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Sac. Cav. Rinaldo Beretta

ROBBIANO BRIANZA. Notizie storiche

PREMESSA

Una storia di Robbiano? Il paesello non è da tanto perché non ebbe mai avvenimenti d'importanza. Si tratta semplicemente di una raccolta di notizie, cronologicamente disposte, riguardanti il luogo e la parrocchia.

Le memorie della propria terra natale o di adozione, per quanto minute e per sè stesse di piccolo conto, non mancano di destare qualche interesse e di riuscire talora istruttive.

Leggendo, o cari robbianesi, le origini e le vicende della vostra chiesa, delle divozioni e delle feste, un memore pensiero di preghiera dica a Dio la vostra riconoscenza per i parroci ed i sacerdoti che furono o che sono tra di voi facendovi del bene.

Questo è lo scopo principale della presente pubblicazione.

Robbiano di Giussano 1935 SAC. RINALDO BERETTA


PARTE PRIMA

CAPO I

Robbiano e le sue alture moreniche - Popolazioni preistoriche - Gli Orobii -Probabile origine di Robbiano - Pavimento a mosaico di una villa romana


Se dalla pianura ci portiamo verso i monti, le prime alture che incontriamo sono delle colline, più o meno alte, e disposte ad ampi semicerchi concentrici, convessi verso il piano ed aperti verso le montagne in corrispondenza di qualche importante valle alpina.
Il terreno di queste colline, e questo lo si può verificare là dove è messo a nudo da tagli naturali od artificiali, invece di presentarsi in depositi più o meno orizzontalmente stratificati, si mostra disposto in caotico disordine, e fra il terriccio e i ciottoli appaiono frammenti rocciosi di varie qualità e dimensioni: frammenti non del luogo, ma di rocce alpine, e talora in massi enormi detti trovanti, come ad esempio quello di serpentino scisto lungo la strada che da Fabbrica Durini conduce alla cascina Mirovano e che qualche lettore ricorderà di aver visto, e che in minori dimensioni, specialmente di serizzo ghiandone, si possono osservare ad ogni passo nei muri a secco delle nostre strade campestri.
Il fatto ci dice che dai depositi fluviali del piano si è passati a quelli morenici, cioè a quei speciali depositi che furono accumulati durante l'epoca glaciale da grandiosi ghiacciai: questi, occupando le maggiori valli delle alpi, giunsero colla loro fronte sino alla pianura, scaricandovi in diversi lunghissimi periodi una enorme quantità di materiale detto morenico, stato trasportato sul dorso e nell'interno di quelle immense masse ghiacciate scendenti dalle regioni interne delle alpi, convogliando così in vario modo quel detrito roccioso che cadeva man mano dai due fianchi delle rispettive vallate alpine, e che poi abbandonarono durante il cammino della loro ritirata.
Tale grandioso fenomeno, che finì col modellarci l'attuale paesaggio, si svolse nella prima parte dell'era neozoica o quaternaria, ultima nella storia della terra in rapporto alla comparsa dell'uomo, mentre nell'era antecedente la pianura padana non era che un gran golfo del mare Adriatico inarcantesi fino al Piemonte, e che nelle nostre parti spingeva le sue onde, lungo quella che fu poi la valle del Lambro, sino alle Fornaci di Briosco, come ce lo provano i fossili pliocenici rinvenuti al disotto degli strati più profondi del ceppo calcareo alle grotte di Realdino, all'orrido di Inverigo, a Verano quando si è scavato il pozzo dell'acquedotto comunale (1).
Per quello che ci riguarda da vicino diremo che per quattro volte, asseriscono i geologi, i ghiacciai dello Spluga e della Valtellina, come dappertutto allora nell'emisfero boreale, lasciarono i loro recessi e, fondendosi in una massa unica lungo il cammino, scesero verso la pianura coprendo la nostra Brianza. Quell'immensa fiumana di ghiaccio, nei momenti delle sue grandi espansioni, raggiunse in altezza lo spessore di 1200-1300 metri e più, come ce ne fanno fede i massi erratici tolti alle alpi e lasciati sui nostri monti (S.Primo, ecc.), vere pietre miliari, che segnarono e segnano il cammino della sue invasione e della sua ritirata.
Le alture moreniche di Carate, Verano, Robbiano, Giussano appartengono alla terza glaciazione, mentre alla quarta fase glaciale spettano quelle successive di Romanò, Arosio, Inverigo, perché al disotto della terra fertile a coltivo non vi è in esse segno di ferrettizzazione; i ciottoli e i frammenti rocciosi che già sfatti, qui sono intatti e manifestano le striature del ghiacciaio.
Il diverso stato di conservazione dei terreni, quindi, è indice dell'età della morena.
Si noti che in ogni fase glaciale, mentre a monte la precipitazione atmosferica si manifestava sotto formazione di neve ed alimentava il ghiacciaio, a valle e nella pianura pioveva in modo eccezionale, così che i fiumi ed i torrenti trasportavano abbondante materiale. Inoltre dallo stesso ghiacciaio uscivano acque vorticose con copiosa rapina che deponeva sotto forma di coni di deiezione. Questo materiale formò dei terreni depositati fuori della cerchia morenica chiamati dai geologi diluvium o terreni diluviali: essi a diversità delle morene presentano una distribuzione alluvionale, e procedendo dal piano al monte, prima li troviamo formati a banchi di limo, poi di sabbia, indi di ghiaia e ciottoli.
Depositi diluviali della terza glaciazione sono i terreni leggermente inclinati a mezzodì sui quali sorgono, ad esempio, Sovico, Macherio, Paina, Seregno.
Le quattro glaciazioni furono tra loro separate da lunghe fasi dette interglaciali, le quali corrispondono ad altrettante ritirate del ghiacciaio, e che venivano provocate dal clima il quale s'era fatto meno rigido. Questi lunghi intervalli diedero, tra l'altro, origine ai terrazzi. Obbligati i ghiacciai dal cambiamento di clima a sciogliersi, le acque si aprivano la strada verso il piano nelle morene di fronte, ed i fiumi e i torrenti così formati, dopo di avere innalzato un po' i depositi diluviali, finivano a raccogliersi in un solco o letto terrazzando le loro alluvioni. Di queste gradinate o terrazzi da noi se ne possono osservare lungo la valle del Lambro.
Robbiano (Robiano o Rubiano scrivevano i nostri vecchi), co' suoi sparsi cascinali, si adagia appunto sulle prime alture moreniche che s'innalzano a nord della vasta ed ubertosa pianura lombarda. Oggi è una grossa frazione del comune di Giussano, all'estremo limite della provincia di Milano con quella di Como, ma fino al 1870 fu comune a sé, ed aveva un'estensione territoriale di 2274 pertiche. Fu con regio decreto del 9 febbraio 1869 che il comune di Robbiano fu aggregato a quello di Giussano (2).
La sua giurisdizione parrocchiale invece si estende, da tempi antichi, a più larghi confini, comprendendo una piccola parte di territorio dell'attuale comune di Verano. La popolazione della parrocchia, buona e laboriosa, conta poco più di 1500 abitanti, i quali ricavano il loro sostentamento, oltre che dai fertili e ben coltivati campi, dagli opifici della vicina valle del Lambro e dei dintorni. In Robbiano due soli ne sorgono: un setificio nel centro del paese, ed una filatura di cotone sulle sponde del Lambro eretta nel 1898 là dove sorgeva l'antico mulino Crivelli.
Il nostro paesello, coll'avvento del regime fascista, dopo la guerra del 1915-18, pur conservando molto dell'antica fisionomia, non rimase indifferente al soffio del progresso, poiché il piccolo nucleo centrale andò abbellendosi di qualche nuova casa, dotata di luce elettrica e di acqua potabile. Non manca una Cooperativa di Consumo eretta nel 1909 (3).
Discretamente curata vi è l'istruzione popolare. Oltre le scuole comunali (dalla prima alla quarta elementare), abbiamo un asilo infantile fondato del 1898 dalla pia e benemerita signora Teresa Razunz e diretto dalle Suore di Maria Bambina, le quali tengono pure una scuola di cucito per le ragazze.


Robbiano

Chi abitò le nostre terre nei tempi preistorici? Che la Brianza fosse abitata fin da remotissimi tempi non c'è dubbio. Tuttavia non sembra che i primi abitatori dell'Europa alla fine ed immediatamente dopo l'epoca glaciale, e cioè i contemporanei del mammuth, dell'orso delle caverne e della renna, siano giunti nelle nostre parti. Ad ogni modo non si sono trovate tracce del loro soggiorno. Probabilmente la presenza del ghiacciaio, e i terreni caotici delle morene e quelli alluvionali del piano, ancora desolati e quasi privi di vegetazione subito dopo la sua ritirata, rendevano allora inabitabile la nostra plaga.
Solamente nell'età della pietra levigata, o neolitica, come dicono gli archeologi, ossia circa 4000 anni prima della venuta di G. Cristo o dell'era volgare, la Brianza ebbe i suoi primi abitanti. Di famiglie neolitiche, dedite più che altro alla caccia, e le cui armi ed utensili d'uso erano formati colla pietra, ci parlano le rozze armi di pietra (cuspidi di frecce) scoperte in qualche località della Brianza (Buco del Piombo, Torbiera di Bosisio). La presenza di queste popolazioni primitive anche nei nostri dintorni ci sarebbe attestata dalle scodelle incise nel serpentino scoperte a Carate Brianza nella valletta Brovera, le quali tolte dal masso furono depositate nel museo archeologico del Castello Sforzesco di Milano. Ma altre, pure incise su masso erratico serpentino affiorante dal suolo, ne constatammo anni sono io e l'ing. Mascherpa, che fu un appassionato e intelligente raccoglitore di antichità, presso la cascina Peschiera in comune di Carate Brianza. Fra le molte ipotesi, formulate dagli studiosi intorno al significato di questi segni che si vuole rimontino al neolitico, forse la più verosimile sembra quella che voglia quei massi cupelliformi non altro che delle pietre sacre in venerazione dei defunti, e cioè una specie di monumenti funebri. È noto che il culto dei morti è antico quanto è antico l'uomo.
Susseguentemente altre genti di civiltà più avanzata e che conoscevano l'uso del bronzo giunsero in Italia e quindi anche nella Brianza, sovrapponendosi alle preesistenti, nell'età del bronzo, che rimonta presso a poco al secondo millennio avanti l'era volgare. Sono i così detti palafitticoli, perchè abitavano presso le sponde dei nostri laghi briantini in capanne erette con pali infissi ed emergenti dall'acqua, non molto lungi dalle sponde. Resti di palafitte, con oggetti di silice e di bronzo, furono rinvenute a Montorfano, a Bosisio, ad Oggiono.
Altre popolazioni succedevano quindi nell'età del ferro, mescolandosi alle precedenti, con civiltà ancor più sviluppata in quanto usavano il ferro, e cioè i così detti Liguri, benché il nome sia ancora incerto, nel primo periodo che va dal 1000 al 400 avanti l'era volgare (tombe di Orsenigo, Mariano, Cantù, Longone, Buccinigo, Montorfano), e i Gallo-Celti nel secondo periodo dal 400 in poi.
È al principio del IV secolo che storicamente si compivano le grandi immigrazioni galliche, avanzantesi nel 390 fino contro Roma e apportatrici di una nuova civiltà loro particolare. Era un amalgama di diverse tribù. I Galli che si stanziarono nella nostra regione, finirono coll'essere vinti dalle legioni romane, e a fondersi colla civiltà romana. La regione briantina è rappresentata da necropoli galliche e gallo-romane a Casatenovo, Capiago, Soldo, Montorfano, Meda, Costa Masnaga, Caslino.
Naturalmente il trapasso tra queste diverse età o forme di civiltà nella nostra regione non avvenne, come è ovvio, con un reciso distacco, ma con periodi di transizione così che nei primi tempi in cui si usò il bronzo si continuò pure ad usare oggetti di pietra benché più finemente lavorati (detto perciò eneolitico), e così pure si dica del trapasso dall'età del bronzo a quella del ferro. La storia di queste popolazioni, in mancanza di testimonianze scritte, è impressa nei loro oggetti d'uso, nei resti delle loro abitazioni, nelle loro tombe, nei residui insomma della loro vita vissuta; residui coperti dalle acque o nascosti in seno alla terra.
Della civiltà etrusca, anteriore alla gallica, nulla finora si è trovato in Brianza. Errata è l'asserzione del prof. Galli che a Carate Brianza si sia scoperta nel 1834 una iscrizione etrusca: egli confuse Carate Brianza con Carate Lario (4).
Questo, in breve, ci afferma l'archeologia allo stato presente delle scoperte.

Gli storici briantini d'una volta, scrivendo delle antichissime genti dell'amena nostra regione, le chiamavano senz'altro Orobii (od Orumbovi, come si legge in talune edizioni dell'Historia Naturalis di Plinio il Vecchio), i quali avrebbero legato il loro nome a parecchi paesi (Introbbio, Monte Orobio, Robbiate, ecc.), e tra questi al nostro Robbiano. Essi si fondano su un passo di Plinio, il quale nel libro terzo della sua Storia Naturale scrive: " È autore Catone che Como, Bergamo, Licinoforo (5) ed alcuni altri popoli circostanti sono della schiatta degli Orobii, ma dei quali confessa d'ignorarne l'origine, mentre Cornelio Alessandro insegna derivata dalla Grecia, anche sulla fede del nome greco, che suona vivente nei monti ".
Perciò mentre Catone confessava di non conoscere l'origine degli Orobii, Cornelio Alessandro, un grammatico fiorito ai tempi di Silla, non si peritò di affermarlo originario dalla Grecia, basandosi sul significato del nome. Ma l'asserzione di C. Alessandro non merita fede, sia perché è uno scrittore favoloso al dire di Plutarco, di Servio e dello stesso Plinio, sia perché l'archeologia nulla ci ha rivelato in merito. Non deve d'altra parte recar meraviglia il nome greco, perché quei grammatici corruttori della nostra storia, chiamarono con simili nomi altri popoli che coi greci nulla avevano a che fare. Così, per esempio, i Trogloditi (gli abitanti delle caverne), i Leponzi (i rimasti) ecc.: taluni di questi nomi servirono poi a denominare parti della catena delle Alpi, come una parte delle nostre Prealpi furono dette Orobiche.
Cadrebbe pertanto anche l'asserzione sostenuta dal prof. Giambelli, il quale volle far provenire gli Orobii dall'Eubea, facendo derivare il nome non già da orobios: abitatore di monti, ma da orobos, dimin. orobion: orobo, legume del genere della veccia, molto coltivato nell'Eubea (6).
Altri pensarono che gli Orobii fossero un popolo antichissimo di origine celtica, e che il nome sia giunto sino a Catone attraverso svisate tradizioni. Ma nemmeno questo si può oggi scientificamente sostenere, perché allo stato presente delle scoperte archeologiche il nome generico di Orobii rimane etnograficamente senza contenuto, in quanto che nulla di specifico si è trovato che lo riguardi così da poterlo individuare.
Delle popolazioni vissute nella nostra Brianza prima della grande immigrazione gallica non si conosce ancora con sicurezza il loro nome, e nemmeno quindi si può dire se vi corrisponda qualcuno fra quelli primitivi tramandatici dagli antichi scrittori.
Se non che, come opinano il Flecchia ed altri dopo di lui, i nomi di località grandi e piccole colla desinenza -ano (dal latino ianum) dell'Italia superiore segnano, in generale, la loro derivazione da un gentilizio romano, e perciò da ville o poderi di quelle famiglie. Robbiano (Robiano, Rubiano) potrebbe quindi derivare dal romano Rubius (7). Il Muratori trascrisse un'epigrafe cristiana del 527 o 528, trovata in Roma nella chiesa di S. Martino in Monti, nella quale si ricorda un veterano chiamato " Robianus ", morto nell'età di 55 anni (8).
Memorie della dimora di famiglie romane nei nostri dintorni non mancano, come, per esempio, ad Agliate, Carate, Verano, Valle Guidino, Bigoncio, Briosco, Mariano, ecc. È noto poi come particolarmente nel IV secolo questi nostri ameni luoghi, non molto lontani da Milano, città ricca e popolosa, al dir di Ausonio, e nella quale venivano risiedendo gli imperatori romani e gli alti magistrati, fossero frequentati da ricchi e colti milanesi. È più che verosimile, pur prescindendo dalla colonna miliare romana conservata nella basilica di Agliate la quale probabilmente fu colà trasportata da lontano quando si eresse la chiesa (9), che una strada romana proveniente dal centro della Brianza, per Agliate, attraverso un ponte, mettesse oltre il Lambro, proseguendo da una parte per Carate verso Monza e Milano, e dall'altra verso Como toccando Verano, Robbiano, Giussano, Mariano, Galliano, tutti nomi di origine romana o romanizzati.
Appartenenti ad una villa romana, ai suoi giorni certamente splendida, si ritengono comunemente gli avanzi scoperti nel sottosuolo di Robbiano. L'Amoretti fu il primo, ch'io sappia, che ce ne lasciò notizia. Parlando della lapide di Veraciliano, che dice trovata nel distrutto castello di Agliate insieme a qualche altro pezzo antico e a varie monete di bronzo e di argento romane e medioevali, soggiunge che a Robbiano " negli scorsi mesi furono dissotterrati alcuni pavimenti a mosaico, e altri avanzi di romana costruzione, intorno ai quali le ulteriori ricerche somministreranno senza dubbio maggiori lumi " (10).
Più tardi il Redaelli (citando l'Amoretti, il Genio Letterario di Europa to. XV, ed altri) scriveva: " Fu pure negli ultimi anni dello scorso secolo che a Robbiano, in un campo che sorge alquanto sopra gli altri fra la chiesa e parte dell'abitato, si rinvennero dei ruderi alla distanza di 500 passi gli uni dagli altri, e si reputarono questi gli avanzi di una villa romana. In un altro campo poi distante dalla chiesa 200 passi si scoprì in quel torno di anni un sepolcro in cui scendevasi a chiocciola. Era costrutto di grossi mattoni, ed in un'urna che vi giaceva trovossi, oltre le ossa, una moneta che andò smarrita. In seguito, poco lungi, molte urne di serizzo si sono rinvenute, e finalmente degli avanzi di mosaico, e molti altri ruderi che il caso offre furono colà riconosciuti " (11).
Il 10 febbraio 1888 venne eseguito, per ordine ministeriale, un sopraluogo dal consigliere di prefettura cav. Luigi Zerbi, dall'architetto Luca Beltrami e dal sac. Vitaliano Rossi ispettore degli scavi e monumenti del circondano di Monza. Nella relazione lasciata dal Rossi si dice che " dopo vari assaggi, emerse il pavimento a mosaico di un'ampia sala, il cui lato occidentale misurava metri 9.20. Due liste di cubetti neri, includenti una di bianchi, formano la fascia di precinzione discretamente conservata, e nell'angolo nord-ovest quasi intatta. Il campo centrale, composto di piccole pietre di vario colore e disposte irregolarmente, ha la sola ornamentazione di dadi neri disposti a regolari intervalli. Il sottosuolo è un conglomerato di calce, piccoli ciottoli e frammenti di laterizio. Non si poté constatare la completa riquadratura della camera per la rottura che il mosaico presenta verso levante, causata da una strada aperta una cinquantina d'anni sono fra la via e la chiesa; ma la continuazione dei pavimenti a mosaico, sempre allo stesso livello di un mezzo metro di profondità, fu riscontrata dalla Commissione al di là della strada per l'estensione di oltre trentacinque metri verso levante.
Una disposizione interessante che fu rilevata è quella di un sottofondo in calce e mattone pesto portante le impronte del marmo che componeva il pavimento: tali impronte hanno una forma quadrata di 24 cm. circa per lato e una profondità variabile e irregolare a seconda dei pezzi di pavimento che le hanno formate e di cui rimasero dei frammenti attaccati al calcestruzzo ". E in nota aggiunge che i frammenti, comunicati al prof. Angelo Pavesi, vennero riconosciuti di pietra calcare; i due materiali che compongono le fasce del pavimento a mosaico sono il nero di Varenna e il bianco di maiolica (12).


