacra tonsura, dovette fuggire dalla patria. A Milano nel dicembre del 1567 ebbe gli ordini minori e successivamente il suddiaconato: il 17 dicembre fu ordinato sacerdote.
Diventata vacante l’insigne arcipretura collegiata di S. Giorgio in Cornate della pieve di Pontirolo, S. Carlo, che aveva constatato nella sua visita del 20 settembre 1566, (29) il bisogno che a quella chiesa presiedesse un sacerdote di pietà e di zelo, mise gli occhi sull’Harisio, beuché da pochi mesi consacrato sacerdote. Infatti il 2 luglio del 1570 gli fu conferita l’arcipretura di Cornate dal Vicario Generale Mons. Castelli, e prese a farvi residenza il 29 settembre.
Nel settembre del 1570 era giunto in visita, delegato da S. Carlo, il padre gesuita Leonetto Clavono, primo rettore di S. Fedele in Milano.
Richiamato l’obbligo di eseguire quei decreti emanati da S. Carlo e non ancora effettuati, ordinò di abbattere la casa che stava attaccata alla facciata della chiesa; di costruire un muro alto almeno tre braccia intorno al cimitero « cominciando dalla cantonata del muro alle dette case in modo che il tutto insieme serino il cimitero et la casa de la canonica » e si facciano due porte una ad oriente e l’altra a mezzodì da chiudersi durante la notte.
Comandò di sistemare le case della canonica così da potervi comodamente abitare l’arciprete, due canonici, e un chierico, e di provvedere i paramenti necessari al divino culto. Di tutto questo fece obbligo all’arciprete, e che, qualora questi non ottemperasse, spettasse al vicario foraneo darvi esecuzione sequestrando i due terzi dei frutti d’ogni canonicato e un terzo all’arciprete facendo esso residenza. Impose che i canonici da quattro (30) - mentre nel 1398 abbiam visto ch’erano sette - si riducessero a due così da poter comodamente far residenza, e recitassero collegialmente in chiesa le ore canoniche, e si provvedesse un’altra campana.
Fu in questa circostanza che Porto e la Rocchetta, allora di pochissimi abitanti, furono uniti all’arcipretura di Cornate distaccandoli dalla lontana Pontirolo. Tuttavia veniva suggerita l’erezione in sito di una cura o parrocchia, qualora i frati di S. Marco od altri provvedessero a sistemarvi una chiesa parrocchiale con casa per un curato e relativo sostentamento. Ma i frati, ch’erano i maggiori possidenti e i veri dominatori in Porto, fecero sempre il sordo a tale per la Comunione al popolo ed agli infermi, di costruire uno nuovo battistero, di chiudere con muro di cinta il cimitero, di far residenza ai canonici assenti e di recitare le ore canoniche sotto pena di privazione del beneficio, ecc. proposta sia per schivare spese inutili dal loro punto di vista, sia per non avere eventuali futuri contrasti coi parroci locali.

« Porto e la valle della Rocchetta, scrive il Dozio, in remoti tempi appartennero alla pieve di Pontirolo con rito romano o piuttosto patriarchino: Cornate, arcipretura con sette canonici, fondata da Cuniberto e soggetta in antico non a Pontirolo ma a Milano, teneva il rito ambrosiano: e quei di Porto, come più loro accomodava ora stavano col lontano Ponitirolo ed ora col vicino Cornate, vivendo un po’ a lor modo col far, per esempio, il carnevale romano et anco l’ambrosiano. S. Carlo mise poi ordine a tutto . (31).
Dalle carte da me consultate si ha che Cornate, pur essendo collegiata indipendente, appartenne sempre - in quanto a pieve - a quella di Pontirolo (poi di Trezzo), e ritengo ne seguisse, come tuttora, il rito romano o patriarchino, pur non escludendo che ci possa esser stato, riguardo al rito, qualche confusione nei secoli prima di S. Carlo. Non mi sembra verosimile che S. Carlo il quale ci teneva molto al rito ambrosiano, concedesse il passaggio al rito romano. Che quei di Porto, e non soltanto loro, facessero a piacimento il carnevale romano ed anche l’ambrosiano, lo si potrebbe spiegare col fatto che Porto si trovava all’estremità della pieve di Pontirolo e confinante con la pieve di Brivio di rito ambrosiano.
L’Harisio appena insediatosi in parrocchia dovette purtroppo constatare che tutto era in uno stato deplorevole. Dei canonici più nessuno faceva residenza da molto tempo; cadenti per vetustà e abbandono le abitazioni canonicali; i beni ecclesiastici in parte usurpati dai laici. La chiesa necessitava di urgenti riparazioni. L’istruzione religiosa nel popolo lasciava molto a desiderare.
Il divin culto si riduceva a festeggiare specialmente S. Lucia per il mal d’occhi ; S. Apollonia per il mal dei denti; S. Agata per le mammelle; S. Erasmo col far benedire i maiali « per infermità et altri rispetti ».
Era in uso il voto o divozione di digiunare tanti lunedì per S. Caterina; di far voti alla Madonna di Caravaggio nell’eseguire i quali usavasi lavare la testa; di non far lavorare i buoi in sabato in onore della Madonna; di non lavare panni in certi giorni; di non far pane in venerdì, ecc.; mentre poi si lavorava nei giorni festivi col far cuocere mattoni, col macinare grani, trasportar legna, spigolare nei campi, voltare il fieno, seccare il miglio, raccogliere foglia per i bachi, et altri simili lavori.

Al nuovo arciprete, proveniente da una nazione che rispettava assai il giorno del Signore faceva impressione questa condotta dei suoi parrocchiani, e ne stese una relazione ai superiori, osservando che alla festa « pochi sogliono mandare li suoi figli alla Messa et alla dottrina X.na, ma li mandano fuori con li maiali ».
Si mise pertanto al lavoro con solito coraggio. Attese al restauro della chiesa e delle case canonicali; si sforzò di rivendicare terreni ecclesiastici usurpati, e richiamò all’adempimento dei loro obblighi quei signori, i quali per oneri legatari erano tenuti a soccorrere i poveri del paese, e non lo facevano per negligenza e avarizia. Ma più che tutto, dopo aver provveduta la chiesa della necessaria suppellettile, si adoperò a far rifiorire la fede e i buoni costumi.
Quando vi giunse arciprete, la chiesa (a tre navi) era stata alcuni anni prima ampliata, così che S. Carlo nel 1566 la poté dichiarare abbastanza ampia « satis ampla », e il padre Leonetto nel 1570 « de novo refecta », (32) ma internamente mancava di una sistemazione conforme agli ordini (altar maggiore, battistero, ecc.), ed egli cercò di rimediarvi secondo le prescrizioni nel miglior modo possibile.
Nello svolgimento della sua instancabile attività l’Harisio ebbe noie e contrasti, specialmente nel rivendicare i beni usurpati alla chiesa. Ma già provato in patria dalla persecuzione, e sorretto dai superiori, coi quali teneva corrispondenza per aver lumi, continuò imperterrito nella sua via.
Sacerdote di pietà e preghiera, con lettera in data 24 gennaio 1573 ringraziava, tra l’altro, Monsignore per i buoni consigli ricevuti sul modo di far orazione in chiesa ogni sera.
S. Carlo prese a sempre più apprezzare lo zelante arciprete. Fù eletto confessore dei sacerdoti e dei chierici del vicariato di Busnago (non era ancora costituito quello di Trezzo) e alla sorveglianza dei medesimi, ed ebbe la facoltà di assolvere dai peccati riservati.
Con quanto impegno egli disimpegnava i suoi incarichi ce lo dimostra questa sua relazione del 6 gennaio 1573:
« Molto Rev.do Mons.or et patrone mio sempre oss.mo
Stimolato io dal carigho impostomi da V. S. nel Sinodo diocesano ultim.te celebrato, et insieme dal desiderio dell’honor d’Iddio et della osservat.ne della mente di Mons.or Ill’ust.mo et di V. S. ho pensato di scrivere a lei di presente circa alcuni inconvenienti quali si ritrovino in q.to vic.to di Bucinago.
La prima si è che il n.ro vic.o foraneo sia puoco ubedito et stimato non solam.te dalli secolari ma anchora dagli religiosi sottoposti a lui, talché dopo che sarà stata letta da lui in qualche congreg.e alc.a overo ordinat.e mandata da Mons.or Illustr.mo overo da V. S. si esseguisce pocho o niente.
La 2a si è vi suono alc.ni sacerdoti molto puoco prattichi in celebrare la messa, et negligentissimi nella osservanza delle regole et cerimonie del missale nuovo, adiungendo et lasciando q.ei tanto che pare a loro.
La 3a che in alc.ne chiese curate si ritruova un missale nuovo solam.te la quale cosa potria essere causa che nell’ufficij di morti et altre occorrenze havessero d’usare il missale veccio contro la Bulla di N. S.re
La 4a che vi sono più che duoi curati q.ali non tenghono il S.mo Sacr.to in chiesa scusandosi per la povertà di non potere mantenere Lume.
La 5a si è che gli curati sogliono confessare persone in chiesa senza stola e cotta.
La 6a si è che fin hora non è stata fatta provisione di prede sacrate conforme all’ordinat.e
La 7a si è circa la rinovat.e dell’acqua santa.
La 8a si è che in cantare le Letanie, et alla elevat.e del SS.mo Sacramento alc.ne persone eccl.ce s’inginocciono con un ginoccio solo.
Vi sono alc.ni altri abusi, gli quali si non saranno tolti via doppo che avrò avisato il n.ro vic.o foraneo e altri nostri fratelli, scriverò similm.te a V. S. d’essi.
Saria cosa molto santa secondo il mio parer se V. S. volesse strittam.te inhibire che gli religiosi di q.to vic.lo non habbiano in conto alc.o d’invitare o admettere nelli funerali o feste delle chiese loro sacerdoti bargamaschi et specialm.te q.elli che sono d’altra diocese, et q.to non sol.te a dire messa, ma anchora a cantare canto figurato, poiché sia cosa difficilissima farli venire con habito condecente et osservare le ordinat.mi alla tavola, come vedo per esperienza.
Similm.te a inhibirli sotto qualche pena che non invitino alli funerali et feste loro se non quelli sacerdoti d’altre pieve, quali sanno molto bene celebrare alla Romana, et venghino per omnia in abito condecente. Perché non ostante l’ordinatione incontrario s’invitano quelli che celebrano nelle sue chiese all’Ambrogiana, o vero sforzandosi di celebrare alla Romana fanno una confusione grande mescolando una foggia con l’altra.
Non ostante che V. S. n’abbia concesso l’anno passato facoltà d’assolvere persone da casi riservati imponendoli penit.a quanto è possibile proporzionata al delitto, ho voluto però communicare con V. S. il delitto d’un giovane della mia cura, saputo non modo confessione, ma per relatione d’altri, il quale ha battuto et fatto altra simile violenza altre volte al suo padre et madre: et adesso di nuovo tre dì fa s’è levato contra il suo padre brancandolo, et pigliando in mano un sargio et furcon facendo segno di voler darlo, et forse l’avria dato in effetto se non fosse stato impedito da altre persone.
P.r q.to desiderando io che sia data a lui penitenza publica sì per giusto castigo di simile delitto, come anchora per dare esempio ad altri, prima che venga a confessarsi, et habbia da me l’absolutione sacramentale, ricorro a V. S. pregandola d’assignarmi la penit.a quale ho di darlo, acciocché essendo imposta con autorità di Lei sia eseguita dal delinquente più pront.te et dia maggior terrore agli altri.
Havendo io fatto disfare tre chiese campestre o vero capelle, due d’ordine di Mons.r Ill.mo et l’altra per essere stata tutta rovinata et in parte cascata a terra con la grande neve dell’anno 1570, (33) et havendo io fatto levare via le prede et altra puoca materia per applicarla in benef.o della mia chiesa et casa sì che non resta altro salvo il calcinazo et pulvere delle muraglie veccie volendo io fare portar via anche detto calcinazo et polvere in uno o duoi luoghi dici terreno della mia chiesa, sì per essere esso molto utile alle vite, come anchora per fare restare il fundo di dette chiese disfatte più comodo per il popolo d’inginocciarsi secondo la loro usanza nelle letanie maggior et altre processioni perché non si può sapere se dette chiese sieno state mai consecrate, per maggior sicurezza desidero fare non senza licenza di Lei. Et di quanto sop.a aspetto con comodità pero di V. S. risposta, della quale humilm.te bacciole le mani. Di Cornate a dì 16 Gen.o 1573.

Gio: Harisio Inglese Arciprete di Cornate ».

Da circa quattro anni egli attendeva a saggiamente amministrare e a ben dirigere il suo popolo, quando S. Carlo, sia per le difficoltà che incontrava l’Harisio nel rimettere in sesto l’antica collegiata, sia per la necessità di riordinare chiese e istituzioni ben più utili e importanti, ritenne opportuno di sopprimere il 17 settembre 1574 la collegiata, aggregando dignità e rendite a quella di S. Lorenzo in Milano dove passò a far parte lo stesso Harisio in qualità di canonico.
A simile provvedimento non sfuggì nemmeno l’antica collegiata di Pontirolo, soppressa dal santo arcivescovo pochi anni dopo e trasferita a S. Stefano in Milano, non lasciando in luogo che un beneficio curato con obbligo di cura d’anime. Queste, e molte altre soppressioni operate da S. Carlo nella diocesi si erano rese necessarie, perché, mutati i tempi, queste collegiate erano divenute per lo più di nessuna utilità pratica per il bene spirituale delle popolazioni, e talora anzi fonti più di male che di bene.
Cornate da quell’anno scese al rango di una semplice parrocchia rurale.
Nel novembre del 1574 l’Harris lasciava definitivamente Cornate, e in quello stesso mese prendeva possesso della parrocchia il sacerdote Domenico Mauri, iniziando la nuova serie dei parroci di Cornate.
Se S. Carlo, dati i tempi e le circostanze, ebbe le sue buone ragioni per sopprimere l’antica arcipretura, oggi, mutati i tempi e le circostanze, non sarebbe fuor di luogo ridonare ai parroci di Cornate, sia pure in modo puramente onorifico, il titolo di arciprete, non fosse altro, per tener vivo il ricordo, attraverso i secoli, dell’antica e nobile origine di basilica regia longobarda della chiesa di S. Giorgio; chiesa nella quale oggi hanno venerato riposo le sacre spoglie del vescovo Caccia Dominioni.