Pavimento romano a mosaico

La parte superstite di questa sala la si può tuttora vedere nell'appezzamento di campo tutto isolato da strade, e che sta immediatamente di fronte alla casa, già villa Forlanelli, ora delle Suore di Maria Bambina. E non solamente altri avanzi di mosaico si trovano nel campo a levante al di là della strada, come ebbe a constatare la Commissione, ma se ne rinvennero ben anche ad ovest nel 1898 in occasione di scavi per costruzioni edili. Come si vede si tratta di avanzi di non piccola estensione, che però i contadini vanno man mano distruggendo per dare maggior fondo alla terra coltivata. I pezzi di mosaico finora scoperti sono tutti dello stesso tipo.
Composti di bianche pietruzze, incastrate in calce fortissima e ben compresse da formare un pavimento levigatissimo, hanno la semplice ornamentazione rettangolare di dadi neri a distanze e dimensioni eguali di 12 cm. per lato. Una fascia ornamentale, a linee parallele di dadi più piccoli, corre intorno all'estremità, suddividentesi in tre liste, ciascuna delle quali della larghezza di 6 cm.: la linea di mezzo è di dadi o cubetti bianchi, le altre due di nero. Sembra un lavoro che i Romani chiamavano opus tesellatum e che non ammetteva nelle pietre, geometricamente tagliate, più di due o tre colori.
Del sepolcro, scoperto duecento passi lontano dalla chiesa parrocchiale, nel quale scendevasi per una scala a chiocciola, e delle urne di serizzo non rimase traccia: tutto andò distrutto o disperso. Sappiamo che il marchese Lodovico Trotti raccoglieva cose antiche nella sua villa di Verano, e che, lui morto nel 1837, suo figlio ritenendo di nessun valore quelle anticaglie le usò come materiale di costruzione specialmente per il muro di cinta del giardino. Quando il Mommsen venne in Italia per raccogliere le iscrizioni latine della Gallia Cisalpina, saputo della fine di quelle antichità, voleva che si atterrasse quel muro per ricuperarle. Potrebbe darsi che in quel muro, con altri resti, siano andati a finire anche quelli provenienti da Robbiano. Ho potuto tuttavia raccogliere una antefisa, trovata anni sono nell'allargamento della strada tra il campo e la fronte della casa ora delle Suore, un'ara romana anepigrafa di serizzo che giaceva abbandonata nel giardino parrocchiale, e alcune chiavi medioevali, le quali cose, a mezzo del prof. Pompeo Castelfranco, donai al Museo archeologico di Milano. Nel giardino parrocchiale vi rimane una piccola urna di serizzo in parte guasta, lunga 40 cm. alta 17 e larga 30: si rinvenne nel demolire un muro della chiesa nel 1902. L'archeologo dott. Antonio Magni, il quale l'ebbe a vedere, mi disse trattarsi probabilmente di un'urna medioevale nella quale si deponevano reliquie di santi sotto l'altare. L'estensione dei pavimenti a mosaico prova che grande doveva essere quella villa romana. Sotto i Romani la villa, che si divideva in urbana e rustica, era il centro della tenuta, più o meno vasta, coltivata a campi, a vigne, a prati e a boschi. La parte urbana comprendeva l'abitazione del padrone, e, a seconda della ricchezza del proprietario, i diversi appartamenti erano più o meno ben disposti ed arredati per un piacevole soggiorno in campagna; quella rustica era costituita dalle case o locali d'abitazione per i lavoratori del fondo. La famiglia rustica (in contrapposto a quella urbana che comprendeva gli schiavi addetti al servizio personale della famiglia padronale) era formata dagli schiavi che attendevano ai lavori campestri e per lo più sempre applicati ad un determinato genere di lavoro. A capo di tutta l'azienda fondiaria stava il procuratore (villicus), lo schiavo che fra tutti gli altri si distingueva per maggiore abilità, fiducia, e competenza nell'economia rurale. In sott'ordine, a seconda dell'importanza della tenuta, venivano il sorvegliante (monitor), il distributore dei viveri (dispensator), il dispensiere (cellarius), il soprastante per ogni mansione (magister operum). Gli schiavi, vera scorta parlante, non si distinguevano dagli animali, loro compagni di lavoro, se non per la parola, e non partecipavano ad alcun profitto.


Antefisa

Quando fu edificata quella villa in Robbiano? Nulla abbiamo finora che possa indicarcelo. Dal fatto che L. Virginio Rufo nel primo secolo dell'impero al di là di Agliate, su quel di Valle, vi possedeva estesi boschi, custoditi dal suo fedele guardiaboschi Pilade (13), si volle da taluno intravedere una certa qual relazione tra i ruderi della nostra villa con L. Virginio Rufo. Questi era milanese, fu console tre volte, e si rese celebre per le sue vittorie sul Reno, e più ancora per avere nobilmente rifiutato lo scettro imperiale offertogli dalle sue legioni vittoriose nei momenti della catastrofe di Nerone e di Ottone. Per i suoi meriti e per la sua grande rettitudine si ebbe elogi da Cornelio Tacito e da Plinio il giovane. Plinio, come lui stesso scrive, aveva i suoi possessi confinanti con quelli di Rufo (14) il quale teneva la sua villa prediletta ad Alsio (Alserio od Alzate o fors'anche Vill'Albese come affermò l'Alciati) (15). Si suppose perciò che i grandi possedimenti di Rufo si estendessero anche al di qua del Lambro fino a confinare con quelli di Plinio.
Ma forse è più verosimile il datare quei ruderi dal IV secolo circa. Il mosaico, almeno quello finora scoperto, privo di figure simboliche o di squisiti ornati, ci dice che appartiene non gia al periodo luminoso dell'arte romana, ma a quello in cui l'arte era in decadenza. Infatti l'antefisa mi fu dichiarata probabilmente del secolo IV da Pompeo Castelfranco.
E chi avrà abitato quella vasta dimora? Non sappiamo. Mancano iscrizioni romane (16). Il sottosuolo racchiude forse tuttora il segreto. Col tempo, facendosi per qualsiasi motivo degli scavi, forse luce sarà fatta se qualcuno raccoglierà e studierà quest'ultime reliquie di una grande civiltà. Ironia delle cose! In quelle sale, dove un dì ferveva la gioia del vivere, il contadino vi passa coll'aratro e colla vanga. Quei felici abitatori certamente non pensavano che vicende turbinose avrebbero infranta la loro vasta e superba dimora, manomessi i loro sepolcri, disperse le ossa e le ceneri.


Robbiano - Parrocchiale e oratorio di S. Filomena

CAPO II

Invasioni barbariche - I De Robiano - Loro sepolcro in S. Lorenzo con stemma e affresco sovrastante al sarcofago - La cappellania dei De Robiano - I De Robiano conti nel Belgio - I Bianchi, i Barbò, i Benaglia, i Forlanelli Razunz - Famiglie popolari di antica data - Origine e formazione dei cognomi.


Col secolo V si apre il periodo delle invasioni dei barbari in Italia. Alarico coi Visigoti (401), Radagasio con altre orde (405), di nuovo Alarico (408), Attila cogli Unni (452), Odoacre cogli Eruli (476), Teodorico cogli Ostrogoti (489), Alboino coi Longobardi (569), Carlo Magno coi Franchi (774).
Quasi non bastassero tutte queste invasioni, si aggiunsero più tardi, tra la fine del secolo IX e il principio del X, le invasioni degli Ungheri. Questi barbari, discendenti degli Unni, eran così feroci che la Chiesa nelle pubbliche orazioni faceva supplicare " a rabie Ungherorum libera nos Domine ". Gli abitanti dei borghi e dei villaggi elevavano castelli a difesa, iniziando un certo qual primo vincolo associativo che si svilupperà e porterà più tardi, attraverso la successiva feudalazione, all'autonomia e quindi al comune rurale.
Delle invasioni barbariche quella che si mantenne più a lungo fra di noi fu la longobarda. Durò 206 anni lasciando tanta orma nel sangue, nei costumi, nel nome stesso di Lombardia.

Dalla nostra terra di Robbiano (17), a detta anche del Sitoni di Scozia, trasse origine l'antica e nobile famiglia patrizia milanese dei de Robiano o Robbiani. In quale tempo e
per quali vicende siasi trasportata ad abitare in Milano, non saprei dire.
La più antica memoria che di questa famiglia ho potuto trovare è del giugno 1052 con un Olderico de Robiano, vivente a legge longobarda, prete dell'ordine dei Decumani e officiale nella chiesa di S. Maurilio in Milano, figlio del q. Arnaldo " qui fuit de loco Robiano " (18). Pure della medesima stirpe dev'essere Prandolfo, prete dell'ordine dei Decumani e officiale della chiesa di S. Nazaro, figlio del q. Lanfranco giudice detto de Robiano, il quale nel 1087 ricevette in livello alcuni beni del luogo di Bagnolo da Azzone abate di S. Vittore (19).
Questa schiatta è di origini romane o barbariche?
Probabilmente è di origine barbarica (20), per quanto alle professioni di legge, specialmente dal secolo XI in poi, non si possa dare un valore etnico assoluto. Le leggi minori (alamannica, ribuaria, gundobota) scomparvero a poco a poco, finché venuta meno anche la salica o franca, rimasero soltanto la longobarda e la romana. È noto poi come rami di potenti famiglie mutarono la loro legge originaria.
Col passare degli anni vediamo i de Robiano occupati in pubbliche cariche cittadine. Così nel 1215 un Guglielmo de Robiano è fra i componenti il Consiglio del comune di Milano; un Belotto nel 1265 è tra i quattro firmatari del patto di alleanza di Milano con Como, Bergamo, Lodi, Novara; nel 1321 un Beltrame o Beltramino, con Maffiolo Cane, viene mandato ambasciatore da Matteo Visconti ad Avignone presso il papa Giovanni XXII onde intercedere l'assoluzione della scomunica; e nel 1340 un Filippo è ricordato fra i decurioni milanesi.
Sul finire del secolo XIV e nei primi anni del seguente primeggiano fra i de Robiano un Antonio, detto Antonino, e Lanzarotto figli del q. sig. Francesco, abitanti in Porta Ticinese parrocchia di S. Lorenzo. Il primo lo troviamo il 13 marzo 1390 eletto fra i moderatori del censo, e tre anni dopo dei XII di provvisione (21). In un atto del 24 agosto 1404 è chiamato " spectabilis et egregius miles d. frater ": gli era stato affidato il governo delle case di Noceto e di Resignano, in diocesi di Parma, appartenenti all'ordine ospitaliero di S. Giovanni Gerosolomitano, ed egli costituiva suo procuratore Lorenzo de Lombardis di Parma (22). Ma otto anni dopo dal duca Filippo Maria Visconti veniva, con molti altri milanesi, esiliato e confiscato dei beni per essere stato sospettato di aver avuto mano nel tramare la morte del duca Gian Maria (23). Inoltre il Sitoni fa menzione di un " Ven. Vir D. Antonius de Robiano canonicus s.ti Laurenti Maioris Med. 1406, ex mss. cap. metrop. " (24). È probabilmente sempre la stessa persona, per quanto non si dica di chi fosse figlio. Infatti è noto che in quei tempi, con grave abuso, uno stesso individuo veniva talora investito di più canonicati e benefici semplici, spesse volte conferiti a giovinetti laici di famiglie nobili senza bisogno di essere poi ordinati sacerdoti.
Lanzarotto lo troviamo pure eletto il 1 giugno 1390 fra i moderatori del censo (25), e nel 1402 fra i quaranta principali patrizi milanesi che per il comune di Milano prestarono giuramento di fedeltà al duca Gian Maria Visconti (26).

Alcuni dei de Robiano, seguendo l'esempio delle più illustri e ricche famiglie milanesi, si elessero la loro tomba nella basilica di S. Lorenzo presso l'altare dei SS. Cosma e Damiano. Il sarcofago di stile gotico-lombardo, sollevato da terra da un basamento e sostenuto da quattro robuste colonnette, lo si ammira tuttora sotto un'arcata ogivale, sormontato da un triangolo a sesto acuto, la cui parete o lunetta porta un affresco rappresentante la Vergine col Bambino seduta su di un trono di forma gotica fra due divoti inginocchiati, i quali le sono raccomandati da S. Ambrogio e da S. Stefano o S. Lorenzo come altri vogliono.

Il sepolcro reca lo stemma della famiglia, stemma ripetuto a colori nel sovrastante archivolto, ma è senza epigrafe funeraria. L'iscrizione che si legge su tavoletta di marmo, murata a lato, fu posta nel 1813 dai conti de Robiano del Belgio patroni dell'antica cappellania dei SS. Cosma e Damiano.


Stemma dei De Robiano

L'arma gentilizia dei De Robiano ha lo scudo triangolare spaccato: nel primo di azzurro inchiavato con tre gigli d'oro, nel secondo d'argento. I de Robiano ebbero forse i tre gigli di Francia per qualche servizio prestato ai d'Angiò.
Quando e da chi precisamente sia stato ordinato quell'avello non si conosce, e nemmeno sappiamo il nome degli artefici e chi vi fu sepolto, se pure vi furono dei tumulati. Parimenti all'oscuro siamo riguardo all'affresco; i due inginocchiati rappresentano certamente due della stirpe dei de Robiano e probabilmente dimoranti nella parrocchia di S. Lorenzo, ma chi siano non ci è possibile precisare. Le mie ricerche rimasero infruttuose (27).
La tradizione lo vorrebbe eretto nel 1411, e che lo sia stato in quel torno di tempo lo si può ammettere, perché lo stile corrisponde a quello in voga nei primordi del quattrocento.