VILLA PARADISO

Nelle ridenti terre della Brianza abduana, in quel di Cornate, sulla costa dell’Adda, spicca un grosso cascinale chiamato Villa Paradiso.
Se da una parte sappiamo che il nome di Villa gli è rimasto per la villa edificata dai padri gesuiti del Collegio di Brera sul finire del secolo XVII (34), e non già del secolo XVI come asserì il Meani (35), per trascorrervi le vacanze autunnali, dall’altra nulla sappiamo del perché si chiami Paradiso.
Si è scritto che i gesuiti stessi gli dessero tal nome. Risulta invece con certezza che, ancor prima che essi venissero a stabilirsi, vi sorgeva una casa da nobile con annessa casa da massaro per la coltivazione dei fondi, e che il luogo si chiamava Paradiso.
Il padre Ferrari scrisse in proposito: « udii alcuni scherzare: la è affettazion vostra dicevano, imporle tal nome: s’ingannano; prima d’assai che noi ci fossimo, così chiamavasi. Era picciol castello, o asilo di un’antica famiglia nei tempi che dominavano le sanguinose fazioni. Se avveniva che alcun rivale o nemico fosse sorpreso, qui si traduceva, né mai più altro sapeasene. Iti sono in Paradiso, diceva la gente del contado, e ciò valeva quanto il vixere del Consolo esterminatore de’ Catilinari. I paesani fecero il nome e conservaronci la tradizione che varrà finché altra non abbiaci più autentica origine » (36). E’ una spiegazione che non persuade mentre è verosimile che tal nome sia derivato, come avvenne per altri luoghi dell’alto milanese, dall’amena posizione.
D’altra parte non si ha memoria che qui sorgesse un castello o altra forte dimora.
In una stampa del 1520 vi è segnata invece una rocca dei Cusani oltre il Paradiso verso Trezzo. Fu confiscata nel 1531 ad un Gio: Francesco Cusani per aver ucciso in Robbiate un certo lacobo del luogo di Mezzago, e per questo condannato alla pena capitale e alla confisca dei beni.
Di questa rocca si fa parola in lettere del 26, 27 e 30 luglio del 1483 indirizzate al duca di Milano dal castellano di Trezzo Vercellino Visconti. Si era riaccesa la guerra tra la Repubblica Veneta e il ducato di Milano. Roberto Sanseverino, comandante delle truppe venete, aveva gettato un ponte sull’Adda, occupando la rocca e ponendovi un presidio di trecento uomini. Il Visconti la prese d’assalto costringendo i nemici a ripassare l’Adda.
Villa Paradiso gode di un ampio panorama sul bergamasco e sulla valle dell’Adda fino a Trezzo.
Il Meani, parlando di Villa Paradiso, così si esprime: ... « quanto sia allegra ed amena, il nome stesso tel dice. Dal giardino, come da aperto balcone, vagheggi i magnifici panorami del Bergamasco e ad occhio nudo distingui l’alta città di Bergamo, il celebre edifizio medioevale del Castello di Trezzo, e, fra i villaggi e casali bergomensi, Solza culla del valoroso Capitano Bartolomeo Colleoni. Ora lascia il pianterreno, e sali il terrazzo. Quale incanto dovunque volgi lo sguardo, nuove e sempre crescenti meraviglie ti si apprestano, ti rapiscono, ti sollevano al Sommo Fattor!» (37).
Ubertose campagne la circondano oggi da tre lati, mentre su la scoscesa sponda del fiume si stende la boscaglia. Ma nei lontani tempi dominavano selve e brughiere: luoghi di caccia grossa poiché vi scorazzavano caprioli e cinghiali. Per questo fu tra i luoghi che si riservò per la caccia il duca Gian Galeazzo Visconti nel 1393. Ed anche nei secoli successivi, finché quelle brughiere e boscaglie ricche di selvaggina non vennero ridotte a coltivo, furono frequentati da cacciatori milanesi e bergamaschi. Nel 1780 un Giovanni Carcano teneva un’osteria al Paradiso, osteria detta dei cacciatori. E poiché, inoltre, vi passava la strada costiera da Trezzo a Lecco, il Carcano guadagnava quasi come l’unico oste, certo Robiati Antonio, che allora esisteva nel paese di Cornate.
Nella seconda metà inoltrata del secolo XVI troviamo il luogo del Paradiso in proprietà di un Leon Santo di Trezzo, il quale vi teneva una casa da nobile, consistente in pochi e vecchi locali, con cantina, torchio per il vino, e pollaio. Appoggiata alla casa stendeva i suoi tralci una pergola di uva bianca moscatella. Vi era contiguo un orto con piante da frutta. Presso la casa padronale stava quella del massaro di un sol fuoco.
I De-Santi o Santi dimoravano per lo più in Trezzo, dove possedevano altra casa da nobile e beni. Durante il periodo sforzesco disimpegnarono vari uffici pubblici, e parecchi furono castellani ducali della rocca di Baiedo in Valsassina.
Leon Santo, detto anche Leonforte, imparentato con la nobile famiglia Cusani della Rocca, era un prepotente e un assassino, degno discendente di quel Gasparo Santo, provvisionato ducale che, verso il 1475, tiraneggiava Trezzo, feriva e assaliva coi suoi figliuoli gli uomini del borgo e diceva villanie alle donne.
Un vero tipo di quei signorotti spagnoleschi immortalati da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi.
Tra l’altro, egli aveva ucciso, con compagni della stessa risma, Bartolomeo Rota, detto Gandolino, un bandito bergamasco già condannato alla forca dal pretore di Bergamo. Riuscì a farsi assolvere dal Senato di Milano, perché il Gandolin era un bandito che, secondo le convenzioni fra lo Stato di Milano e quello Veneto, non poteva dimorare nei rispettivi confini dei due stati per lo spazio di 15 miglia. Ma avendo poi ucciso con un’archibugiata in Trezzo un Figini, fu definitivamente condannato alla pena capitale e i suoi averi devoluti al fisco.
Sui beni di Leon Santo gravavano livelli, legati ed altri oneri non pochi, per cui sorsero lunghe controversie da parte degli interessati contro la R. D. Camera confiscataria.
Nel 1635 i beni confiscati furono messi in vendita. Quelli di Trezzo furono acquistati dal nobile Agostino de Velasco; e quelli del Paradiso dal marchese Paolo Torriani.
La proprietà del Paradiso formava un complesso di oltre 600 pertiche milanesi tra campi, boschi e brughiere, un molino ed una resega situati sul fiume.
Alla morte del marchese Paolo Torriani il luogo passò in eredità, come sua legittima, al figlio Gaspare dei padri gesuiti della città di Como ai quali donò l’eredità paterna.
I gesuiti di Brera, sul finire di quel secolo, vi eressero una grandiosa villa « urbana villa permagna » per passarvi le vacanze autunnali. Vi aggiunsero un piccolo oratorio dedicato a S. Ignazio per celebrarvi.
La tradizione dice che vi erano tante camere quanti sono i giorni dell’anno; esagerazione evidente ma che conferma, per quei tempi, la grandiosità dell’edificio.
Apersero inoltre, per propria comodità, una strada che dal Paradiso scendeva al fiume, donde con natanti, imboccato a Trezzo il Naviglio della Martesana, si mettevano in diretta comunicazione con Milano.
La villa, da poco sorta, subì un violento battesimo di fuoco dalle artiglierie del principe Eugenio di Savoia alla metà di agosto del 1705, durante la guerra per la successione di Spagna.
Il principe Eugenio, comandante dell’esercito austro-sardo, dal bergamasco cercava di penetrare nel milanese. Da Suisio, di fronte alla villa Paradiso nella quale stava il duca di Broglio con poche forze francesi, scese al fiume e ordinò di gettare un ponte. Ma l’operazione durò più del previsto, così da dar tempo al duca di Vendôme, comandante dell’esercito franco-spagnolo, di arrivare in aiuto del fratello. Vendôme vi dispose un’accurata difesa. Nonostante il duello fra le opposte artiglierie, Eugenio accortosi della forte posizione del nemico, fece distruggere il ponte e si ritirò. Ritentò il passaggio del fiume a Cassano, ma rimase sconfitto. (38)
Restaurata dei danni sofferti, la villa continuò ad essere gradita villeggiatura dei padri gesuiti. Tra questi merita di essere ricordato il padre G. Ferrari novarese (1717-1791), che nella villa compose la maggior parte dei Commentari sulle gesta del principe Eugenio di Savoia, e nelle vacanze del 1758 scrisse le Lettere Lombarde (39).
Fu un dotto umanista dei più illustri del suo tempo, ma di scarso valore critico riguardo alle antichità milanesi.
La Compagnia di Gesù, salita in grande potenza per le sue vaste influenze, incominciò ad essere avversata, combattuta dalla corrente delle nuove idee massoniche-liberali che dilagavano specialmente dalla Francia. Filosofi, scrittori, e principi si unirono nella lotta ad oltranza contro i gesuiti. Resistette l’Ordine con tutte le sue forze contro la terribile burrasca, ma invano: papa Clemente XVI lo soppresse definitivamente il 21 luglio 1773.
Negli Stati di Maria Teresa la Compagnia fu estinta col Breve Pontificio munito del regio exequatur, portato da cesareo dispaccio del 7 settembre 1773, nel quale venivano riservati i diritti di sovranità sopra i beni della medesima, per farne quell’uso che meglio convenisse al servizio del pubblico, vietando in successivo dispaccio del 16 ottobre di occultare in qualsiasi modo parte dei beni soppressi.
Senonché i gesuiti di Brera, già edotti delle disgrazie dei loro confratelli nei diversi Stati borbonici, pensarono di distruggere senza perder tempo le carte che in qualsiasi modo potessero comprometterli.
La tradizione locale ricorda che sul finire del novembre del 1773 un’intera notte la fiamma divampò nel camino della villa, finché ebbe arsa una catasta di carte. Quando giunsero gli agenti del governo per una rigorosa perquisizione, più nulla vi trovarono. (40) Nessun dubbio che, in questa come per lo più in tutte le tradizioni popolari, vi siano delle esagerazioni. Certo è che le carte dovevano essere in rilevante quantità.
I gesuiti tentarono di trafugare dei beni a Roma. Ma il governo austriaco, ben presto informato, ne intimò con dispaccio del 24 gennaio 1776 la restituzione, pena la rappresaglia.
Ai religiosi sacerdoti al di sotto dei 60 anni venne liquidata un annua pensione di L. 720, più L. 30 di aumento per coloro che avessero un’età di 60 anni e oltre. Ai laici L. 432.
I beni del Paradiso, insieme agli altri dell’asse ex-gesuitico, passarono in qualità di Vacante sotto l’amministrazione del conte Giacomo Durini il 20 settembre 1773 con controllo del R. Economato. (41)
Tale amministrazione durò sino al 13 maggio 1777, previo reale dispaccio del 17 aprile, in forza del quale Maria Teresa disponeva che il patrimonio fosse interamente destinato ad uso e beneficio della pubblica istruzione. A questo scopo ordinò che detto patrimonio fosse denominato Fondo per la pubblica istruzione, e che la R. D. Camera di Milano, in via di compera facesse acquisto di stabili fruttiferi appartenenti al fondo medesimo per il prezzo corrispondente del tre e mezzo per cento di cavata netta, e che in seguito la R. D. Camera coll’esperimento dell’asta passasse alla vendita dei beni stabili nei tempi e nei modi espressi nel reale dispaccio, dovendo intanto tali beni essere amministrati da S. E. il conte Durini.
A tenore di tali ordini, previa esposizione delle cedole, la mattina del 21 giugno 1779 nel palazzo del conte Durini in Milano, presenti il notaio e il pubblico trombetta, si aperse l’incanto per la vendita di Villa Paradiso.
Comparve un Antonio Riva, il quale per interposta persona e con avallo Antonio Ballabio, offerse lire imperiali centomila. Fu il solo offerente comparso all’asta.
Il conte Durini, visto che nessun altro si era presentato il quale migliorasse l’offerta, indusse il Riva a portare la cifra a lire 112 mila, che fu accettata a patto però che detta somma fosse pagabile metà nel mese di agosto, e l’altra metà entro l’anno 1780; che fossero comprese le scorte e i legnami d’opera esistenti sul fondo; e che il contratto fosse legalmente definito entro il corrente giugno. Passato questo tempo il Riva intendeva ritenersi sciolto da ogni impegno.
Il Durini inoltrò nello stesso giorno le risultanze dell’asta all’autorità superiore onde averne l’approvazione, ma la risposta affermativa non arrivò che al 24 luglio. Richiesto il Riva dell’esecuzione del contratto, si rifiutò dichiarando scaduto il termine.
Si presentarono allora i fratelli nobili Bughi di Cornate: il rev. Doti Prospero e doti Giuseppe. I Bughi erano di antica e nobile famiglia con sepolcro gentilizio nella parrocchiale; famiglia ora scomparsa ma benemerita del paese per le sue larghe beneficenze.
Il Durini, senza passare ad una seconda asta, prese a trattare amichevolmente coi medesimi. I Bughi offrirono 118 mila lire imperiali con la condizione di pagare duemila zecchini all’atto della vendita, e il resto entro l’anno in rate da stabilirsi. Il contratto definitivo si conchiuse su 119 mila lire, in acconto delle quali si dovevano sborsare 30 mila lire, il restante entro un anno coll’interesse del tre e mezzo per cento.
La compera fu fatta in corpo e non in misura, con tutte le scorte e legnami d’opera, e con tutte le ragioni ai beni stessi pertinenti, e venne a costare in definitiva ai Bughi, compresi gli interessi maturati, poco più di 123 mila lire imperiali, il godimento del fondo era incominciato col S. Martino (11 novembre) di quell’anno.
Sui primordi dell’ottocento il nobile Gaetano Bughi fece demolire in parte la grande villa dei gesuiti, riducendola allo stato presente.
Dai Bughi passò, col volgere degli anni, in proprietà dei conti Parravicini che la tennero fino al 1900.
Sotto i Parravicini la villa ebbe l’onore di ospitare, in tempi burrascosi per la Chiesa milanese, Mons. Carlo dei conti Caccia Dominioni, vicario capitolare della diocesi di Milano che vi celebrava nell’annessa chiesuola di S. Ignazio. E nella villa Paradiso morì il 6 ottobre 1866 in età di 64 anni. (42).
Le di lui spoglie mortali, venerate dalla popolazione come quelle di un santo, deposte nel camposanto di Cornate, furono neI 1902 dall’arcivescovo Cardinal Ferrari, con funzioni solenni e coll’intervento di numerosi sacerdoti, trasportate nella chiesa parrocchiale.
La cascina del Paradiso, che nel 1681 contava un sol fuoco (43) e nel 1779 due massari e tre pigionanti, oggi sorpassa il centinaio di persone.
La vecchia villa, nella quale oggi una rinomata osteria fa gustare del buon pesce fresco, ci richiama nelle sue vicende all’eterno avvicendarsi di uomini e cose che passano, come meteore, nell’incalzare del tempo e degli avvenimenti…