Il marmo usato è quello di Gandoglia, ossia quello che si adop
erava per la Fabbrica del Duomo, e ciò sarebbe indizio che colui o coloro dei de Robiano i quali ordinarono quel sarcofago, avrebbero avuto parte nell'amministrazione della Fabbrica, ottenendo così quel marmo per speciale favore. E infatti, fra i rappresentanti della cittadinanza milanese presso la Fabbrica del Duomo, troviamo il sopracitato Lanzarotto più volte dal 1390 al 1402; Marco, canonico in S. Lorenzo, nel 1402; Giovanni o Giovannino, nel 1419, ecc.
Che la sua erezione si debba porre con molta probabilità nei primordi del quattrocento, lo si potrebbe arguire anche dall'affresco della lunetta, poiché il Toesca lo ascrive alla fine del trecento per certe relazioni stilistiche coll'anonimo miniatore del codice di Parigi e cogli affrescatori di Mocchirolo, Lentate e Albizzate (28). Perciò, pure ammettendo tali affinità stilistiche, non ripugna che il nostro affresco possa essere stato eseguito altresì nei primi anni del secolo seguente. Il Diego Sant'Ambrogio scrive, d'altra parte, che non si andrebbe lontani dal vero attribuendone l'originaria concezione ai due pittori Isacco da Imbonate e Paolo di Montorfano, che nel primo decennio di quel secolo operavano in Duomo (29). Comunque sia, l'affresco secondo i precitati scrittori sarebbe quindi contemporaneo all'erezione del monumento e quasi compimento di esso.
Il Rigogliosi asserisce invece che l'affresco, a suo giudizio, " non è certamente prima del 1500, perché nella causa del 1448 non se ne parla; non è dopo il 1600 perché già nel 1608 se ne fa menzione nella visita pastorale di Federico Borromeo come di pittura antica e in parte rovinata, e nel 1628 si fa un lascito perché venga restaurata senza toccarne le facce e gli abiti, che è tanto come dire senza deturparla " (30). Se non che il non far cenno della pittura nella controversia del 1448 per sè non prova nulla, in quanto non era un elemento necessario in merito alla causa agitata. Il fatto potrebbe invece avere un certo qual valore probativo se vi fosse stato descritto il sepolcro e soltanto della pittura nessun cenno.
Che cosa sia poi avvenuto del dipinto dopo il testamento del 1628 non sappiamo; certo è che l'affresco presenta dei ritocchi evidenti.
Il Rigogliosi, date le sue premesse, vorrebbe l'affresco opera del Butinone, riscontrandovi in esso le abilità e i difetti di questo pittore. Ad ogni modo, per quanto sia molto difficile il giudicare artisticamente quella pittura, forse non una ma più volte ritoccata, e dato lo stato deplorevole in cui si trova per l'umidità del muro, da parte mia la ritengo probabilmente opera anteriore al 1500.
Suppose il Sant'Ambrogio che ordinatori del sepolcro fossero Antonio e Marco, che, secondo lui, sarebbero i due divoti dell'affresco (Marco a destra e Antonio a sinistra), nel quale sarebbero poi stati tumulati, rimanendo non del tutto ultimato e senza epigrafe funeraria, perché nel 1412 sarebbe stato esiliato con la confisca dei beni il figlio di Antonio o Antonino, detto lui pure Antonio (31).
Questa ipotesi presenta qualche difficoltà.
Che l'Antonio abbia avuto figli e tra questi uno collo stesso nome del padre non mi fu dato di trovare. D'altra parte il Fagnani, sulla testimonianza del quale si appoggia il Sant'Ambrogio, dice solamente che Antonio, detto Antonino, nel 1390 era fra i moderatori del censo e nel 1393 fra i XII di provvisione, e più sotto aggiunge che Antonio, senza però specificarne la paternità, fu esiliato e confiscato dei beni il 19 agosto 1412 perché sospettato fra coloro che tramarono la morte di Giovanni Maria (32). Sembra qui trattarsi non già di padre e figlio, ma di una stessa persona.
Similmente di Marco o Marcolo si conosce con certezza ch'era canonico in S. Lorenzo, e non già arciprete, negli anni 1398, 1404, 1408, 1410, ma negli atti non è detto di chi fosse figlio o fratello. Che Marco fosse figlio di Francesco o Franciscolo, e quindi fratello di Antonio e di Lanzarotto, pare lo si debba escludere, perché in un atto del 24 ottobre 1388 nel quale Lanzarotto, Antonio e Mozollo fratelli de Robiano, figli del q. Franciscolo, tutti di porta Ticinese parrocchia di S. Lorenzo, rifiutarono l'eredità dello zio paterno Beltramolo, Marco non vi è nominato (33). Inoltre la constatazione ch'egli fosse canonico in S. Lorenzo e nel 1402 tra i rappresentanti della Fabbrica del Duomo, non è sufficiente per poter asserire che soltanto lui, per questo fatto, possa avere ottenuto per speciale favore il marmo per il sepolcro, perché altri de Robiano furono tra i rappresentanti della cittadinanza presso la Fabbrica, e fra questi Lanzarotto, fratello di Antonio.
Chi fu tumulato in quel sarcofago largo due metri e lungo tre?
Nessun scritto, nessun dato mi fu possibile di trovare che accenni a sepolti, oppure a manomissioni del sepolcro nel passato.
Tra le diverse ipotesi, che si possono fare in mancanza di precisi documenti, ci potrebbe forse stare anche questa, ossia che i fratelli Antonio e Lanzarotto vollero signorilmente prepararsi la loro tomba in S. Lorenzo loro parrocchiale, ma che in essa non poterono essere sepolti perchè l'Antonio nel 1412 fu esiliato e confiscato de' suoi beni, e che in conseguenza del triste avvenimento, o per altri motivi, siasi allontanato da Milano anche Lanzarotto, poiché negli anni successivi troviamo la sua discendenza residente in Lugano (34).
E questo potrebbe forse spiegare il perché fin dall'origine manchi di qualsiasi epigrafe funeraria (35).
Il fatto riuscirebbe ancora più inspiegabile qualora altri di quella nobile parentela avessero fatto erigere quel sarcofago e vi fossero stati dei tumulati, perché sembra per lo meno strano che gli stretti discendenti i quali continuarono a vivere in Milano, si siano dimenticati del pietoso officio di collocarvi un'iscrizione che ricordasse il sepolto o i sepolti, cosa che richiedeva minor tempo, fatica e denaro. La mancanza di un'iscrizione sin dall'origine lascia sospettare che in esso non vi fu mai collocato alcun cadavere; sospetto che non è tolto nemmeno dall'iscrizione murata nel 1813 (36).

Presso l'altare dei SS. Cosma e Damiano, e non già di S. Antonio come scrisse il Sant'Ambrogio, i de Robiano istituirono una cappellania.
Quando e da chi non si conosce. Probabilmente, riguardo al tempo, la sua erezione non è anteriore al 1398, perchè nel Notitia cleri mediolanesis de anno 1398 circa ipsius immunitatem mentre fra i canonici di S. Lorenzo vi è ricordato Marcolo de Robiano, della cappellania non si fa parola: se esisteva doveva essere menzionata al pari di quella dei Del Conte. Evidentemente l'altare dei SS. Cosma e Damiano, del quale vi è memoria fin dal secolo XIII, non aveva allora annesso alcun legato redditizio tassabile.
Verso la metà del secolo XV sorse una controversia tra il Capitolo di S. Lorenzo e i de Robiano. Con istrumento del 30 aprile 1448 si venne ad una composizione colla quale i nobili patroni Beltramo q. Ambrogio che abitava nella canonica di S. Ambrogio, Lorenzo pure q. Ambrogio che abitava in quella di S. Nazaro in Brolo, Ambrogio q. Giovanni in S. Alessandro in Zebedia, e Princivalle q. Lanzarotto che dimorava a Lugano, si obbligarono ad un aumento di dote onde si potesse eseguire quanto era stato ordinato dai loro ascendenti fondatori della cappellania; onere loro spettante " ex legato predecessorum suorum " (37). Il lascito per una cappellania sarebbe perciò presso a poco contemporaneo all'erezione del sepolcro.
Negli atti di visita pastorale di S. Carlo (1567) e di Federico Borromeo (1608) si attribuisce, impropriamente, la fondazione ai soli fratelli Beltramo e Lorenzo q. Ambrogio, e si nota la mancanza di documenti, ad essa inerenti, anteriori alla composizione del 1448 (38).
Quali interferenze di parentela ci potrebbero essere tra i fondatori e successivi dotatori della cappellania e quelli del sarcofago? Mi mancano documenti per precisare. Probabilmente una parentela stretta, giacché vediamo intervenire anche Princivalle figlio del fu Lanzarotto.
È da augurarsi che qualche studioso, non badando a tempo e a fatica, faccia uno spoglio sistematico di tutti gli atti attinenti ai de Robiano attraverso gli archivi milanesi e di quello dei conti de Robiano del Belgio, così da svelarci il mistero che ancora avvolge le origini dell'affresco, del sepolcro e della cappellania.
La cappella dei de Robiano ebbe ancora un momento di vivo interessamento nel 1628, quando il dottor causidico collegiato di Milano, Nicola de Robiano del fu Bernardo, quale patrono deilla cappellania dei SS. Cosma e Damiano, con testamento del 25 febbraio obbligò i suoi eredi a spendere 425 ducatoni per il restauro dell'antica cappella e con speciale riguardo alla conservazione della lunetta (39). La cappella era uscita manomessa coll'altare demolito per i nuovi lavori intrapresi al tempo di S. Carlo, il quale perciò aveva fatto trasportare l'adempimento del legato Robiani nella vicina cappella dei SS. Quirico e Giuditta, che oggi corrisponde a quella della S. Famiglia. Il dottor Nicola, alla data del testamento, non lasciava che un figlio naturale infante, Gio: Francesco. Con decreto arcivescovile del 15 novembre 1628 venivano quindi riconosciuti quali patroni i signori Baldassare e Vincenzo fratelli de Robiano, parenti di Nicola, dimoranti nel Belgio.
Se non che mentre i de Robiano, emigrati nel Belgio nel secolo XVI, sì segnalarono come finanzieri e nelle pubbliche cariche da averne in seguito il titolo di conte, i rami di questa antica e nobile famiglia patrizia milanese, rimasti in patria, in parte si estinsero e in parte finirono nel1'oscurità.
I de Robiano non lasciarono totalmente e per sempre i nostri luoghi. Nel secolo XV un Giovanni possedeva fondi in Verano, e nel 1447 i figli Donato e Pietro passarono alla divisione di quei beni a loro pervenuti per eredità paterna (40); e nel secolo successivo un Gio: Pietro Antonio aveva fondi in Giussano ed Arosio, come da notifica del 14 settembre 1558.


Sarcofago dei De Robiano in S. Lorenzo

Quali famiglie nobili o distinte ebbero dimora e possessi in Robbiano nel medioevo, dopo che i de Robiano lasciarono il nostro paese e si ritirarono in Milano, non mi fu dato di sapere.
Nella seconda metà del secolo XV abbiamo una nobile famiglia Tremolada, ma di essa non v'è più cenno nei secoli successivi.
Nel 1630 compare residente la nobile famiglia Bianchi, la quale nel 1645 comperò altri beni da un Gio: Battista Giussani, e vi rimase, alternando la sua dimora in Milano, fin oltre la metà del settecento. Nella nostra chiesa parrocchiale aveva un sepolcro particolare. Un Giovanni fu contrascrittore nell'ufficio delle munizioni, suo figlio Giuseppe fu cancelliere del sale, e Ottavio figlio di Giuseppe, visse nobilmente delle sue entrate. Ultimo della famiglia fu il nobile Francesco Bianchi, le di cui case e fondi situati parte in Robbiano e parte in Agliate, passarono nel 1773 alla contessa Clara Manzoni Barbò.
I Barbò durarono fino alla morte del conte Francesco Barbò avvenuta in Robbiano nel 1828. Quest'ultimo fu anche fabbriciere della nostra chiesa dal 1807 in avanti. Quindi vennero i Benaglia, e da ultimo i trentini Forlanelli-Razunz che si estinsero nella benemerita signora Teresa.
Tutte queste famiglie abitarono la stessa casa da nobile ora casa delle Suore di Maria Bambina.
Delle vecchie famiglie popolari, i cui discendenti continuano in luogo, ricorderò quella dei Colombo " de columbis ", dei Longoni " de longono ", dei Molteni " de molteno ", ecc. Li desumo da una pergamena della fine del secolo XV. L'ablativo col " de "era usato di preferenza dagli antichi notai in quanto meglio avvicinava l'espressione latina alla volgare. Che il " de " premesso al cognome sia indizio di nobiltà è un pregiudizio, perché fu comune tanto ai nobili quanto ai plebei.
Famiglie antiche sono pure quella dei Fabbrica, dei Brenna ecc. Della famiglia Elli, oggi soprannominata i lanzinet, vi è memoria in una carta del 1571 nella quale si parla di una Angerina moglie del " lanzinecho da Rubiano ".

Il cognome in origine fu un prodotto spontaneo dello spirito popolare, e non un'invenzione dei notai o dei legislatori. Esso nacque e si sviluppò seguendo le regole dell'uso volgare: la lingua letteraria (la latina prima la volgare dopo) contribuì a fissarlo, e l'organismo amministrativo a generalizzarlo.
I cognomi provennero o dai nomi di luogo, o dal nome proprio di qualche ascendente, o da soprannomi, o da dignità, o da mestieri. Delle diverse specie di cognomi la più antica pare sia quella derivata dai nomi propri, o da soprannomi adoperati come nomi propri, poi vennero quelli tolti dal luogo d'origine, e quindi gli altri tratti dai soprannomi aggiunti ai nomi, da ultimo quelli provenienti da dignità godute o da mestieri esercitati. Questa successione non va però intesa in senso assoluto, ma relativo, perchè, ad esempio, nei tempi più antichi ve ne furono che si formarono dai nomi di luogo.
Il Muratori scrisse che l'uso dei cognomi incominciò nel secolo X, si fece frequente nel secolo successivo, e finì per diventare comune nel secolo XII.
Tuttavia, perché il cognome possa formarsi, osservò giustamente il Gaudenzi, si richiede una società abbastanza numerosa, in cui la vita civile abbia rapporti di una certa qual frequenza fra le diverse classi, così che gli individui non possano più facilmente distinguersi col solo nome di battesimo o col soprannome o col semplice rapporto di figliazione.
Per questo il cognome nel medioevo si forma e si diffonde specialmente col sorgere e svilupparsi del Comune, nel quale alle molteplici magistrature comunali vengono man mano a partecipare le diverse classi cittadine accresciute coll'immigrazione di gente nuova del contado, e le industrie e i commerci ne moltiplicano i rapporti, e non già nel periodo precedente feudale e nel ristretto ambito dell'economia curtense, dove il signore è distinto dagli altri col nome proprio, e i dipendenti hanno troppo scarse relazioni gli uni cogli altri, perché si senta il bisogno di essere pubblicamene differenziati. Infatti prima del Mille troviamo spesso nelle carte il nome di battesimo o il soprannome ad indicare gli individui, poiché facile era allora la conoscenza diretta di ciascuno da parte di tutti.
Il cognome venne da principio usato come una semplice designazione individuale, o in altre parole come qualche cosa di secondario o di accessorio al nome proprio; non era cioè un vero cognome di famiglia trasmissibile, come l'odierno, in eredità da padre in figlio. Fu in pieno Comune, specialmente nel secolo XI1I, tra il battagliare delle fazioni cittadine, l'allargarsi dei commerci e il prosperare delle industrie, il diffondersi della ricchezza e del benessere, il modificarsi delle idee e dei costumi, che le famiglie più segnalate per nobiltà o per ricchezza prendono un posto eminente nella vita sociale e politica, e formano delle consorterie che il popolo chiamerà casane o casate.
Queste famiglie eminenti per potenza o per ricchezze vengono quindi più chiaramente denominate con un sol cognome, già personale al padre o all'avo, comune a tutti i membri della famiglia; cognome che passerà poi in eredità nei suoi membri quando col rallentarsi dei vincoli famigliari si suddivideranno in più famiglie. Perciò il cognome di famiglia, poiché meglio serviva alla designazione delle persone, nei secoli successivi, col progredire della vita civile e dell'organizzazione statale, finì col sostituire per tutti quello personale, e divenne il vero nome ufficiale del cittadino.
Se il cognome fu in origine una prerogativa dei nobili e dei ricchi, tuttavia a poco a poco per necessità di cose si diffuse anche nel popolo, dapprima nelle città di poi nelle borgate e nei villaggi.
I cognomi prima di fissarsi definitivamente, in generale nella desinenza plurale " i ", passarono attraverso la forma maschile per gli uomini e femminile per le donne. Così, ad esempio, i nostri " de molteno ", " de longono ", " de gluxiano " ecc., divennero Molteno e Moltena, Longono o Longone e Longona, Giussano e Giussana, ecc., e finalmente Molteni, Longoni, Giussani, ecc.
Il cognome odierno di famiglia è pertanto il risultato di una lunga evoluzione, per cui da una designazione originariamente personale è divenuto inalterabilmente ereditario, comune cioè a tutto un gruppo sociale.

CAPO III

Robbiano parte del feudo Balbiani - È venduto ai Crivelli insieme a Verano nel 1647-Condizione civile ed economica dei due paesi - Il castello d'Inverigo centro del feudo Crivelli - Uomini d'arme in Robbiano - Soppressione del feudo - Pergamena del 1492 - Scorrerie di Gian Giacomo de Medici - Misere condizioni economiche dei nostri paesi durante la dominazione spagnuola - La peste del 1630.