PORTESANA PRIORATO CLUNIACENSE DI S. BENEDETTO

Su la strada costiera che da Villa Paradiso conduce a Trezzo s’incontra il luogo di Portesana.
Da Portesana, scendendo nella valle, ci si presentano tuttora i resti interessanti dell’antica chiesuola di S. Benedetto e del piccolo chiostro dei benedettini cluniacensi; resti illustrati dal Diego Santambrogio. (44)
Sito avvallato, solitario, al cui piede scorre l’Adda, e in lontani tempi circondato da fitte boscaglie. Singolare è il contrasto con la elevata e ridente posizione di S. Egidio di Fontanella, altro monastero dei cluniancesi eretto sul Monte Canto presso Mapello.
Il priorato di S. Benedetto non va confuso, come fece qualche scrittore, con il convento o meglio casa degli Umiliati, detta Domus de la Costa de Trizio: unita cum dono de Vicoboldono; e che il Tiraboschi ritiene sorgesse ad un miglio e mezzo da Trezzo verso Villa Paradiso.
Fu denominata della Costa per la sua posizione sull’alta riva destra del fiume.
Il nostro priorato fu sempre un piccolo cenobio con due o tre monaci al più, compreso il priore, anche nei bei tempi del fervore primitivo dei Cluniacensi fra di noi.
Non fu certamente saggio consiglio l’averlo eretto nel fondo valle e non molto lontano da Trezzo, borgo munito di un forte castello, presso il quale, a diversi intervalli lungo i secoli, si svolsero fazioni militari e assedi (45). Il cenobio era talora invaso e saccheggiato da licenziose e affamate milizie.
In quei terribili frangenti il priore, col suo compagno, non poteva fare altro che rifugiarsi nel monastero di Pontida, lasciando qualche animoso converso a custodia dell’abbandonato cenobio.
Verso la metà del secolo scorso, entro la chiesa e il coro, come nella piccola piazza, si rinvennero mucchi d’ossa sepolte, che verosimilmente si possono credere, oltre a quelle dei monaci e dei coloni, di soldati uccisi in qualche fatto d’armi avvenuto in quei contorni.
La fondazione del priorato di S. Benedetto è della seconda metà del secolo undecimo. E che sia di quel tempo, anche se non ci fosse documento alcuno, ce lo proverebbero gli stessi resti che ci rimangono.
Nell’agosto del 1088 Angilberto prete, figlio di Pietro abitante in Trezzo, e rettore della chiesa di S. Benedetto e Giselberto, figlio di Ariprando del luogo Colnago (Colonaco), professanti legge longobarda, donarono all’abbazia di S. Pietro Cluny quanto era di loro proprietà nel luogo di Porto Bolumbalo e suo territorio, e cioè 20 iugeri di terreno (ossia circa 240 pertiche) con gli annessi edifici e chiesa di S. Benedetto. (46)
L’atto fu rogato nel luogo stesso di Porto Bolumbalo, e certamente presso la chiesa della quale era rettore lo stesso Angilberto.

Che la donazione si riferisca al nostro S. Benedetto mi pare che non ci possa esser dubbio, non solo dal contesto, ma anche perché non vi è memoria nei dintorni di Trezzo, per largo raggio, di un altro priorato cluniacense sotto tal titolo.
Il documento è riportato da Santambrogio (47), ma non è l’originale andato perduto, bensì una copia del secolo XIII raccolta nel volume quarto delle carte di Cluny pubblicate in Francia dal ministero della Pubblica istruzione.
Strano tuttavia è il nome di Porto Balumbato, invece di questo di Portexana, Portexano, Portesana.
Orbene, Porto Balumbalo è il nome originario, primitivo del luogo oppure si tratta di un errore degli amanuensi? Io preponderei per questa seconda ipotesi: è noto infatti che i nomi dei villaggi spesso furono guasti da notai e copisti.
Se non forse all’estensore dell’originale stesso, l’errore deve verosimilmente attribuirsi al copista del secolo XIII, il quale avrebbe svisato, per imperizia o per smarrimento dell’inchiostro o qualsiasi altro guasto nella pergamena, il vero nome che doveva essere quello di Portexana o di altro nome similare.
Infatti nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, il quale è pure del secolo XIII, si ha « ecclesia sancti benedicti in monasterio de portexano ». Ce lo confermerebbe inoltre la stessa parlata volgare:
il popolo, conservatore per istinto, non cambia tanto facilmente i vecchi nomi di luogo.
D’altra parte i monaci successori non avevano alcuni interesse a notare nelle carte il vero nome proprio del luogo, se questo era veramente Porto Bolumbalo e non Portexana. (48)
Comunque sia, i documenti dei secoli successivi ci danno sempre Portexana, e non mai Porto Bolumbalo.
Com’è noto, osserva il Santambrogio, questi priorati cluniacensi, conosciuti altresì sotto il nome di Obbedienze, non furono in origine che semplici possessi agricoli dipendenti dall’Abbazia centrale dell’Ordine nei quali l’Abate mandava un numero limitato di religiosi che li amministrassero, rendendogliene poi conto. I monaci a ciò deputati, che in taluni casi, come per esempio a S. Benedetto di Portesana non oltrepassavano il paio, attendevano alla gestione dei fondi, disimpegnando nel tempo stesso le funzioni del loro rito, e spesso celebrando messe e amministrando i sacramenti ai villici dei dintorni come sacerdoti del clero secolare. Era loro cura nel tempo stesso di esercitare l’ospitalità a quanti la richiedevano in ricordanza della prescrizione cluniacense così espressa : « mensa abbatis cum hospitibus et peregrinis semper ».
Se non sempre era possibile o conveniente l’ospitalità, lo era sempre la carità verso i poveri e i pellegrini, specialmente con la distribuzione di viveri, come avveniva nel priorato cluniacense di Figina presso Villa Vergano. (49) Data poi la situazione del priorato di S. Benedetto i due monaci avranno, si può pensare, favorito i viandanti che si apprestavano ad attraversare l’Adda.
Benché dei primi due secoli nulla sappiamo delle sue vicende, le pergamene di S. Giacomo di Pontida ci forniscono qualche notizia durante i secoli XIV e XV.
Il priore di Portesana dipendeva da quello del monastero di Pontida. Ordinariamente veniva scelto fra i monaci dello stesso monastero, ed eletto in pieno capitolo. Vi prestava subito il giuramento dì fedeltà. Si recava poi alla sua residenza, ove d’ordinario aveva un monaco e un converso a convivere seco. Il documento del 1351, che riportiamo, ci fa conoscere con quale solennità veniva eletto e immesso al possesso.
La consistenza patrimoniale doveva essere ancora la primitiva se nel 1398, nell’estimo generale dei beni ecclesiastici milanesi, il nostro priorato fu gravato di sole lire 8 e soldi 10. Alquanto meglio provvista di beni era la non lontana casa degli Umiliati tassata in lire 9 e soldi 3.
Ho trovato memoria di quattro priori di S. Benedetto e suoi seguenti
1329 - Giacomo de Pessano.
In un atto del 22 luglio, nel monastero di Pontida, il priore Ottaviano de Cavalcabò eleggeva capitolarmente Giacomo de Cernusco, priore di Portesana, e il monaco Guglielmo de Cernusco, quali sindaci, attori e procuratori per esigere quanto spettava di diritto al monastero di Pontida, e da chiunque, dando loro ampio mandato di agire nell’interesse del monastero stesso.
…- Guglielmo de Cernusco.
1351-1391 - Leonardo de Trescorre.
Eletto il 21 febbraio 1351. Nel settembre del 1391 concedeva in affitto per tre anni a Petrolo Panizio, figlio di Zanolo di Trezzo, il molino sull’Adda, e alcuni campi a vigneto, prato e boschi nelle vicinanze del cenobio stesso.
1420 - Andreolo de Ziriolis.
Il 21 maggio 1420 affittava a Sozo de Levicis un appezzamento di terra in territorio di Trezzo. Con quale oculatezza sapevano i monaci affittare i loro beni lo si può desumere dal contratto riportato in appendice.
L’Andreolo fu probabilmente l’ultimo dei priori di S. Benedetto di Portesana: non ne ho trovato altri.
Sia per le accresciute fazioni guerresche tra veneti e milanesi, essendo l’Adda nel 1428 divenuta confine tra i due stati, e resasi pertanto assai precaria la vita ai due monaci e più difficili i rapporti col monastero di Pontida (la Valsanmartino era in prevalenza guelfa e perciò contraria ai Visconti) sia specialmente per la generale decadenza della vita monastica, rioni escluso il monastero di Pontida sia per altre ragioni, fatto sta che il priorato di S. Benedetto fù ridotto a beneficio semplice e concesso dai Sommi Pontefici in commenda prelatizia.
Sotto la sorveglianza del priore di S. Giacomo di Pontida stava pure il piccolo monastero di benedettine cluniacensi di S. Colombano in Arlate (pieve di Brivio). Eretto nella seconda metà del secolo XII, vi dimoravano di solito otto monache compresa la badessa. Poi scemarono di numero come avvenne in quasi tutti i monasteri nel secolo XV. Nel 1475, essendo morta la badessa e rimaste due sole monache, il papa Sisto IV con bolla del 26 aprile soppresse il monastero e lo riunì con tutti i suoi beni con quello dell’Annunciata di Milano, con l’obbligo che, a spese delle monache, vi fosse mantenuto un sacerdote cappellano ad officiare la chiesa di S. Colombano a servizio del popolo. (50)
Dei commendatari del priorato di S. Benedetto di Portesana trovo ricordato nel 1553 un lll.mo Rev.mo Ambrogio Casati, il quale nel 1564 veniva tassato in favore del Seminario milanese in lire 10, soldi 13 e denari 4 per il godimento dei beni del priorato. Negli atti di visita del padre Leonetto Clavofono del 1570 è detto semplice chierico e dell’età di 65 anni.
La chiesa fu visitata personalmente da S. Carlo nel settembre del 1566, e la trovò mal tenuta sotto ogni rapporto « in omnibus ».
Nel 1609, da una relazione dell’Ill.mo e Rev.mo Cesare Visconti, visitatore delegato da Federico Borromeo, si ha che la chiesa era lunga circa 41 cubiti e larga 15 e di una sol navata: conteneva un solo altare, con mensa lignea, appoggiato alla parete sulla quale stava dipinta l’immagine di Gesù Crocifisso con ai fianchi la Vergine e Maria Maddalena: affresco deteriorato per vetustà. (51). Non aveva icona. Cancelli di legno chiudevano il piccolo presbiterio.
La chiesa mancava del soffitto: soltanto sopra l’altare era coperta di assi, dalle cui fessure sgocciolava talora l’acqua frammista a immondizie, perché sopra quella parte del tetto s’innalzava un colombario per piccioni.
Era provvista di due porte: una sul frontespizio, e l’altra laterale, che immetteva nella casa colonica, presso la quale su di una pila pendeva una campanella.
Mancava la sagrestia: i paramenti si conservavano in chiesa in una cassa.
Davanti alla chiesa si stendeva una piazzetta, sulla quale i contadini facevano essicare il grano. Contigui alla chiesa stavano la casa canonica (l’antico piccolo chiostro) e gli annessi locali rustici con corte e un orticello di circa 12 tavole.
I fondi assommavano ancora presso a poco ai 20 iugeri primitivi:
non vi furono per il passato aumenti per lasciti o acquisti.
Commendatario era l’Ill.mo e Rev.mo Ambrogio Cavenaghi, il quale aveva ottenuto il beneficio per la rinuncia a lui fatta dal vescovo di Cremona, Cesare Speciano.
Sul priorato gravava l’onere di una messa feriale settimanale, onere che allora disimpegnava il prevosto di Trezzo coll’elemosina di annue lire 40.
Si tratta, nel complesso, di una misera chiesuola campestre, ma interessante dal lato costruttivo e per qualche fregio e simbolo sacro, scolpiti nel ceppo gentile, cose alle quali non aveva fatto caso il Visconti, il che del resto non era nel suo scopo.
Nella prima metà del settecento risulta commendatario Mons. Raimondo Ghislieri, morto il 13 dicembre 1751.
Ai primi dell’anno seguente il priorato era stato assegnato dalla Santa Sede al Rev.mo Carlo Cerri, ma non lo poté conseguire per gravi difficoltà insorte col governo dello Stato di Milano, essendo egli forestiero.
Vi subentrò il 26 maggio 1755 il conte Mons. Angelo Dormi, nipote del cardinale Francesco Dormi vescovo di Pavia.
I beni del priorato non rendevano gran che : i fondi non arrivavano alle settecento pertiche milanesi. Da una relazione del 25 giugno 1753 si hanno a vigna 133 pertiche, a campo 140, a boschi 405: beni situati in territorio di Trezzo, tranne 8 pertiche in quello di Colnago.
L’affitto che si ricavava era di lire 1200, oltre alcuni livelli e appendizi.
Il Durini ottenne più tardi anche la pingue commenda dell’abbazia di S. Dionigi; una prebenda prelatizia di oltre ottomila pertiche, la maggior parte situate nella Brianza, e il cui centro amministrativo era a Merate, nel castello dell’abbazia. (52)
Egli fu l’ultimo commendatario. La morte lo colse sul finir dell’aprile del 1796 nella sua villa di Balbiano sul lago di Como, appena in tempo per non vedersi privato violentemente delle sue rendite prelatizie.
Calava in quell’anno Napoleone Bonaparte a combattervi l’Austria e a farvi trionfare le idee della Rivoluzione francese. Il 15 maggio entrava vittorioso in Milano, e subito si incominciò a tutto cambiare, a tutto rifare alla francese, e specialmente ad arraffare denaro: tutti i mezzi erano buoni. Non sfuggirono alla soppressione e all’incameramento dei beni né i monasteri, né le commende, ecc. Sul finire di quell’anno sparvero il priorato di S. Benedetto e la commenda di S. Dionigi i cui possedimenti furono dall’amministrazione francese venduti a privati.
Come già il vetusto cenobio di S. Benedetto di Portesana, così l’antica chiesuola, sempre conservata dai commendatari, e in cui si celebrava una volta alla settimana, finì coll’essere ridotta in locali d’abitazione per contadini.