La corte ducale di Milano, bisognosa di denaro, il 23 aprile 1403 fece vendita del contado di Chiavenna per 6 mila fiorini a Baldassare Balbiani di Varenna, comandante la rocchetta di Porta Vercellina in Milano. Baldassare era figlio di un Galeotto, pure castellano di quella rocchetta verso la fine del secolo precedente. I Balbiani, divenuti una delle più illustri famiglie milanesi, erano originari da Balbiano, località dell'isola Comacina (lago di Como), e passati a Varenna verso il 1168.
Il duca Giovanni Maria Visconti nel 1406 eresse in feudo il borgo e giurisdizione di Chiavenna col titolo di conte in favore di Antonio, figlio di Baldassare, e suoi discendenti. Francesco Sforza il 27 luglio 1460, essendo morto Antonio, confermò l'investitura feudale nei figli conte Giovanni e conte Gabriele estensiva ai soli discendenti maschi.
Data l'importanza di quei luoghi di confine, il duca Gio: Galeazzo e la duchessa Bona il 12 febbraio 1478 richiamarono alla Camera Ducale l'intero feudo di Chiavenna, dando in cambio altri feudi ai conti Balbiani. Assegnarono pertanto al conte Antonio iuniore e ad Annibale, figli del conte Giovanni, il feudo di Cilavenna con l'annua rendita di lire 300 circa; e al conte Angelo, figlio del conte Gabriele, fu concessa in feudo la pieve di Agliate al di qua del Lambro (Carate, Albiate, Sovico, Verano, Robbiano, S. Giovanni in Baraggia, Giussano, e Molini di Peregallo) con gli annessi diritti e cioè dei dazi dell'imbottato, pane, vino e carni.
Ne vennero quindi due linee dei conti Balbiani. Il ramo che diremo chiavennasco, continuò ad abitare in Chiavenna, per quanto avesse perduto ogni dominio feudale sopra quel borgo e sue dipendenze, e si estinse verso la metà del secolo XVIII col conte Carlo figlio di Giuseppe. L'altro ramo, che invece diremo brianzolo, finì col conte don Benedetto, canonico di S. Stefano in Milano, morto in Arosio il 2 agosto 1760 e sepolto in Verano nella chiesa del convento dei cappuccini (41).
Carate era il paese più importante del feudo, ma i conti Balbiani preferirono tenere la loro residenza, fuori del feudo, in Arosio.

Nel 1646 il conte Gerolamo, padre di cinque figli maschi e di alcune femmine, aveva inoltrato pratiche onde ottenere di poter vendere al nobile e ricco signore Tiberio Crivelli parte del feudo, e cioè Verano e Robbiano per il prezzo di lire 11466, soldi 13, e denari 6. La vendita venne eseguita il 27 marzo 1647 (42).
Dalle informazioni prese dal delegato il 25 marzo, risultava che Verano e Robbiano erano luoghi senza castello o fortilizio alcuno (43), e nemmeno di fiera o di mercato. Il primo, compresi undici molini sul Lambro e tre cascine, faceva in tutto 56 fuochi; l'altro, quasi tutto a cascine, ne contava 28 dei quali solamente 8 costituivano il nucleo centrale del paesello.
Verano, con una popolazione di circa 500 anime, pagava per l'imbottato ogni anno lire 72, e parimenti spettava al feudatario il diritto dell'osteria, prestino e scannatura (carni) per cui pagava di dazio lire 43 all'anno; Robbiano con una popolazione di 249 abitanti versava lire 38, e per osteria, prestino e scannatura lire 15. Non c'erano altre entrate feudali. Inoltre si pagava annualmente da Verano lire 12 di salario al podestà, che risiedeva in Mariano, e da Robbiano lire 8, oltre i dazi del bolino, l'aumento della macina forese agli impresari della R. C. di Milano, e il sesino ossia dogana agli impresari della città di Milano.
Il Comune di Verano rilevava staia 25 di sale, e Robbiano 17. Il territorio di Verano contava pertiche civili 3839, rurali 570, e 400 circa ecclesiastiche; e quello di Robbiano pertiche civili 1600, rurali 185, ecclesiastiche 44 circa. I territori erano coltivati a campi, vigne, ronchi, prati, pascoli: pochi i boschi.
I terreni a coltivo davano grani, vino, frutta e legumi.
In questi due paesi il conte Gerolamo non aveva alcuna proprietà privata, né palazzo del Pretorio, né prigioni, mentre Tiberio Crivelli aveva possedimenti con una casa da nobile in Verano.
Tiberio, marito ad Antonia Castiglioni e padre di quattro figli maschi oltre alcune femmine, non poté prendere possesso del feudo perché nel frattempo venne a morire. Le pratiche per la successione vennero condotte da Gio: Battista Crivelli tutore dei signori Flaminio e fratelli Crivelli figli ed eredi di Tiberio. Pertanto il 21 giugno 1655 il possesso feudale di Verano e di Robbiano passò a Flaminio, il maggiore dei fratelli, e il 15 di agosto fu immesso al godimento. Il conte Gerolamo, invece del denaro, aveva ottenuto dal Crivelli una casa grande con giardino e 134 pertiche di terra a campo situate in Giussano.
Tiberio Crivelli era morto mentre stava pure trattando l'acquisto feudale di Agliate, e di altri paesi della pieve oltre il Lambro, col diritto di appoggiare il titolo di marchese sul luogo di Agliate. Ciò che infatti ottenne il figlio Flaminio, i cui discendenti portarono il titolo di marchesi d'Agliate.

I Crivelli erano ricchissimi, e per via di compere divennero nel secolo XVIII i più potenti feudatari della Brianza. Loro residenza ordinaria era il castello d'Inverigo.
Prima di essere investito ed immesso al godimento del feudo, il feudatario prestava giuramento di fedeltà a sua maestà cattolica il re di Spagna.
A loro volta gli uomini dei paesi infeudati, dai quattordici anni in su, dovevano prestare giuramento di fedeltà e omaggio di sudditanza al signorotto. Al suono della campana si raccoglievano su la piazza del paese. Seduto su di un piccolo trono stava il feudatario colla spada sguainata e col messale aperto. Gli uomini, l'un dopo l'altro, col capo scoperto e ginocchioni, giuravano ponendo le mani sul santo Vangelo.
Possiamo ringraziare il cielo che questi costumi politici spagnolescamente servili siano tramontati per sempre: non sempre il passato è migliore del presente.

Nel 1655 il marchese Flaminio emanò un ordine ai consoli dei singoli comuni, da lui dipendenti, di mandare un elenco degli uomini, in perfetta salute e atti alle armi, dai diciotto ai cinquant'anni.
Carlo Tinte, console di Robbiano, ne notificò 35 per il nostro comune.
I feudi e i fidecommessi furono totalmente aboliti dai Francesi con leggi del 22 Pratile anno IV (10 giugno 1796) e del 6 Termidoro anno V (24 luglio 1797). Con la rioccupazione del milanese da parte degli austro-russi nel 1799 i feudi furono ripristinati, ma per breve tempo, perché ritornati i francesi furono di nuovo e per sempre abrogati (1800).
Nell'archivio parrocchiale di Verano si conserva una pergamena dell'aprile 1492, proveniente dall'archivio di casa Crivelli, dalla quale si ricava come già sul finire del secolo XV i Crivelli venivano allargando i loro privati possedimenti per via di compere o di eredità.
La pergamena, il cui labbro superiore è in parte asportato, consta di 9 pelli cucite l'una dopo l'altra, ed è lunga metri 4 e larga cm. 35. Argomento sono le grida; e le proclamazioni necessarie a premettersi secondo il diritto vigente, per poter passare al trapasso legale dei beni che il sig. Gio: Pietro Giussani, figlio di Tomaso, abitante in Inverigo, intendeva alienare consenziente il padre, salvo l'usufrutto di essi beni ai coniugi sig. Cristoforo e Margherita Giussani per tutta la loro vita natural durante (44).
L'atto è rogato da Giovanni Cristoforo " de Longono " notaio all'officio di provvisione del Comune di Milano, e controfirmato di propria mano da Francesco Panigarola capo dell'officio degli statuti del Comune di Milano. Vicario dell'officio di provvisione era allora Bernardino "de aretio".
A tergo, da mano posteriore, sta scritto "pro domino Thomaxio glus.° Cride. - In cartolario sig. A. 36".
I beni descritti erano situati nei territori di Inverigo, Brenna, Cremnago, Romanò, Villa, Arosio, Giussano, Verano, Robbiano, e sommavano a circa 1770 pertiche e tavole 3 a campi, vigne, prati e boschi, oltre ai sedimini di case, così suddivisi:
Robbiano - due sedimini alla Costaiola con pertiche 433
Verano - un sedimine alla Morigiola .......... " 99
Giussano - un sedimine in paese ................ " 473
Inverigo - sei sedimini ................................ " 589.3
Brenna - ..................................................... " 60
Villa e Romanò - ........................................ " 50
Cremnago - ................................................ " 55
Arosio - ...................................................... " 11

Data la provenienza della pergamena, e il trovare come in realtà in epoca posteriore i Crivelli possedevano largamente nei sopradetti paesi, si deve arguire che tutti o almeno gran parte di questi beni passarono in proprietà dei Crivelli. La pergamena, d'altra parte, ci offre l'occasione a qualche altro rilievo.
Dai nomi dei proprietari citati nella descrizione delle coerenze dei diversi sedimini e appezzamenti di terra, si ha che dal ceppo primitivo dell'antica e nobile famiglia Giussani erano prolificati non pochi rami; e la nostra pergamena infatti molti specifica col titolo di signore. Ne segue che parecchio si potrebbe aggiungere, e in parte correggere, a quanto scrive Vitaliano Rossi della discendenza dei Giussani al tempo del nostro atto (45).
Inoltre il castello (castrum) di Inverigo era, almeno nel sec. XV, possesso dei Giussani, poichè un sedimine vien così descritto: "sedimen unum iacens in castro suprascripti loci de Inverigo ubi solebant habitare nunc quondam dominus Iacobus Ioannes et brunorus fratres de glussiano quod sedimen alias erat cum suis hediffitijs cameris sollarijs curia cassina orto et allijs suis Iiuribus et pertinentijs. Cui coherebat ab una parte strata ab allia heredum quondam domini Antonij de glussiano mediante fossato castelano ab allia similiter Imparte et Imparte Ioannis de glussiano ab allia Monasterij de Lambrugo et tenetur per Martinum de glussiano mediante dicto fossato castelano et nunc est cum dictis suis hediffitijs et etiam allijs Infrascriptis hediffitijs videlicet torculari furno et putheo et coheret ab una parte Ioannis aluysij de glussiano Imparte et Imparte strata ab allia Imparte suprascripti Ioannis aluysij et tenetur ad libellum per Vincentium de dovero mediante fossato castelano et Imparte domini Martini de glussiano dicto fossato mediante ab allia Imparte suprascripti Martini et Imparte Bianchini de glussiano dicto fossato mediante et ab allia dicti Bianchini Imparte et Imparte Aresmini de glussiano et Imparte dicti Ioannis aluysij de glussiano".

Il vecchio castello medioevale erasi trasformato, come quasi dappertutto, dato il cambiamento dei tempi, in una semplice casa di abitazione.
Aggiungerò, come curiosità, la descrizione dei due sedimini alla Costaiola: "sedimen unum Iacens in loco de la costayrola territorij loci de robiano plebis aliate ducatus Mediolani quod est cum suis hediffitijs cameris sollarijs curte furno orto cassina columbario et cum certis derupamentis et alijs suis Iuribus et pertinentijs. Cui sedimini et seu bonis predictis coheret seu coherere consuevit a duabus partibus heredum quondam domini Beltrami de glussiano et ad alijs strata. Item unum aliud sedimen Iacens ut supra quod est cum suis hediffitijs videlicet cassio uno domus in terra cupato curte area orto et cum certis derupamentis et allijs suis Iuribus et pertimentijs. Cui sedimini coheret seu cohere consuevit a duabus partibus dictorum heredum suprascripti beltrami et ab allijs strata".
Del sedime di Giussano si dice: "Item sedimen unum Iacens in loco de glussiano suprascripte plebis aliate quod est cum suis hediffitijs cameris sollarijs curte cassina orto putheo furno et cum certis derupamentis ac brollio et allijs suis Iuribus et pertinentijs. Cui coherere consuevit ab una parte Ioannis de glussiano ab allia heredum quondam Aluisij de landriano ab allia ecclesie maioris Mediolani Imparte et Imparte domini Antonij dicti castellani de glussiano et ab allia ecclesie sanctorum Iacobi et Filippi dicti loci de glussiano. Et nunc coheret a duabus partibus domini ottonis de glussiano ab allia Imparte suprascripti domini ottonis et Imparte Antonieti de glussiano et Imparte dicte ecclesie sanctorum Iacobi et Filippi et ab allia Imparte suprascripte ecclesie et Imparte accessium pert. sex vel circha".
Le condizioni economiche del ducato di Milano furono buone sotto i Visconti e sotto gli Sforza fino al cadere del secolo XV.
Dalla caduta di Lodovico il Moro all'estinzione della dinastia sforzesca con Francesco II (1535) abbiamo un periodo procelloso di guerre con tutte le sue tristi conseguenze. Fu un continuo avvicendarsi di lotte per il dominio del ducato tra francesi, spagnuoli e svizzeri. Il nostro paesello, per sua fortuna, era situato fuori mano dalle strade che tenevano gli eserciti invasori, ma dovette sottostare agli enormi balzelli dei quali i conquistatori aggravavano, con alterna vicenda, le popolazioni.
Inoltre dal 1527 al 1531 i nostri antenati ebbero a subire scorrerie dalle bande prepotenti di Gian Giacomo de Medici, castellano di Musso.
Questo celebre avventuriero nei primi di luglio del 1527 prese il castello di Monguzzo, e di là in breve tempo sottomise l'alta Brianza atteggiandosi a sovrano. Sul finire di quello stesso mese, Gian Giacomo sempre anelante a grandi cose e a più grandi conquiste, alla testa di circa quattromila soldati tra italiani e svizzeri, venne ad accamparsi sotto Carate presso il Lambro, coll'intenzione di marciare verso Monza e Milano nel mattino seguente. Antonio de Leyva, comandante in capo dell'esercito spagnuolo, ne spiava le mosse: lo sorprese nottetempo e lo sconfisse. Ciò nonostante il Medici continuò a mantenersi ne' suoi possessi.
Quattro anni dopo il castello di Monguzzo fu assediato e preso dalle truppe sforzesche, e i medicei respinti dalla Brianza. I paesi delle pievi di Mariano e di Agliate dovettero concorrere alle spese per la restaurazione del castello, il quale fu poi anni dopo demolito (46).

Con la dominazione spagnuola, la quale durò dal 1535 al 1706, le condizioni economiche del milanese divennero man mano sempre più tristi. Fino ai primi anni del secolo XVII la decadenza fu lenta, per quindi precipitare così che al cadere di quel dominio lo Stato di Milano era ridotto all'estrema rovina. Terre già produttive lasciate incolte, gran numero di lavoreri chiusi, gli abitanti complessivamente in continua diminuzione, stato e comuni oberati di debiti, speculatori che si arricchivano col sangue del popolo, governatori per lo più avidi ed incapaci.
La Spagna, sempre in bisogno di denaro, accarezzando la vanità dei ricchi, mercanteggiava all'asta feudi e titoli nobiliari ai migliori offerenti. Si venne in tal modo formando una casta di nobili ricolmi di privilegi, investita di feudi, decorata di titoli, educata in collegi riservati quasi si trattasse di semi-dei. L'albagia spagnolesca arrivò al punto nel 1593 da far emanare un decreto per il quale dovevano essere escluse dalla nobiltà quelle famiglie le quali attendessero alle industrie ed ai commerci, e ciò contro la sana e antica tradizione lombarda per la quale molte famiglie patrizie lavoravano e si arricchivano senza che per questo ritenessero di venir meno alla loro nobiltà.
Il dominio spagnuolo coincise, è vero, con un tempo nel quale le nostre industrie ed i nostri commerci, per un complesso di cause, tendevano alla decadenza per lo spostamento dei centri di produzione al di là delle Alpi, ma se invece della disorganizzazione tributaria e dell'oppressione fiscale si avessero avute savie e opportune leggi amministrative, il decadimento dello Stato di Milano non sarebbe riuscito così disastroso.
Nella campagna la grandine era allora sinonimo di carestia e di miseria: i paesi sinistrati non potevano far altro che ricorrere al governo, perché in proporzione del danno fossero almeno sgravate dalle imposte.
Così, ad esempio, nel 1621 terribili grandinate, cadute l'8 e il 29 di agosto, avevano devastate non poche terre della Brianza e fra queste Verano, Giussano, Robbiano e S. Giovanni in Baraggia. Si inoltrò supplica onde ottenere un sollievo dalle gravezze fiscali. Il Magistrato Ordinario mandò un delegato, al quale se ne unì un altro dei Sindaci del Ducato, per un sopraluogo. I due incaricati interrogarono per i quattro sopradetti comuni parecchi testimoni fidedegni, i quali deposero che " l'entrata et cavata delli territorij essere in vino, biade, castagne, et frutti, cioè noci, pomi, persici et brugne, per essere detti territorij parte in vigne, parte in campi, parte in selve, ma il nervo dell'entrata consistere nel vino, perché quanto alla biada grossa ne fanno solo per il vivere de sei mesi " (47). Per biada grossa si intendeva allora il frumento e la segale, mentre nella parola generica di biade si comprendevano anche i grani minuti, miglio, panico, ecc.
Alla comunità di Robbiano, tralasciando di parlare di Verano e Giussano, venne concesso l'abbuono di due terzi degli aggravi, e a S. Giovanni in Baraggia (che nel civile faceva a sé) la metà:

Alla Comunità di Robbiano per i 2/3 del suo
debito del mensuale, repartito come sopra,
e perticato imposto per supp.to
........................lire 84- soldi 19- denari 6

Per i due terzi del suo debito del tasso
repartito come sopra, e perticato
imposto per supplemento
................................... " 87- " 11- " 6

Per i due terzi del suo debito dell'eguaglianza " 314- " 10- " 6

Alla Comunità della Cassina di S. Giovanni
in Baragia per la metà del suo debito del
mensuale repartito come sopra
......................... " 7- " 1- " 9

Per la metà del suo debito del tasso................... " 6- " 10- " 6

Per la metà del suo debito dell'eguaglianza ......." 30- " 15- " 6

Anche dagli atti di visita del card. Federico Borromeo si rileva che in quel tempo si coltivava dai nostri contadini frumento, segale, miglio, panico, fave, ceci, fagioli, piante da frutta e specialmente la vite. Una delle decime più importanti della chiesa di Giussano era appunto il vino.
Non mancavano i gelsi, detti moroni perché introdotti nel ducato da Lodovico il Moro per l'allevamento dei bachi, ma erano ancora relativamente scarsi nei nostri campi.