Pontida. - 21 febbraio 1351.

Collazione del priorato di S. Benedetto di Portesana a Leonardo da Trascorre, fatta da Guglielmo de Insula, priore di S. Maria di Calvenzano, quale procuratore di Ariberto priore di Pontida.

Die lune vigesimoprimo mensis februari Millesimo trecentesimo quinquagesimo primo. (In monesterio) sancti Iacobi de Pontida diocesis Pergami ordinis cluniecensis in palacio ipsius monesterii presentibus…viro domino Ambroxio priore monesterii sancti johannis de Verdemate diocesis Mediolani et Azzius de Puteo de Trescure priore monesterii sancti Egidi de Fonte ordinis cluniecensis et frate Benedicto dicti ordinis, Azzinus de Puteo de Trescure et frate Antonio de Trezo, conversus monesterii sancti Iacobi de Pontida religiosus vir dominus d. Guillielmus de lnsulla prior monesterii domine sancte Marie de Calvenzano diocesis Mediolani ordinis cluniecensis hac pro reverendo in Christo patre et domino domino Abate cluniecensis in provincia lombarda et totius dicti ordinis vicarium generallem et procuratorem et noncium specialem ad hec et ad allia facienda reverendi viri domini Ariberti Aycellini prior mayoris dicti monesterii de Pontida et capitoli et conventi eiusdem per cartulam rogatam per Landulfum de Burlando notariurn die vigesimo mensis junii millesimo trecentesimo quatragesimo nono ut ibi videtur constitutum per nobillem virum dominum Bertanum Armandi procuratorem et noncium specialem dicti reverendi viri domini Ariberti Aycellini prioris dicti monesterii de Pontida ad infrascripta et ad alia facienda ut constat in predicto instrumento rogato per Simonem Trezenum clericum pubblicum imperiali auctoritate notarium die vigesimo mensis aprilis millesimo trecentesimo quatragesimo nono, et religiosi viri domini d. Raynaldi de Argono prioris monesterii sancti Paulii diocesis Pergami ordinis cluniecensis ac pro reverendo in Christo patre et domino domino abbate cluniecensi in provincia lombarda et totius ordinis cluniecensis vicarium generallem et omni nodo et jure quibus melius possunt contulit et conferuit religioso et discreto viro domino Leonardo de Zanis de Trescure monacho dicti monesterii de Pontida prioratum sancti Benedicti de Portesana diocesis Mediolani dicti ordinis cluniecensis in mediante et pleno jure subiectum et non liberum prefati monesterii de Pontida nuper Vachantem per mortem D. Guillielmi de Zernuscho ultimi prioris dicti prioratus, cum omnibus suis jure et pertinentiis in integrum investitus eidem per librum qui suis tenebat manibus de eisdem cum suprascriptis, dominus Leonardus juravit in manibus suprascriptorum dominorum vicario nomine prefati domini prioris rector quod perpetuo erit fidelis et obediens predicto domino priori et eius successoribus canonice intrantibus, bonaque vero prioratus non alienabit nec pignorabit, non allio modo destruet sed ea omnia conservabit et guardabit et manutenebit et molendina ac domos propter gueram destructa reparabit, ac in dicto prioratu continuam residentiam faciet et mansionem faciet, promisitque a presenti cum eo tenebit unum monachum in suum socium et cum fratre cum victu et vestuto providebit secundum consuetudinem dicti monesterii de Pontida. Postea vero incontinenti in suprascripto loco et in presentia suprascriptorum testium suprascriptis dominis vicario et procuratoribus ut supra suprascripto modo et nomine fecerunt et faciunt dominum d. Hugini Portoli monachum dicti monesterii de Pontida suum missum actorem et procuratorem et legiptimum deffensorem et noncium specialem et sindicum ad ponendum et inducendum suprascriptum dominum d. Leonardum de Zanis de Trescure monachum dicti monesterii de Pontida in corporallem tenutam et possessionem prioratus monesterii sancti Benedicti de Portesana subiectam dicti monesterii de Pontida cum omnibus suis iuribus et pertinentiis ceteraque peragendum quae in predictis et circha predicta fuerint opportuna permittens et cavens dicto modo et nomine sub obligatione omnium bonorum et rerum dicti rnonesterii et capituli et conventi eiusdem in manu presentia mey infrascripti notarii postulantis et recipientis nomine et vice cuiusque vel quorum interest vel interesse possit aut interesserit ratum et gratum haberi et teneri et indicatum solvi et indicio sisti in omnibus et singulis suprascriptis et aliis quibuscumque suis clausulis sub eodem obligatione suprascripto modo et nomine fide constituens in premissis suprascriptis pro suprascripto sindico et procuratore suo semet omnia sua iura dicto modo et nomine renontiat in premissis non revocando per suprascripta alios suos sindicos et procuratores non gesta per eos set eos et gesta per eos pocius confirmans.

S.T. Ego Mafeus Rogerìus de Bullis de Mapello notarius interfui et rogatos scripsi.

Die vigesimosecundo mensis februari millesimo trecentesimo quinquagesimo primo, indictione quarta. In monesterio sancti Benedicti de Portesana diocesis Mediolani ordinis cluniecensis presentibus testibus domino Iohanne filius domini Alberti dicti Nigri Buro de Trecio et Baldesario filius condam Alberici qui dicitur Tanaza subter Buro et domino Giorgio de Zanis de Trescure monachus monesterii sancti Iacobi de Pontida et Iohanne filius condam domini Guiscardi de Zanis de Trescure et Nicolle qui dicitur Thous filius condam Lioni de Maleo sive de vavasoribus de Mediolacho et Fredus filius condam…de Dominicis de Portu Molinario. Ibi dominus d. Hugo Portoli monachus monesterii sancti Iacobi de Pontida diocesis Pergami cluniecensis ordinis, nomine et vice religiosi viri domini d. Guillielmi de Lilla (lnsula) prioris monesterii sancte Marie de Calvenzano diocesis Mediolani ordinis cluniecensis ac pro reverendo in Christo patre et domino abbate cluniecensem totius dicti ordinis cluniecensis in provincia lombarda vicarius generallem, nec non reverendo viri domini Ariberti Aycellini prior mayor dicti monesterii de Pontida noncium et procuratorem et dicti monesterii capituli et conventi eiusdem ad infra et allia faciens ut constat in presentaneo instrumento, rogato per Landulfum de Burlando notario die vigesimo mensis junii millesimo trecentesimo quatragesimo nono, ut ibi dicitur et religiosi viri domini d. Raynaldi de Argono prior mayoris monesterii sancti Paulli diocesis Pergami ordinis cluniecensis ac pro reverendo in Christo patre et domino domino Abbati cluniecensi totius dicti ordìnis cluniecensis in provincia lombarda vicarius generallem, prius visis litteris prioratus monesterii sancti Benedicti de Portesana quarum litterarum tenor taliter est. Recure in suprascripta tertia cartula (…) hobedire mandatis dictorum dominorum vicario dicto nomine. Induxit et imposuit dominum d. Leonardum de Zanis de Trescure monachum dicti monesterii de Pontida in corporallem tenutam et possessionem prioratus monesterii sancti Benedicti de Portesana diocesis Mediolani ordinis cluniecensis et jure et pertinentis eiusdem ducendo eum in circha ipsum monesterium de Portesana et dandi sibi de terra in gremio dicte ecclesie dicti monesterii et ponendo manum supra cornu altaris dicte ecclesie, ac ipsum ducendo per allias domos aperiendo et claudendo ostia dicti monesterii. Et hoc fecit suprascriptus dominus d. Hugonus suprascripto nomine secundum consuetudinem et iure dicti monesterii de Pontida. Rogationi suprascripti instrumenta interfuit pro secundo notario Bertolinus Iohannes de Turzenis notarius qui se subter scribere debuit.