Molti storici e cronisti ci parlano delle calamità di quegli anni, alle quali dovevasi aggiungere un ben più funesto malanno, e cioè la peste del 1630 descritta dal Manzoni nelle pagine immortali dei Promessi Sposi, ben più grave di quella del 1576.
Nel settembre del 1629 un esercito alemanno di 36 mila uomini, la maggior parte fanti, o lanzichenecchi come chiamavansi allora, era sceso in Italia, e attraverso la Valtellina e la Valsassina giunse a Lecco, dove passato il ponte, proseguì lungo la sponda milanese dell'Adda fino al Po, e di qui costeggiando il fiume fino a Mantova per la conquista di quel ducato.
Fra quelle orde luride e indisciplinate, avide di saccheggio, serpeggiava la peste.
Si verificarono ben presto casi di pestilenza fra gli abitanti dei paesi toccati da quelle truppe, ma il sopraggiungere dell'inverno assopì il malanno, finché nella primavera, nonostante gli ordini e le grida del Magistrato di Sanità per impedirne la diffusione, scoppiò violento e si propagò rapidamente.
Lo stato di denutrimento delle popolazioni favorì il contagio, poiché gli anni immediatamente antecedenti furono anni di carestia e di miseria.
Scrive il contemporaneo padre Subaglio meratese nella " Chronica della riforma dei Minori Osservanti della Provincia di Milano " (48): "Scorreva l'anno della nostra salute mille seicento ventinove, quando essendo stati, li due anni precedenti, questo Stato et Provincia di Milano afflitti da grandissima carestia, che indusse le persone, massime quelle che habitavano nelli monti, a mangiare herbe, scorze d'arbori et altri vilissimi cibi, e nell'istesso tempo anco et per molti anni antecedenti essendo stati oppressi da continue gravezze, tributi, allogio di soldati, passaggi di quelli et da altre calamità, restava solo per compimento della tragedia sopraggiungesse a tante miserie anco la peste, che parte delle persone liberasse dalle calamità antecedenti et altre per castigo de' loro peccati togliesse da questo mondo".
Il curato Zavattoni di Verano notava nel registro dei battesimi come " lo anno 1627 non maturò mai il miglio ne mancho il panico verso la montagna et ben puocho et cativo alla pianura, et non vi fu neancho castagne, et la causa fu che piovette quasi sempre dalli nove di Agosto sino alli sette di Decembre che fu la festa di santo Ambrosio, adimodoche l'anno seguente del 1628 a calende di Giugno fu venduto il fromento lire 66 al mogio a casa nostra dall'Illustre sig. Tiberio Giussano, et da altri in Varese fu venduto lire 72, a Lecco lire 76, a Como lire 80, a Lugano lire 90, a Locarno lire 100 per mogio, de modo la carestia fu molto grande in tutta la Italia ma specialmente nel paese... " (l'ultima linea è illeggibile per guasto).
Peggiore fu l'anno 1629, poiché più avanti lo stesso curato scriveva: " Monsignore Ill.mo et R.mo Sig. Federico Borromeo et nostro Arcivescovo di Milano donò a tutte le pieve della sua diocesi a chi scuti cento, a chi 90, a chi 80 et a chi 70 et a chi 60, a chi più a chi meno secondo la povertà et grandezza delle pieve. Alla nostra pieve di Agliate li diede scuti 60 et alla terra nostra di Verano li toccò in sua parte lire vinti et soldi doi et dinari sei, quali fumo distribuiti alli poveri sopra la porta della nostra chiesa parrochiale da me prete Franc.eo Zavattono curato della sudetta Chiesa alla presenza del R.vo Sig. prete Francesco Maria Giussano nobile di Verano. E più in Milano l'anno sudetto faceva dare la minestra due volte al giorno a trecento poveri oltra le elemosine quale faceva secretamente a poveri vergognosi per causa della grande carestia del sudetto anno (49). Di più il sudetto anno 1629 adì 13 giugno mandò altri scuti 60 per la nostra pieve di Agliate per distribuire alli poveri, et alla nostra terra di Verano toccò lire 20 quali fumo distribuiti da me prete Franc.eo Zavattono alli poveri di Verano sopra la piaza publicamente a ogniuno la sua parte secondo la povertà ".
La fallanza dei raccolti in quei tempi significava la fame. E si capisce: allora non c'era modo come oggi, di importar grano dall'America o da altre regioni. Di più ogni Stato vigilava attentamente ad impedire esportazioni di granaglie, in base ai noti principii di economia politica in voga, che si riassumevano nel divieto di esportazione assoluta, o nella esportazione con moltissime cautele, di generi di prima necessità per impedire il rincaro e mantenere l'abbondanza. Si noti poi che i contadini si nutrivano ordinariamente col prodotto di cereali inferiori come il miglio (pan de mei), il panico, castagne, legumi, frutta, ecc. Il pane di frumento (la mica) lo si mangiava a Natale o in qualche altra principale solennità ecclesiastica, oppure quando si cadeva ammalati. Il frumento del resto era quasi tutto di spettanza padronale.
Mancava la patata, la quale fu introdotta presso di noi solo sul finire del secolo XVIII. Il melgone, importato in Europa dopo la scoperta dell'America, era ancora una rarità e la sua coltivazione da noi si generalizzò molto più tardi (50).
Date queste condizioni non è da far meraviglia se la peste fece tanta strage anche nei nostri paesi.
Dal registro parrocchiale dei morti di Robbiano si ha, che nel 1630, sopra un totale di 58 morti, 52 lo furono di peste.
Numero assai rilevante quando si pensi che la mortalità media annuale nei 14 anni precedenti era di circa 5 persone.
Dei primi morti di peste è notato che morirono muniti dei conforti religiosi, degli altri nulla è detto.
Il contagio in Robbiano infierì dall'agosto in avanti, mentre in Giussano era apparso fin dal giugno. I primi ad essere colpiti, causa prossima dell'immediata diffusione del male fra i robbianesi, furono degli estranei qui rifugiatisi nella speranza di schivare il male, e cioè il signor Gerolamo Giussani, detto l'orefice, abitante in Giussano e che si era ritirato in una cascina di sua proprietà situata nel nostro territorio; Francesca Bianchi e un Santino Robiano ambedue di Milano.
Gli appestati, dice la tradizione, venivano trasportati al luogo tuttora chiamato il Lazzaretto, dove giussanesi e robbianesi morivano affratellati nel dolore e nella morte.

CAPO IV

Guerra per la successione di Spagna - Riforme di Maria Teresa - Il nuovo catasto e i suoi benefici effetti - Sacerdoti benemeriti - Bilanci comunali -Energica repressione del malandrinaggio - La strada di S. Giovanni in Baraggia - Riforme di Giuseppe II.

Carlo II di Spagna moriva il 1° novembre 1700 senza eredi legittimi: sorsero parecchi pretendenti al trono, e nacque una guerra formidabile detta la guerra di successione di Spagna, la quale, tra gli altri mutamenti, determinò la caduta della dominazione spagnuola in Lombardia. Il 24 settembre 1706 Eugenio di Savoia occupava Milano, e colla pace di Utrecht (1712) il milanese passava all'Austria.
Il Comune di Robbiano il 1° giugno 1708 dovette somministrare due carri con buoi per trasportare, da Seregno a Vimodrone, ammalati e bagagli del reggimento austriaco Herbestein. Altrettanto nel 1709 e nel 1711. Il che ci lascia intravedere come i paesi dei nostri dintorni non andarono esenti da requisizioni militari.
Il nuovo governo austriaco assumeva il paese in condizioni di estrema decadenza, e tale condizione di cose durò, si può dire, fino alla seconda metà di quel secolo, poiché, per altre guerre sopravvenute, i tentativi di porvi qualche rimedio rimasero lettera morta. Colla pace di Vienna (1736) lo Stato di Milano ritornò definitivamente all'Austria, e col trattato di Aquisgrana (1748) si chiuse il periodo delle guerre.
Sotto l'impulso delle nuove dottrine riformatrici, che dalla Francia erano venute diffondendosi per tutta l'Europa, si agitò anche da noi la questione per un rinnovamento sociale ed economico.
Il governo di Maria Teresa assecondò questo movimento il quale era discusso e promosso da un'eletta di persone quali il Vermi, il Beccaria, il Cristiani ed altri, e che in fin dei conti riusciva di vantaggio al governo stesso.
Le riforme introdotte nello Stato di Milano, al tempo di Maria Teresa, furono di varia natura: giudiziarie, amministrative, tributarie, ecclesiastiche, ecc.
Basti qui ricordare la grande riforma censuaria, che portò ad un'equa e proporzionale perequazione dei tributi fondiari, e sistemò con più mite misura le imposte che gravavano sui commercianti e sui lavoratori di campagna.
La riforma si era iniziata sin dal 1718 sotto Carlo VI. Per Robbiano infatti le operazioni catastali datano da quell'anno. Erano allora possessori di terre nel nostro paesello: marchese Crivelli, Gio: Sirtori, dott. Perego, questore Sartirana, Federico Zappa, Carlo Lamprosio, Ottavio Bianchi, conte Francesco Casati, Gio: Pietro Giussani, Galbesio, Ospedale Maggiore di Milano, Gallaccio, Cura di Briosco, Cura di Robbiano, e Pietro Peregallo. I maggiori possidenti erano il Crivelli e il Bianchi. C'erano inoltre due torchi da vino dei quali uno del Lamprosio e l'altro del Bianchi, un'osteria del sig. Sartirana, e un molino a quattro ruote sul Lambro del marchese Crivelli. Circa la qualità dei fondi da una nota del 1727 si ha che il terreno boscoso sommava a pertiche 334.18, e che vi erano pert. 20.18 a pascolo. Il rimanente risultava aratorio avitato con 848 gelsi o moroni.
Da altra carta del 1724 abbiamo che il feudatario marchese Crivelli ricavava dal dazio dell'imbottato lire 48, dal dazio del Bolino lire 52; dal dazio del pane lire 14.5.6, da un molino sul Lambro lire 391.15. Il questore Sartirana percepiva lire 10 dall'affitto dell'osteria.
La cascina di S.Giovanni in Baraggia, la quale contava 37 abitanti, non aveva né entrate né debiti. Pagava soltanto lire 10 per l'imbottato.
I lavori del nuovo catasto rimasero sospesi dopo pochi anni per le guerre, e per le ostilità della nobiltà terriera che si vedeva intaccata nei suoi privilegi. Furono ripresi nel 1749 e condotti a termine nel 1759: la riforma entrò in vigore col 1760.
Al comune di Robbiano risultarono pertiche 2274.12, stimate in valore capitale scudi 176.88.2, così suddivise: Crivelli marchese Enea q. Tiberio pertiche 552.21, Bianchi Ottavio p. 426.15, Biraschi Marianna ed Angelica p. 203.18, Casati conte Gerolamo p. 126.23, Lambertengo Dr. Gio: Francesco p. 192.12, Lamprosio Ferdinando q. Carlo p. 186.17, Sartirana questore don Nicola p. 197.23, Ospitale Maggiore di Milano p. 114.14, Magenta marchese don Lodovico q. Guido e Giussani donna Caterina p. 110.8, Morello Giuseppe Antonio q. Giorgio p. 67.7, Cattaneo Felice Antonio Paolo e Germano q. Uldrigo p. 32.9, Peregallo Domenico q. Alessandro p. 15.16, Cura di Briosco p. 21.7, Peregallo Francesco e Carl'Antonio q. Pietro Martire p. 22.23, Crivelli marchese Enea q. Tiberio livellario dell'abbazia di S. Giovanni p. 26, Cura di Robbiano p. 0.9.
La Cascina di S. Giovanni in Baraggia fu in quell'anno unita al comune di Giussano.
La proprietà fondiaria, dopo l'applicazione del censo, ebbe un grande sollievo, in correlazione alle altre riforme. Mentre da una parte per effetto della pace diminuivano le imposte, dall'altra cresceva il reddito. I fondi raddoppiavano in poco meno di un decennio l'affitto, così che l'imposta non fu più che il quarto al massimo del reddito netto, mentre prima ne assorbiva oltre la metà. Data la sicurezza e il profitto dell'impiego agricolo, i capitali vi affluivano, e l'agricoltura prese a svilupparsi coraggiosamente; si dissodarono terre incolte, si intensificò la piantagione dei gelsi, la coltivazione dei bachi e la filatura della seta, si migliorarono le viti e i prati, si aumentò l'allevamento del bestiame, si introdussero dall'estero nuove piante e nuove colture, come ad esempio la robinia, il platano, la patata, ecc.
Non pochi sacerdoti si resero benemeriti di questo progresso agricolo e delle annesse industrie, e fra quelli dei nostri dintorni ricorderemo il sacerdote D. Paolo Mazza di Seregno, e il curato di Paina D. Ercole Trabattoni.
Di grande importanza per la popolazione rurale fu altresì la riforma della tassa personale o testatico, tassa odiosa e iniqua, e che nel passato si era giunti talora in certi luoghi ad un aggravio di 40 lire per testa, per cui molti campagnoli, appena il potevano, emigravano nei territori degli stati confinanti. Questa tassa fu ridotta ad un massimo di 7 lire a testa, escluse le donne ed i maschi inferiori ai 14 anni e superiori ai 60, ed in compenso la popolazione rurale fu esonerata dal tributo del sale e da altri obblighi. Nel 1780 venne tolto anche il dazio dell'imbottato che gravava sul raccolto del vino, del grano e di altri prodotti del suolo, con grande sollievo dell'agricoltura.

Alla riforma catastale corrispose quella delle amministrazioni comunali e provinciali e di quella centrale che era la Congregazione di Stato, in modo di avere un congegno omogeneo informato ad un unico e preciso criterio.
Per i comuni fu creato un Consiglio o Convocato, formato di tutti i possidenti estimati e descritti nelle tavole del comune, il quale deliberava sopra gli affari interessanti la comunità (nomina degli amministratori e degli impiegati, imposizione delle imposte, discussione delle spese, approvazione dei bilanci preventivi e consuntivi, ecc.).
Questa assemblea veniva d'ordinario convocata due volte all'anno. Ogni anno dal proprio seno il convocato eleggeva tre deputati, alla qual carica erano eleggibili tutti gli estimati meno le donne, i minorenni, gli ecclesiastici e i militari. I tre deputati, ai quali vi si aggiungeva un deputato eletto dai soggetti alla tassa personale e un altro da quelli che pagavano la tassa del mercimonio ma che avevano solo voto consultivo, avevano nelle mani il vero potere effettivo, perché rappresentavano il comune e ne amministravano il patrimonio, duravano in carica un anno ed erano rieleggibili: uno però doveva sempre essere scelto fra i maggiori proprietari del comune. Un sindaco, incaricato dai deputati, faceva le veci di questi nel disbrigo degli affari e rappresentava all'occorrenza il comune; un console bandiva gli ordini, indiceva le adunanze, presenziava all'esecuzione degli atti amministrativi e giudiziari.
In ogni comune non dovevano mancare due revisori dei conti ai quali spettava esaminare ogni anno le spese fatte. I bilanci, per mezzo dei regi cancellieri delegati, che vegliavano sull'andamento degli affari comunali, dovevano essere presentati al potere centrale per essere definitivamente verificati e approvati.
Il comune veniva così costituito nella dignità di un ente che si amministrava da sé sotto il controllo dell'autorità centrale.
I più antichi bilanci comunali che ho potuto trovare, tanto del nostro quanto di altri comuni, datano da questa saggia e pratica riforma. Quei vecchi bilanci portano per Robbiano una piccola entrata contro una non meno piccola uscita, e, fatte le debite proporzioni, è quanto si verifica in tutti i comuni rurali di allora.
In quei tempi non si parlava di spese per l'istruzione elementare obbligatoria, illuminazione pubblica, acqua potabile, fognatura, igiene, ecc., tutte cose delle quali oggi una popolazione di campagna, che voglia dirsi civile, non può farne a meno. Tuttavia non ci pare fuor di luogo osservare che se allora si spendeva poco per i bisogni del comune, fors'anche perché i proprietari, che avevano in mano il potere, cercavano di risparmiarsi il meglio che potevano, oggidì invece si è quasi giunti all'eccesso opposto con grave disagio dei contribuenti.
L'aumento di spese nei bilanci comunali incomincia verso gli ultimi anni del governo austriaco coll'inizio, tra l'altro, dell'adattamento e della manutenzione delle strade comunali, regie e provinciali; continua sotto quello francese, e così via via fino ad oggi col crescere della prosperità e delle esigenze.
Ecco, a modo di esempio, il bilancio del comune di Robbiano del 1763:


1763. - COMUNE DI ROBBIANO - PIEVE DI AGLIATE
IMPOSTA DELLE SPESE ORDINARIE E STRAORDINARIE
SPETTANTI AL DETTO COMUNE.

Annue Prestazioni Camerali e Tasse:
Metà delle Tasse Personali . . . L. 294.-.-
Salari:
Al Podestà Feudale . . L. 6.-.-
Al Reg.o Cancelliere . . " 20.-.-
Al Sindico . . . . . . " 12.-.-
Al Console . . . . . . " 24.-.-
Al Campanaro . . . . . " 36.10.-
______________
" 98.10.- 98.10.-
Spese ord.e regolari:
Notificazione dei Grani . . . L. 8.15.-
Carta e quinternetti . . . " 6. - . -
Fatta della strada Regia . . " 35. -. -
_____________
49.15.- 49.15.-


Per Gride . . . . L. 4.10 . -
Per la formazione dei conti,
all'esattore e convocati . . " 18. - . -
_______________
22.10.- 22.10.-

Per la riparazione a tetti e muri
della Chiesa Parrocchiale L. 50. - . -
Salario all'esattore . . . " 83.18.6
__________
L. 596.13.6

Si dibatte il prodotto delle seguenti
entrate comunali cioè teste N. 83
come ruolo di quest'anno a
L. 6.10 . . . . L. 539.10. -
Per tanti e residuato . . 81. 7 . 8
__________

620.17. 8

Resta a carico della futura imposta
L. 22.42

Firmato da Francesco Bianchi Primo Dep.to dell'Estimo, da Giuseppe Francesco Citterio sostituto di Gio: Francesco Lambertengo Dep.to dell'Estimo, da Carlo Giuseppe Fabbrica sostituto del sig. Giuseppe Casanova Dep.to dell'Estimo.

30 Agosto 1763.
Signat. Cribellus.

Non vi era alcuna tassa mercimoniale, perché il paesello non aveva né industrie né commerci. Negli anni successivi trovo ricordato un Mauri Carlo Giuseppe oste e prestinaio, poi un Maspero Melchiorre oste, un Viganò Costantino prestinaio, un Balllabio Antonio falegname, un Mottadello Giuseppe tessitore di lino.
Il bilancio del 1764 si chiuse invece con un avanzo per la futura imposta di lire 57.9.4. Ed anche nei successivi bilanci l'entrata e l'uscita è sempre su per giù la medesima. I deputati dell'estimo che vi ricorrono in quella seconda metà del secolo sono:
Gio: Francesco Bianchi, Dr. Francesco Lambertengo, don Giuseppe Casanova, Luigi Petazzi, Gio: Battista Sartirana, Crivelli, Passalacqua, Barbò, ecc.

Di fronte a questo fervore di rinnovamento civile ed economico stava un grave ostacolo: la mancanza di pubblica sicurezza. Il malandrinaggio, dal 1741 al 1772, era spaventosamente cresciuto in Lombardia. A migliaia si contano nelle gride i delinquenti sui quali è posto il bando e la taglia vivi o morti.
Riusciti vani i mezzi ordinari, si ordinò che un regio commissario di campagna, accompagnato da un notaio criminale e da un confessore, con guardie e carnefice, tutti a cavallo, andassero girando dovunque, e arrestassero con qualsiasi mezzo i malviventi, e, secondo il caso, li condannassero a morte facendoli impiccare alle piante. E con altro editto del 29 novembre 1771 si assegnarono premi a chiunque arrestasse facinorosi e assassini. Con questi mezzi energicamente spicci, e solo verso il 1786, si riuscì a ristabilire la pubblica sicurezza.
Anche i nostri dintorni erano naturalmente infestati da ladri e da assassini. Correva in quei giorni la diceria che

Meda Seregn Paina e Marian
I mantegnen el boia de Milan..

Brutta fama in gran parte immeritata, perché il popolo, non giudicando tanto pel sottile, prese le località di frequenti aggressioni per il luogo stesso dei malandrini. Del resto, se questi nostri paesi non furono migliori di altri, non furono nemmeno i peggiori.
Un'antica strada da Robbiano metteva a S. Giovanni in Baraggia. Ridottasi in pessimo stato, venne fatta riparare nel 1774 dal conte Gerolamo Barbò di Robbiano, ma a spese del comune, e " per ordine superiore fu adattata a strada pubblica ", come affermano i relativi atti esistenti nell'Archivio di Stato di Milano. Alle riparazioni ed all'allargamento di detta strada si erano opposti gli eredi dei nobili Lambertenghi di Giussano, ai quali si dovette levare del terreno ed estirpare degli alberi.
Reclamarono essi presso le superiori autorità, dicendo che si trattava d'una strada d'uso privato, ma la protesta fu respinta senza ottenere alcun indennizzo per la ragione che il terreno era stato usurpato dai coltivatori a danno della strada obbligata a pubblica servitù, e che quindi gli alberi non erano stati piantati sul proprio.
Col passare degli anni la strada si ridusse di nuovo in uno stato deplorevole.
Nel 1842 si riaprì la questione per le riparazioni, e due anni dopo (24 ottobre 1844) la Delegazione Provinciale approvava il progetto delle opere di restauro. La strada doveva avere una larghezza effettiva di metri 3.40. Il sac. nobile Ferdinando Sormani, investito del beneficio dell'abbazia di S. Giovanni in Baraggia, assumeva la relativa manutenzione. Ma in realtà si fece ben poco o nulla.
Finalmente nel gennaio 1909, senza tante pratiche burocratiche, gli abitanti della cascina S. Giovanni ripararono e allargarono la strada, incitati dallo scrivente e benevolmente sostenuti dall'egregio cav. Adolfo Corbetta sindaco del comune.
Dinanzi al fatto compiuto si rassegnarono anche i proprietari frontisti. Ne risultò una bella strada spaziosa segnata coi relativi termini in vivo. Il comune somministrò la ghiaia, pro-mettendone la manutenzione anche per gli anni successivi. Speriamo sia messa nel ruolo delle strade comunali, diversamente, dopo un dato numero di anni, il lavoro fatto sarà reso nullo perché la strada abbandonata a sé stessa diverrà pessima come prima (51).


Maria Teresa

Il periodo di Maria Teresa fu per lo Stato di Milano, in confronto del passato, un periodo aureo, e le riforme diedero un esito soddisfacente perché basate sulle reali necessità del paese al quale erano destinate. La saggia imperatrice seppe adattare a vecchie istituzioni i nuovi principii della vita moderna, salvando le apparenze, e cioè col lasciar sussistere antiche magistrature con le antiche denominazioni.
Non altrettanto si può dire di tutte quelle introdotte da Giuseppe II, che fu un temperamento di sognatore. Mortagli la madre nel 1780, la quale sapeva tenerlo a freno, e rimasto libero sul trono, diede libero sfogo alle sue radicali innovazioni. Uno zelo eccessivo spiegò in particolar modo nelle riforme ecclesiastiche, da venire chiamato l'imperatore sagrestano. Egli volle correggere nello Stato milanese tutto un sistema di cose invecchiate, ma senza accorgersi, come osservava Pietro Verri, che una universale e contemporanea distruzione delle leggi e delle pratiche di un paese era un rimedio peggiore del male. Tuttavia se ben si considera nel suo complesso l'opera riformatrice di Giuseppe II, ci si accorge che era una conseguenza delle riforme di Maria Teresa, come queste lo furono per il lento ma continuo progredire della società nei suoi bisogni collettivi, il che portava al rafforzarsi del concetto e dell'autorità dello Stato.
Ma fu il modo, e cioè il nessun rispetto alle tradizioni paesane, e la non sempre opportunità di quelle innovazioni, pervase da un indirizzo accentratore, per cui riuscirono tanto invise ai contemporanei. Indirizzo accentratore di tutto il potere nel governo centrale che diverrà dispotico e insopportabile ai Lombardi nelle successive dominazioni austriache.
Ma dopo tutto non sempre ogni male vien per nuocere: l'assolutismo, disgregando tutti quei vecchi istituti che ritenevano una parte dell'autorità statale, preparò, coll'eguaglianza del diritto, lo Stato moderno, e cioè il governo rappresentativo.
Per quello che riguarda il nostro comune di Robbiano è da ricordare come nel 1786 e nel seguente anno si ripararono le strade conducenti alla cascina Marcellina o Mascellina, a Verano, e a Giussano. Piccole cose, se si vuole, ma che denotano l'inizio dell'interessamento dei comuni rurali alle loro vie di comunicazione: nessuno ignora l'importanza che hanno buone strade per lo sviluppo della vita civile.
Alla morte di Giuseppe II, avvenuta nel 1790, il nuovo imperatore Leopoldo II tornò in parte all'antico, accontentando i milanesi. Ma era ormai troppo tardi: dalla Francia era in cammino la rivoluzione che avrebbe sconquassato in modo ben più radicale di Giuseppe II, tutti gli ordinamenti del passato.

CAPO V.

Dominazione francese - Odio contro la nobiltà e la religione - Requisizioni -Vertenza tra il comune di Robbiano e la casa Petazzi di Giussano - Il Regno Italico - Seconda dominazione Austriaca - Aggressori impiccati -Il colèra - L'istruzione elementare - L'Amministrazione comunale - Insurrezione del 1848 - La guerra del 1859 e il Regno Unitario d'Italia.

Il 15 maggio 1796 Napoleone Bonaparte coll'esercito repubblicano entrava vittorioso in Milano, e subito s'incominciò a tutto cambiare e riordinare sul modello delle istituzioni rivoluzionarie francesi.
Come di solito, in quei primi momenti di confusione e di anarchia, presero a spadroneggiare i fanatici e i violenti, i quali pomposamente si davano il titolo di "patriotti ". Fra costoro non mancavano fior di malviventi.
Simbolo di quella nuova libertà repubblicana erano i così detti alberi della libertà che venivano eretti dagli scalmanati nelle città e nei grossi paesi della campagna. L'albero della libertà non era altro che un albero rimondo, con in cima il berretto rosso, conficcato sulla piazza del comune o della chiesa. L'inaugurazione avveniva tra canti, discorsi, spari di mortaretti, suoni e danze, e distribuzione di vino: baldorie che in certi luoghi duravano sino a notte inoltrata.
Presso l'albero si tenevano poi dimostrazioni, comizi, ecc. Di tali baccanali non trovo memoria che siano avvenuti a Robbiano e nei paesi vicini, tranne che a Seregno. In generale la massa del popolo era tutt'altro che favorevole a simili gazzarre, e dove i preti si mantennero in una linea di condotta seria e prudente nulla avvenne di grave o di indecente.
Per mettere un po' d'ordine, nel giugno dell'anno seguente Napoleone vi costituì la Repubblica Cisalpina con un Direttorio e due corpi legislativi, ma gli abusi continuarono come prima.


Bonaparte - General au Chef de l'Armee d'Italie (incisione del 1796)

Presi specialmente di mira erano la nobiltà e la religione. L'odio contro la nobiltà si esplicò, tra l'altro, per mezzo di una apposita legge, contro gli stemmi dovunque si trovassero: nelle chiese, nei cimiteri, nei palazzi pubblici e privati, sciupando talora dei capolavori d'arte.
Un esempio di questo stolto procedere lo vediamo nell'oratorio di S. Giuseppe in Carate Brianza. Colà vi era stato sepolto nel 1776 il nobile Dr. Carlo Tagliabue, causidico collegiale, il quale col Dr. Pozzoli era stato l'ultimo sindaco generale del Ducato. Sul sepolcro gli era stata posta una lapide marmorea con l'epigrafe funeraria sormontata dallo stemma. Orbene quest'ultimo venne fatto scalpellinare (52). Peggiore fu la guerra contro la religione: vietata ogni manifestazione di culto fuori delle chiese, costretti i sacerdoti a portare il viatico quasi in segreto, cancellate le immagini sacre sui muri esterni delle case, dileggiata pubblicamente la religione, esaltati quei pochi preti o frati che apostatavano, ecc. Contemporaneamente però si vuotavano le casse pubbliche, si operavano requisizioni inique, si imponevano enormi contributi di guerra, si spogliavano i musei e le chiese dei loro preziosi, e, sempre per far denaro, si sopprimevano ordini religiosi incamerandone i beni.
La nostra chiesa di Robbiano, come tutte, il 22 pratile anno VI repubblicano (10 giugno 1798) fu obbligata a presentare una nota, sottoscritta dai deputati dell'estimo, delle cose preziose che possedeva. La chiesa non aveva che questi oggetti d'argento: un calice con patena, una pisside, un'ostensorio, tre vasetti per gli olii sacri, una chiavetta del tabernacolo, un calice d'argento con piede di ottone e patena di argento, quattro cassette di legno con vetri per Reliquie guarnite di sottili lastre d'argento, una croce di legno guarnita come sopra con un Cristo di getto: il tutto per un peso di circa sette lirette, e once una e mezzo di argento.
Non furono tuttavia asportati perché poca cosa e di scarso valore di fronte all'oro e all'argento di molte altre chiese ben più ricche e provviste.
La gran maggioranza dei milanesi era così nauseata da tutto questo procedere che quando nel 1799, mentre Napoleone si trovava in Egitto, gli austro-russi rioccuparono la Lombardia, la folla li acclamò col grido: "Viva la Religione, viva l'Imperatore e Re".

Tra un dominatore e l'altro, i paesi di campagna venivano continuamente tartassati. Robbiano il 18 novembre e il 4 dicembre 1799 dovette somministrare all'esercito austriaco tre carri con sei buoi. Il 5 marzo dell'anno successivo il comune notificava che in paese non c'era alcun trafficante, e perciò fu esente dal consegnare vino, aceto ed acquavite all'autorità militare requisitrice. Obbligato invece a consegnare 20 fasci di paglia al magazzino militare di S. Agnese in Milano, i robbianesi sulle prime non ne vollero sapere, ma poi dovettero ubbidire sotto la minaccia dell'intervento della forza armata (11 aprile).
Requisizioni da poco, penserà qualcuno, ma si deve osservare che allora i contadini erano ben più poveri e in miseria che non ai nostri giorni, e che non sempre venivano pagati di quanto erano costretti a consegnare.
Gli austriaci si resero però ben presto odiosi per misure reazionarie e gravose imposte.
Ritornato Napoleone, l'esercito austriaco fu sconfitto a Marengo, e il Bonaparte rientrava in Milano il 21 giugno 1800. Col ritorno dei francesi si ebbero altre requisizioni, e il nostro paesello vi dovette concorrere fornendo carri con buoi, pecore, e fasci di paglia.
Le guerre, come sempre, portano i viveri a prezzi altissimi. Nell'inverno del 1800 il prezzo generale del frumento, ossia l'adeguato, fu di lire 98 al moggio, della mistura lire 80, del riso lire 108, del fieno lire 22 al fascio, della paglia lire 8, e nella susseguente estate il vino oltrepassò le lire cento alla brenta milanese. L'accrescimento dei prezzi favoriva più i proprietari che non i contadini, i quali pagavano l'affitto non mediante una data somma fissa in danaro, ma con una determinata quantità, piuttosto alta, dei prodotti stessi ricavati dai terreni coltivati. Quel tanto di vantaggio che rimaneva ai contadini era annientato o superato dal rialzo degli altri oggetti necessari alla vita e ch'essi dovevano acquistare con denaro.