S. T. - Ego Mafeus Rogerius de Bullis de Mapello notarius interfui et rogatus scripsi.

S. T. - Ego Bertolinus Iohannes de Turcenis notarius publicus Pergami predictis interfui pro secondo notario et ad confirmandum me subscripsi.

Portesana. - 21 maggio 1420.


Il priore di S. Benedetto in Portesana cede in affitto a Sozo de Levicis di Trezzo un appezzamento di terra nel territorio di Trezzo nel luogo detto alla cava de Amigijs.

In nomine domini. Anno a nativitate eiusdem millesimo quadrigentesimo vigesimo, indictione tertiadecima, die martis vigesimo primo mensis madii. Venerabilis vir dominus dominus Andriolus de Ziniolis prior monestenii sancti Benedicti de Portesana mediolanensis diocesis suo nomine proprio, et item nomine et vice et ad partem et utilitatem totius capituli et conventus predicti monesterii pro quibus capitulo et conventu ipse dominus prior promisit et promittit obligando se et omnia sua bona presentia et futura pignori infrascripto Sozo de Levicis presenti stipulanti et recipienti, de rato habendo et faciendo et curando cum effectu quod habebunt et tenebunt hoc instrumentum investiture et omnia et singola in eo contenta, ratum et firmum, et rata et firma, et nullo tempore contravenerint nec contrafacient, et qui dominus prior representat totum et integrum capitulum et conventum dicti monesterii prout ibidem dixit et protestatus fuit et dicit et protestatur, habitante in Castro dicte terre plebis Pontiroli ducatus Mediolani, investivit nomine locationis et ficti ad benefaciendum meliorandum et non pezorandum, Sozum de Levicis filium quondam Bertoni habitantem in suprascripto castro veteris Trecii presentem et sub investiture donnatione de pecia una terre onice cum ripa una et cum terris roncheris simul se tenentibus, initium in territorio Burgi de Turo (Trezzo) ubi dicitur ad cavam de Amigijs. Quibus omnibus coheret a duabus partibus strata, ab alia cava, et ab alia similiter strata Provinxii de Turo et in parte Amessium, et sunt pertice duodecim vel circa. Salvo semper et reservato quod si erratum foret in coherentiis, vel in numero perticarum quod propterea non novit verum nec veris coherentiis, sed semper fuerit et fieri debeat veritati et veris coherentiis. Eo tenore quod a festo sancti Martini proxime preterito in antea inita, usque ad annos sex proxime futuros, et deinde in antea donec usque parti placuerit predictus Sozus conductor habeat et teneat ac habens locationis titulo gaudeat et possideat predicta bona locata ut supra cum omnibus suis juribus et pertinentiis, et de eis fruat quicquid voluerit sine contradictione suprascripti ordinis et prioris suo et dicto nomine locatoris suorumque successorum et cuiuslilet alterius persone meliorando semper et non pezorando dando solvendo, et dare et solvere teneatur et debeat et promisit et convenit soprascriptus Sozus conductor domino priori suo et dicto nomine locatori pro ficto et nomine ficti dictorum bonorum locatorum ut supra, pro primo anno fruituro in festo sancti Martini proxime futuro solidos vigintiquatuor imperiales denariorum bonorom monete Mediolani curentis, et pro stabilibus tercio et quarto annis, omni anno ipsorum trium annorum florinum unum auri de locis soldorum triginta duorom imperialium predicte monete Mediolani curentis. Et pro aliis duobus ultimis annis libras duas imperiales dicte monete pro quolibet anno ipsorum duorum annorum. Solvendo in fine cuiuslibet anni, cum omnibus expensis dampnis et interesse quae fient et incurrent seu prestentur pro predicto ficto petendo habendo exigendo et consignando vel ab alio mutuo recuperando quolibet termino solvendo pro predicto termino cuius acto dicto pacto specialiter inter eos contrahentes suis et dicto nominibus specialiter apposito statuto et ordinato in principio medio et fine huius instrumenti et per totum ipsum instrumentum et in qualibet parte ipsius ìnstrumenti, videlìcet quod dictos Sozus conductor suis expensis teneatur et debeat spaziare et ordinare buschum quod est in dictis locis locatis ut supra, et hoc sub omni dampno et interesse quod exinde partitur et sequi possint. Item pacto apposito ut supra videlicet quod finita hac locatione dictus Sozus conductor teneatur et debeat et promisit et connovit tradere dimittere et relaxare dicto domino priori locatori vacuam et expeditam possessionem et tenutam dictorum bonorum locatorum ut supra et a nemine occupatum, etiam sine contradictione alicuius alterius persone omnibus suis propriis expensis dampnis et interesse similiter. Et pro predictis omnibus et singulis ut supra incipitur servani adimplendis attendentis observandis et solvendis per suprascriptum conductorem, ipse Sozus conductor promisit et vadiam dedit et se et omnia sua bona, et ea quae non cadent in obbigatione generali, et supplictilia domus presentia et futura pignore obligavit suprascripto domino priori suo et dicto nomine locatori pro ut stipulanti et recipienti. Recreandi ipsi contrahentes et uterque eorum exemptioni non factae huius investiture sic et taliter ut supra, et dominus Sozus conductor non debendi dicta ficta ut supra, et predictorum et infradictorum omnium et singulorum non ignet taliter actorum et factorum et cum omni probatione et deffensioni in contrarium. Et pro predictis suprascriptis Sozus conductor consensit se tenere et possidere vel quasi omnnia sua bona mobilia et immobilia res et iura presentia et futura nomine suprascripti domini prioris suo et dicto nomine locatoris et pro eo. Item quod advente casu petendi possit et ei liceat et licitum sit sua propria auctoritate, et sine auctoritate alicuius iudicis et sine servitore banno et nuntio comunis Mediolani et cuiuslibet alterius comunis, et cum eis ubique accipere et robare contristare…
sepistrare occupare capere et destruere. In possessionem intrare vendere et allienare, et in solutum occupare et retinere de bonis et rebus suprascriptis conductoris et heredum usque ad plenam et completam solutionem et satisfactionem omnium predictiorum et totius eius quod hahere debuerit, et omnium expensarum dampnorum et interesse renunciado omni satisfactioni et deffensioni quam provide facere posset. Actum in suprascripto castro veteri Trecii, sub portichu domus habitationis Filippini Jsolani presente pronotario Augustino Manchagno filio condam Ambrocii habitante in supradicto castro veteri Trecii Mediolani notario et pronotario. Interfuerunt ibi teste Francischinus de Federicis filius condam Fedrigoli, Bertolinus de Filago filius condam Beltrami, et Petros de Peruziis filitis condam Gasparri omnes habitantes in suprascripto Castro Veteri Trecii, omnes jdonei rogati et vocali.

S. T. - Ego Bonomus de Verderio filius Antonii habitantis in Burgo Trecii plebis Pontiroli ducatus Mediolani notarius publicus rogatus tradidi scripsi et subscripsi.