Nel 1802 nei comizi di Lione veniva proclamata la Repubblica Italiana. Presidente volle essere Napoleone stesso, e vice presidente Francesco Melzi che si circondò di persone oneste e capaci: si respirò alquanto. La religione ed il clero cominciarono ad essere rispettati.
Nel 1786 era sorta tra la casa Petazzi di Giussano ed il comune di Robbiano una vertenza per il diritto di proprietà della fontana, l'unica della quale si serviva la popolazione per attingere l'acqua. La questione durò molti anni. Finalmente nel 1802 il governo repubblicano riconobbe tale diritto al comune, e la fontana fu dichiarata comunale.
Il comune fu però obbligato a comperare del terreno che dalla strada pubblica metteva alla fontana onde aprirvi, in luogo del malagevole sentiero, una strada larga cinque braccia per maggiore comodità, e a praticarvi le necessarie riparazioni e spurghi.
I lavori messi all'incanto dal comune furono assunti dalla popolazione stessa, la quale versò alla chiesa il ricavo netto del lavoro fatto. In quell'occasione si costruì, poco al disotto della fontana, anche un lavatoio comunale, detto al pasquee.
Recentemente quella vecchia strada venne soppressa, e l'acqua della fontana, mediante un condotto, trasportata giù in basso presso la strada che conduce alle cascine Fontana e Marcellina. A complemento si dispose di fronte, al di là della strada, un nuovo lavatoio più igienico. La fornitura dell'acqua potabile da parte del Comune fece di poi scomparire fontana e lavatoio.
Nel 1805 avveniva un'ultima trasformazione: la Repubblica Italiana si tramutava in Regno d'Italia, e Napoleone vi poneva viceré Eugenio Beauharnais con Milano capitale. Il territorio del regno fu diviso in 24 dipartimenti, i dipartimenti in distretti, i distretti in cantoni, i cantoni in comuni. I comuni sommavano a 2155. I comuni perdettero l'autonomia amministrativa introdotta da Maria Teresa, perché, in luogo della rappresentanza comunale dei tre deputati dell'estimo, l'amministrazione comunale veniva concentrata nelle mani di un solo, del sindaco, il quale veniva nominato dal governo. Una disposizione, niente affatto lodevole, attribuiva al sindaco anche l'ufficio di cassiere: egli firmava ed eseguiva i pagamenti, e gli abusi erano perciò inevitabili. Il Consiglio comunale si radunava due volte all'anno per rivedere i conti.
Il comune di Robbiano, avente una popolazione inferiore ai tre mila abitanti, apparteneva ai comuni di terza classe, e come tale l'amministrazione era costituita da un sindaco, due anziani, e un consiglio di quindici membri.
Il Regno d'Italia durò fino al 1814, e se da una parte segnò un momento di splendore col promuovere le arti e le scienze, i lavori pubblici e l'agricoltura, le industrie e i commerci, dall'altra crebbero di anno in anno le imposte e le vessazioni fiscali da giungere negli ultimi anni ad assorbire quasi la metà del reddito effettivo.
Ad aggravare il malcontento vi si aggiungeva la leva militare che pesava sulle popolazioni, e alla quale non erano mai state assoggettate prima della venuta dei francesi, per cui non pochi si rendevano disertori.
Da non pochi si desiderava il ritorno del precedente dominio austriaco.


Eugenio Beauharnais

Colla caduta di Napoleone si sfasciò anche il Regno d'Italia. Con proclama del 21 giugno 1814 la Lombardia e il Veneto furono annessi all'Austria, e con sovrana patente del 17 aprile 1815 le due regioni costituirono il Regno Lombardo-Veneto. Regno per modo di dire, perché il viceré non aveva che una carica rappresentativa: tutto fu legato ai dicasteri centrali di Vienna e di là si governava.
Il Regno Lombardo-Veneto, per tutta la sua durata, non fu considerato che terra di conquista e di sfruttamento a beneficio delle dissestate finanze della monarchia austriaca.
L'Austria non spendeva in paese che circa quattro decimi di quanto ricavava, e il paese fu inoltre spogliato di ogni libera istituzione nazionale precedente.

Nei primi anni l'Austria ridusse le imposte per accappararsi l'affetto delle nostre popolazioni tanto più ch'erano oppresse dalla carestia e dalla febbre petecchiale. La carestia ebbe principio nel 1815, e andò crescendo nei due anni seguenti per inclemenza delle stagioni che fecero fallire i raccolti, e per la sfrenata avidità di guadagno degli incettatori di granaglie, i quali comperando il poco grano disponibile lo rivendevano a prezzi altissimi.
Le popolazioni della campagna soffrivano terribilmente: in molti luoghi della Brianza i poveri contadini furono costretti a cibarsi di erbe miste coi fusti di grano turco e crusca macinata.
Bande di ladri e di assassini infestavano le campagne: la fame purtroppo non ha legge.
Il nostro paesello in quegli anni dovette assistere ad una ben triste scena. Il 2 maggio 1816 giungeva un furgone, scortato da gendarmi, dal boia e dai suoi aiutanti, con tre condannati onde essere impiccati sul luogo del delitto. I condannati furono fatti scendere alla chiesa parrocchiale. Amorevolmente accolti dal curato Meregalli, dal curato di Giussano e da un'altro sacerdote, si confessarono e si comunicarono. Ricevute le ultime estreme parole di conforto, alle 3 del pomeriggio, al luogo detto delle quattro strade, subirono con cristiana rassegnazione il loro triste destino.
Rimasti esposti penzoloni dalle forche per tutto quel giorno alla vista del pubblico, alla sera furono sepolti nel medesimo luogo. Ecco il loro atto di morte come risulta dai nostri registri parrocchiali:
Mille ottocento sedici addì due Maggio.
Daniele Radice d'anni trent'uno, e Dionigi Radice d'anni venti figli di Giuseppe abitanti in Birago, e Giuseppe Pallavicini d'anni venti figlio di Carl'Antonio abitante al Camnaghetto nativo di Cantù in quest'oggi alle tre pomeridiane furono appicati quali agressori di strada al luogo dove si dice alle quattro strade, e dopo essere stati esposti alla pubblica vista tutto il giorno, furono la sera sepolti nel luogo medesimo. Furono li medesimi da me infrascritto Curato, dal Sig. Curato di Giussano, e Sig. Aliprandi sacerdote sussidiario in Desio assistiti in questa Chiesa Parrocchiale di Robbiano coll'averli amministrati li SS.mi Sacramenti di Penitenza ed Eucaristia ed esortati a ricevere con rassegnazione siccome fecero la morte
In fede P.te Francesco Saverio Mere galli Parroco di Robbiano
.

Quale il delitto commesso da quei tre disgraziati, dei quali i primi due eran figli di madre vedova?
La tradizione dice che venuti nell'antecedente estate alla festa di S. Nazaro e Celso in Verano, nel ritorno, un po' alticci, ebbero la cattiva idea di aggredire un sacerdote pure reduce dalla suddetta festa, al quale rubarono non più di 17 lire. In seguito scoperti, furono processati dal Pretorio di Monza, e condannati ad essere impiccati sul luogo del delitto, all'incrocio che fa la strada da Verano a Giussano con quella di Robbiano a S. Giovanni in Baraggia, e cioè dove ora sorge la cascina S. Luigi.
La pena, se la tradizione dice il vero, fu evidentemente sproporzionata al misfatto: vale a dire che la giustizia umana nel punire un delitto ne commise un'altro ben più grave innanzi a Dio.
La Congregazione Centrale di Lombardia cercò di venire in soccorso alle travagliate popolazioni col fondare una Commissione Centrale di Beneficenza (1816): da questa Commissione nel 1823 veniva fondata la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, oggi divenuta una delle più potenti non solo d'Italia ma di Europa.
Il governo ridusse l'onere della leva militare, decretando che la Lombardia dovesse soltanto dare tante reclute da completare quattro reggimenti di linea: il servizio durava otto anni, ma si poteva farsi sostituire.
Si iniziò il servizio sanitario sotto la spinta del colèra che, importato dal settentrione, di tanto in tanto mieteva vittime, come nel 1836, 1849 e 1855. L'ultima sua apparizione nei nostri paesi la si ebbe nel 1867. Di particolare gravità fu l'epidemia del 1836, della quale ce ne parla diffusamente Ignazio Cantù, testimonio oculare (53).
Per il comune di Giussano egli assegna, su una popolazione di 1868 persone, 27 ammalati di colèra con 14 morti, e per quello di Paina, con 905 abitanti, 32 colerosi con 18 morti. Dai registri Parrocchiali della parrocchia di Giussano risulterebbero invece 29 i morti di colèra (dal 16 luglio al 7 settembre), e da quelli della Parrocchia di Paina 4 (seconda metà di luglio). La differenza si spiega - forse, e se non ci sono errori, - col fatto che il Cantù dà la cifra per comune e non per parrocchia: Birone e cascine annesse, come ho già altrove osservato, appartenevano al comune di Paina, ma ecclesiasticamente sottostavano alla parrocchia di Giussano.
La parrocchia di Verano ebbe quattro decessi di colèra tra l'li e il 27 agosto.
Per Robbiano nè il Cantù né i registri parrocchiali segnano alcun morto di colèra: fortunata eccezione.

L'istruzione elementare del popolo, o normale come dicevasi allora, non fu trascurata. Con apposita legge si volle che ogni comune fosse provveduto d'una scuola elementare sorvegliata dai singoli parroci, e da un'ispettore distrettuale dipendente dall'ispettore provinciale. Vi si insegnavano i primi elementi del leggere e dello scrivere, l'aritmetica mentale e scritta, il catechismo e la storia sacra.
Da principio le scuole elementari erano per i ragazzi, e infatti i comuni del distretto di Verano, verso il 1837, contavano 19 scuole per i maschi e una sola per le femmine. Man mano si provvide anche per le figliole.
Ad ogni modo era già molto in confronto del passato. Fin dal 4 settembre 1802 si era promulgata una legge per la quale in ogni comune si dovesse istituire una pubblica scuola primaria, ma la legge durante la dominazione francese rimase quasi lettera morta nelle campagne, pur non mancando scuole private. Invece al finire della dominazione austriaca (1859), si può dire che non frequentavano le scuole un terzo dei ragazzi e un quarto delle ragazze: la maggior frequenza era data dai comuni dell'alta Lombardia e la minore da quelli della bassa.
Ultimo ispettore distrettuale delle nostre scuole fu il benemerito prevosto Caprotti di Carate.

Nel 1816 l'amministrazione dei comuni venne rimessa nell'ordine anteriore alla dominazione francese. Dal convocato o consiglio comunale erano tuttavia esclusi i parroci, i militari, e i debitori verso il comune. I cantoni presero il nome di distretti (oggidì mandamenti), i distretti furono aggregati in circondan, e questi in provincie. Robbiano fece parte del distretto di Verano, circondano di Monza, finché verso il 1842 capoluogo del distretto divenne Carate, dove già risiedeva il commissario distrettuale.
L'imposta fondiaria era di 48 denari per scudo d'estimo, mantenendo così la quota del regno italico. La sovraimposta invece variava ogni anno a secondo dei bisogni dei comuni.
Da un bilancio del 1840 del comune di Robbiano, con una popolazione di 486 abitanti, si ha che la situazione finanziaria del comune portava lire 960.90 per spese di ordinaria amministrazione, più un fondo di riserva per spese impreviste di lire 80.51. L'entrata era costituita di lire 42.08 di rendite ordinarie, di lire 340.86 per tassa personale (e cioè 114 persone a lire 2.99 per testa), e di lire 658.47 dalla sovrimposta di centesimi 3.7 per ogni scudo d'estimo.
Come si vede l'entrata e l'uscita veniva a pareggiarsi intorno ad una migliaio di lire. E la cosa si comprende, quando si consideri da una parte la piccolezza del nostro comune, e dall'altra i proprietari che da soli formavano il consiglio o convocato, i quali non dimorando nemmeno in luogo, tranne uno solo, avevano tutto l'interesse ad aggravare il meno possibile i loro fondi, e quindi a trattenersi nelle spese di pubblica utilità.


Gli austriaci lasciano Milano la notte del 22 al 23 marzo 1848

La Lombardia, nonostante le molte disposizioni che ancora inceppavano il libero sviluppo delle industrie e dei commerci, in quei lunghi anni di pace fece larghi progressi. L'industria e il commercio della seta contribuivano in gran parte alla prosperità della Lombardia.
Nella Brianza, oltre la vite, veniva intensamente coltivandosi il gelso: l'allevamento dei bachi e la filatura della seta divennero l'industria principale; industria che vediamo decadere, e forse per non rimettersi mai più, data la concorrenza della seta asiatica e della così detta artificiale (54). Senonché la stessa relativa prosperità, nonostante la vigilanza di un governo dispotico, sostenuto da una polizia e da una censura oculatissime, eccitava il sentimento e il bisogno di una maggior libertà politica.
L'idea nazionale, non mai spenta dopo la caduta del regno italico, veniva gradatamente guadagnando terreno. Nei 1846 incominciarono a Milano le prime dimostrazioni in occasione dei funerali di Federico Confalonieri, e nell'anno seguente non mancarono agitazioni in varie parti della Lombardia col pretesto della carestia.
Alla morte dell'arciv. card. Gaisruck, i milanesi ebbero un arcivescovo italiano, il Romilli, con grandi dimostrazioni di gioia e intervento ostile della polizia. Nel gennaio del 1848 corse l'intesa fra i milanesi di non fumare per far dispetto all'Austria e danneggiarla nei proventi del tabacco. Nacquero zuffe tra cittadini e soldati provocatori; la polizia incrudelì, donde dimostrazioni e proteste, finché il 22 febbraio il governatore Spaur pubblicava la legge marziale. Il 18 marzo scoppia fulminea in Milano la rivoluzione che prese il nome delle "cinque giornate". Le città, i borghi e i paesi dell'alto milanese fecero causa comune cogli insorti.
Colonne di brianzoli, guidate talora dai loro preti, scesero verso Monza e Milano armati di forche, di falci e di qualche vecchio fucile in aiuto dei milanesi.
Il generale Radetzki colle sue forze abbandonò la città nella notte tra il 22 e il 3 marzo per ritirarsi dietro il Mincio nel quadrilatero formato dalle fortezze di Peschiera, Mantova, Verona, Legnago, mentre l'esercito di Carlo Alberto si avanzava a combattere il nemico e liberare la Lombardia.
La ritirata degli austriaci sollevò tale entusiasmo che i nostri giovani si sfogavano a cantare:

I todesch in andà all'inferno
coi croat a fas rustì

Ma il démone della discordia e la sconfitta dell'esercito piemontese a Custoza (25 luglio) favorì ben presto il ritorno del nemico: il 6 agosto Radetzki rientrava in Milano, proclamando lo stato d'assedio.
Il dispotismo, molto duro nei primi anni, non fece che maggiormente aumentare il desiderio dell'indipendenza e dell'unità nazionale. I milanesi vissero completamente separati dallo straniero dominatore anche quando si tentarono modi lusinghieri: fu una guerra sorda e continua al governo da parte di tutte le classi accomunate nell'ideale supremo. Il fermento per la libertà si esplicava persino nella foggia degli abiti e dei cappelli, non esclusi gli ecclesiastici.


Ritorno degli austriaci - 6 agosto 1848

L'arcivescovo Romilli infatti, con circolare del 10 settembre 1852, dovette richiamare ai sacerdoti l'obbligo di portare il cappello triangolare (la lum) e l'abito talare. E con altro decreto del 16 marzo 1854 il Romilli e i vescovi della Provincia Lombarda, radunatisi a Lodi per trattare i comuni affari ecclesiastici, intimarono ai "Reverendi sacerdoti e chierici diocesani tanto nel tempo delle sacre funzioni, come fuori delle medesime, che il cappello tondo e i calzoni lunghi non possono far parte dell'abito ecclesiastico; e quindi tutti coloro i quali dopo questa dichiarazione e prescrizione contravverranno, incorreranno nelle pene stabilite dal S. Concilio di Trento, dalle rispettive Sinodi Diocesane o dagli Editti dei Vescovi antecessori. Le stesse censure si incorreranno da quelli che non portano la tonsura clericale".
Nel 1854 comparve sulla scena politica Camillo Cavour, e le aspirazioni unitarie si riassunsero nel programma: Italia con Vittorio Emanuele. La monarchia piemontese era ormai alla testa del movimento: i patriotti guardavano e vivevano la vita del Piemonte.


Bartolomeo Romilli. Arcivescovo di Milano

Scoppiata nel 1859 la guerra tra l'Austria e il Piemonte alleato alla Francia, l'Austria fu definitivamente battuta a S. Martino e a Solferino (24 giugno): con la pace di Villafranca (12 luglio) la Lombardia passò al Piemonte per quindi far parte del nuovo Regno d'Italia.
Un triste ricordo lasciò quella guerra fra le popolazioni della nostra plaga per un atto di ferocia del generale austriaco Carlo Urban. Questi, sconfitto da Garibaldi a Varese e a Como, per Camerlata, Cantù, Mariano giunse a Seregno colle sue truppe in ritirata, trascinando con sé tre giovani campagnoli comaschi a casaccio sospettati di essere delle spie. Era il mattino del 28 maggio. Lasciato libero il più giovane dell'età di 12 o 13 anni, gli altri due, nonostante le suppliche del prevosto di Seregno, senza alcun processo che chiarisse il sospetto, e senza i conforti religiosi furono fucilati presso il cimitero.
La brutta notizia si diffuse in un baleno nei nostri paesi. Grande fu perciò il sollievo di tutti quando si seppe che dopo mezzogiorno l'Urban si era allontanato colle sue truppe per riunirsi al grosso dell'esercito austriaco.
Nelle guerre successive per il compimento dell'unità d'Italia non mancarono i robbianesi, e specialmente nell'ultima grande guerra europea (1914-1918), dei quali alcuni decorati con medaglia al valore.


Qual'era la situazione del comune di Robbiano nei primi anni che entrò a far parte del Regno d'Italia?
Il censimento del 1861 gli assegnava 606 abitanti, dei quali 589 di fatto (maschi 306 femmine 283). E nemmeno la parrocchia, benché ne contasse un maggior numero, raggiungeva ancora i mille abitanti (55).
La guardia nazionale era formata di 27 militi attivi.
Gli elettori amministrativi sommavano a 37 nel 1865, più un elettore politico iscritto nel collegio di Vimercate.
Non aveva ufficio postale proprio ma si serviva di quello di Giussano.
Discretamente curata l'istruzione primaria.
Dalle viti e dai gelsi si ricavavano i principali prodotti: nei campi erano pur numerosi gli alberi da frutta. Di minore rilievo risultava perciò il prodotto dei grani, del fieno, dei legumi. Limitata poi la quantità del bestiame.
Questo sistema di conduttura agraria era presso a poco comune agli altri territori circostanti.
Da allora ai nostri giorni quanti e quali cambiamenti! Scomparse a poco a poco le viti e gli alberi fruttiferi, abbandonata la coltivazione dei cereali inferiori (miglio, panico, fave, ecc.) e intensificata quella del frumento e del grano turco; aumentato il bestiame lattifero; sparita la tessitura casalinga vinta dai moderni cotonifici e fioritura di nuove industrie, come ad esempio, quella della mobiglia; diffusa la piccola proprietà; allargata e più curata l'istruzione; ecc.
Alla civiltà agricola e dell'artigianato sta subentrando la civiltà della tecnica e della grande industria.


Partenza degli austriaci da Milano. 5 giugno 1858.


SECONDA PARTE


CAPO I

Prima fioritura cristiana - Le pievi rurali - La pieve di Agliate - Ruderi di un'antichissima chiesuola a Robbiano.


Quando arrivasse su le nostre terre briantine la luce del Vangelo, iniziando la sua lotta vittoriosa contro l'idolatria, non è possibile determinare.
L'imperatore Costantino nel 313 dell'era volgare proclamò, è vero, la libertà del culto cristiano, e in qualche grande città, come a Milano, incominciò a sorgere all'aperto qualche basilica, ma di chiese nelle nostre campagne non si ha memoria che si innalzassero così presto.
Sulla fine di quel secolo troviamo ancora il paganesimo resistente non solo nei territori dell'alta Italia, ma altresì in parecchie città. A Como, per esempio, città a noi vicina, nella seconda metà del IV secolo la religione cristiana non era largamente diffusa, e richiedeva un'intensa propaganda come si rileva da una lettera di S. Ambrogio al vescovo Felice.
A dispetto delle leggi imperiali le nostre popolazioni rurali di stirpe celtica, e specialmente quelle che abitavano le colline ed i monti, rimanevano tenacemente attaccate ai loro antichi culti idolatri. Perciò, come giustamente aveva osservato l'Oltrocchi più di cento anni or sono, all'aprirsi del V secolo una delle maggiori sollecitudini dei vescovi dell'Italia superiore fu appunto quella di attendere con ardore ad estirpare l'idolatria ancora vigoreggiante nelle campagne (56). E questo non deve meravigliare, perché mentre, in generale, il cittadino è più facile alle novità, il rurale è per sua natura più tenace delle proprie idee e abitudini, e delle cose nuove mostra quella diffidenza che talora constatiamo ancor oggi a tanti secoli di distanza e di progresso. E nel caso nostro si trattava di una cosa non da poco, ma di una nuova religione che veniva a capovolgere radicalmente tutto un sistema di .vita e di pensiero da molti secoli preesistente.
Le prime memorie sicure del cristianesimo nella Brianza datano dalla seconda metà del secolo V: di questo tempo infatti sono le più antiche iscrizioni cristiane che si conoscono (57). Dei secoli precedenti nulla abbiamo per potere arguire qualche cosa di certo intorno ai primordi del cristianesimo nelle nostre campagne: non una epigrafe cristiana o scritto qualsiasi, non un rudere di qualche edificio sacro, non una tomba con oggetti sicuramente cristiani.
È verosimile, per altro, che nel territorio milanese incominciasse a sorgere qualche sacello cristiano sul finire del quarto secolo, e più ancora nel secolo seguente, in correlazione alla diffusione del cristianesimo fra i rurali, ma, comunque sia, di essi nulla ci è rimasto.
Si volle da qualcuno, come l'Annoni ed altri che lo seguirono, che la basilica di S. Vincenzo a Galliano, presso Cantù, coll'attiguo battistero ottagonale di S. Giovanni, fosse opera del V secolo. È il solito ripetersi del medesimo equivoco, e cioè dalla certezza che a Galliano esisteva un nucleo di cristiani col loro sacerdote sul declinare del secolo quinto e che quindi ci doveva essere un luogo sacro per le funzioni religiose, se ne volle dedurre che l'attuale basilica col suo battistero rimontasse originariamente a tanta antichità. Altrettanto dicasi della basilica di Agliate che il Corbella assegnò al VI secolo per il fatto che nella prima metà di quel secolo vi era colà un sacerdote.
Si era soliti per il passato, appoggiati alla Datiana Historia, attribuire all'arcivescovo S. Mona, che secondo detta Historia avrebbe governato la Chiesa Milanese dal 192 al 250, l'istituzione delle nostre parrocchie urbane e foresi.
La critica ha invece ormai assodato che quella cronaca non è opera né di S. Dazio e nemmeno del suo tempo, ma lavoro posteriore di molti secoli, ed è inoltre di ben scarso valore perché infarcita di leggende e di errori, frutti dell'immaginazione del tardo scrittore che la compilò o di altri scrittori cui attinse.
Di S. Mona in realtà nulla sappiamo di certo; questo solo si può affermare che visse non molto prima del 313 (58).
S. Dazio, arcivescovo di Milano, lo si volle nativo di Agliate, ma la tradizione o meglio la leggenda, non ha serio fondamento. La porzione dell'abitato di Agliate, oggi civilmente distinta col nome di Borgo S. Dazio non aveva nel passato alcun nome: ciò fu fatto nel 1909 per suggerimento del prevosto don Luigi Colombo, certamente coll'intenzione di rincalzare la diceria di S. Dazio agliatese.
Quando precisamente si formassero le nostre prime pievi briantine o primitive grandi parrocchie di campagna (59), è una questione ancora insoluta e difficile a risolversi per mancanza di documenti.
Nondimeno è evidente che una primitiva qualsiasi organizzazione ecclesiastica rurale presuppone una larga, se non totale diffusione del cristianesimo fra gli abitanti di un dato distretto o pago, per cui si richieda non più l'opera provvisoria di missionari, ma di qualche sacerdote fisso in luogo. E infatti sul declino del V secolo e nella prima metà del VI si ha memoria di preti o diaconi morti e sepolti a Galliano, Agliate, Garlate, Lecco.
Nei primi secoli del cristianesimo nell'alta Italia la sede vescovile costituiva un'unica parrocchia, e presso il vescovo stava la chiesa battesimale e vi dimorava tutto il clero.
Allorquando nel quarto secolo inoltrato dalle città il Vangelo venne a poco a poco propagandosi anche nelle campagne, quei primi fedeli si recavano alla sede vescovile per il Battesimo, appunto perché non c'erano ancora in campagna sedi proprie di culto.
Successivamente col formarsi qua e là delle piccole comunità cristiane rurali si ebbe in luogo qualche sacerdote o diacono, i quali eressero la loro chiesa - la primitiva - ma continuarono a formare giuridicamente un tutt'uno con la chiesa del vescovo da cui dipendevano.
Non era ancora la grande parrocchia di campagna o pieve, quale la troviamo più tardi distinta dalla chiesa madre con un distretto particolare, un proprio patrimonio e un proprio distinta dalla chiesa madre con un distretto particolare, un proprio patrimonio e un proprio clero con alla testa un arciprete, ma il germe di essa che si svilupperà attraverso un lavorìo lento e finirà in un'organizzazione completa in relazione allo sviluppo generale molto avanzato dell'organizzazione ecclesiastica.
Nel mentre che a poco a poco si compiva questa evoluzione venivano pure man mano estendendosi le attribuzioni del presbiterato nelle campagne: si battezzava, si insegnava, si formava un clero proprio, ecc., si esercitavano insomma certi poteri di ordine e di disciplina che prima erano esercitati dal vescovo.
Quando compare l'arciprete l'organizzazione della parrocchia rurale è compiuta.
Come nella cattedrale l'arciprete disimpegnava, in luogo del vescovo, il servizio divino e amministrava i sacramenti, così l'arciprete di campagna - ossia il parroco - rappresentava il vescovo per il servizio divino, l'amministrazione dei sacramenti, e sorvegliava il clero della sua parrocchia (60).
Tutti i fedeli della pieve erano obbligati a partecipare alle funzioni liturgiche parrocchiali presso la chiesa plebana.
Nel milanese il capo pieve è distinto col titolo di custode o di presule o di seniore nell'ottavo secolo, e soltanto nel secolo seguente con quello di arciprete (archipresbiter et custos, archipresbiter), finché coll'introdursi della vita canonica nel clero delle pievi, assunse il titolo di prevosto (praepositus), il quale finì per generalizzarsi ai capi di tutte le pievi, e si mantenne sino al presente, anche dopo che si sciolse la vita canonica del clero. I sopradetti titoli si equivalgono, ma segnano le diverse fasi dell'organizzazione della pieve.
Delle pievi briantine il cui pievano appare per la prima volta insignito del titolo di arciprete è quello di Missaglia nell'anno 835 circa. Ma poiché nella pergamena si accenna a cose di 40 anni prima, quel titolo potrebbe rimontare al secolo precedente ossia allo scorcio del secolo VIII (61).
Quando nel 569 calarono in Italia i Longobardi, possiamo approssimativamente ritenere già abbozzate le nostre più antiche pievi briantine, come ce lo attesta la presenza di sacerdoti o diaconi a Galliano, Agliate, Garlate, Lecco, località che troviamo infatti più tardi centri di rispettive pievi. Dico le più antiche, perché probabilmente non tutte si formarono contemporaneamente, ma dove prima e dove dopo a seconda dell'importanza delle comunità cristiane, delle necessità e dei mezzi economici (62).
Sul declinare del V secolo e nella prima metà del seguente la massa dei beni episcopali tende a frazionarsi giuridicamente ed economicamente, appunto perché, tra l'altro venivano formandosi le parrocchie di campagna con chiesa battesimale o matrice officiata da un clero stabile. Il recarsi del clero alla sede vescovile a ritirare le derrate ad esso assegnate non era sempre decoroso né comodo. Esso poteva tollerarsi quando tutto il clero viveva in città accanto al vescovo. È noto che fino a quel tempo il vescovo era rimasto l'unico amministratore e distributore del patrimonio della sua diocesi.
Le pievi alle loro origini, in linea di massima, si attaccano al pago romano, che come circoscrizione territoriale fu sostanzialmente rispettato anche dai barbari invasori, e questo secondo una diffusa teoria la quale sostiene che come al municipio romano si sostituì ecclesiasticamente la diocesi, così al pago la pieve. Teoria, per altro, da non prendersi in modo assoluto, poiché consta di diocesi e di pievi che si formarono all'infuori dei quadri civili dell'amministrazione romana.
All'epoca del basso impero la campagna si divideva in distretti o pagi con un determinato territorio, i quali si reggevano con una propria organizzazione civile e religiosa ad un tempo. Ogni pago aveva i suoi capi detti magistri ai quali spettava regolare gli affari interessanti il loro territorio, come ad esempio la distribuzione e riscossione delle imposte, la costruzione e manutenzione delle strade, i provvedimenti di pubblica sicurezza, ecc.


La basilica di Agliate

Al capoluogo del pago si andava pure per le feste religiose a cui partecipavano tutti gli abitanti: erano annuali, e consistevano in lustrazioni o processioni per impetrare dagli Dei la salute, la fertilità dei campi, ecc., e si concludevano col sacrificio propiziatore.
Orbene la Chiesa non avrebbe fatto altro che opportunamente ricalcare sul pago la sua circoscrizione parrocchiale pievana, adottando la maggior parte delle consuetudini locali, e volgendo in onore del vero Dio le feste e le processioni che prima si facevano in onore degli dei falsi e bugiardi, eliminando naturalmente quanto non era conciliabile col cristianesimo.
E come il pago aveva un capoluogo distinto dai centri minori (vici), così anche la pieve ebbe il suo centro, ossia la chiesa battesimale, e i villaggi minori furono chiamati cappelle (capellae) dalle chiesine che venivano sorgendo in essi; le imposte e le decime continuarono ad essere distribuite e riscosse in base alle antiche organizzazioni rurali.
Lungo le vicende dei secoli successivi, le pievi devono essere andate soggette a delle confusioni ed usurpazioni nei confini del loro rispettivo territorio, se ad evitare tali incertezze il re Lotario nell'824, con legge generale, volle che si ricostituissero i termini alla giurisdizione di ciascuna chiesa plebana e le si assegnassero i villaggi da cui si dovevano esigere le decime. Osserva il Giulini che, dall'assegnamento fatto di questi luoghi a ciascuna pieve, ne nacque una più precisa fissazione dei termini di ciascun territorio detto pieve, che si mantenne inalterato nei secoli posteriori (63).
Il pago romano agliatese doveva avere il suo centro in Agliate: in questo ci conferma il fatto di trovarsi Agliate quasi nel punto centrale del pago, e in località allora, più che adesso, importante per il passaggio del Lambro: gli oggetti romani trovati in luogo (iscrizioni, monete, ecc.), sarebbero, a parer mio, la riconferma.
Qualcuno, arguendo dall'elegante capitello conservato nella locale basilica con due delfini che si dissetano ad un'anfora da cui emerge un tridente, ha pensato che ad Agliate sorgesse un delubro dedicato a Nettuno, il dio delle acque. Che ad Agliate vi fosse qualche edificio innalzato al culto pagano è più che verosimile, ma che fosse dedicato a Nettuno non si può asserire con certezza, perché il capitello poté appartenere anche a qualche terma e quivi trasportato come materiale di fabbrica. Ad ogni modo la sua fattura ci parla di arte romana in fiore, di quando cioè il cristianesimo non era ancor giunto nelle nostre parti.

Coll'affermarsi del cristianesimo il pago romano agliatese si sarebbe trasformato in pieve: al delubro pagano venne sostituita una chiesa cristiana.
La più antica memoria cristiana di Agliate è del secolo VI, e cioè quella del presbiter Garibano, a quanto sembra, quivi morto nel 540, se però quell'iscrizione, oggi scomparsa, la quale fu copiata dal Branca e pubblicata dall'Allegranza, è autentica. Col prete Garibano ci sarà stata una chiesuola, non però l'attuale che è assai posteriore (64).
Nel medioevo la chiesa plebana o battesimale continuò ad essere la parrocchiale per tutta la pieve, ed in essa si svolgeva l'ordinamento giuridico, amministrativo ed economico che vediamo nella parrocchia rurale odierna. Perciò i nostri antenati scendevano ad Agliate per le funzioni parrocchiali e per il battesimo dove sorgeva l'unico battistero.
Fin verso il mille, il battesimo pubblico veniva di regola conferito alla vigilia di Pasqua e di Pentecoste, e i fanciulli venivano battezzati, eccetto nel caso di pericolo di morte, quando erano giunti ad una certa età. Il messale ambrosiano conserva ancora le due messe di vigilia che si celebravano in quella circostanza.
Ad Agliate stava il prevosto, unico parroco, coadiuvato da canonici e da cappellani.
Il complesso del clero di una chiesa matrice si chiamava de ordine in quanto era ordinato e incardinato stabilmente per titolo di ordinazione (titulus ordinationis) presso una chiesa matrice. L'ordo di ciascuna pieve si differenziava col nome del santo cui era dedicata la chiesa stessa. Infatti in un documento del 1065 si ha che un sacerdote veranese di nome Giovanni "de ordine sancti petri" di Agliate, e cioè appartenente al clero di quella matrice, assicurava su alcuni suoi fondi un legato perpetuo di dodici denari d'argento, da pagarsi ogni anno alla chiesa di S. Giovanni Battista in Monza, per un anniversario da celebrarsi in suffragio dell'anima di suo padre. L'atto fu rogato in Verano dal notaio Lanfranco.
Il titolo di ordinari rimase poi solamente quale distintivo dei canonici del capitolo metropolitano.
Nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, della fine del secolo XIII e volgarmente attribuito a Goffredo da Bussero, si dice che la pieve di Agliate contava, oltre le esenti, 57 chiese con 71 altari: " Prepositus aliate sine exemptis habet in ecclesiis LVII. altaria LXXI " (op. cit., p. 410).



IL battistero di Agliate.


Le chiese della pieve d'Agliate che troviamo citate nel Liber sarebbero una sessantina circa, delle quali tre dedicate a S. Ambrogio ed una a S. Giorgio lo sono indirettamente, il che prova che non tutte furono elencate dal compilatore. Quella che verrò sottolineando divennero col tempo le parrocchiali.

Ecco l'interessante elenco:
ALBIATE (albiate) - chiesa di s. Giovanni apostolo, di s. Pietro apostolo.
AGLIATE (alliate, aliate) - chiesa di s. Pietro apostolo nella canonica, di s. Giovanni Battista, di s. Maria, di s. Eustorgio, di s. Lorenzo, e gli altari di s. Andrea nella canonica, di s. Agata nella chiesa di s. Pietro, di s. Biagio nella canonica, di s. Pietro martire nella chiesa di s. Pietro. Presso l'altare di s. Andrea si celebrava la festa di s. Romano. Nella località di Agliate detta " in grepi " vi era un'altra chiesa dedicata a s. Maria; località che non saprei identificare. S. Eustorgio sorgeva dove oggi è la Rovella.
(COSTA LAMBRO) - Nel castello di Agliate (in castro de alliate), che sorgeva là dove poi si formò il villaggio e la parrocchia di Costa Lambro, o d'Agliate come dicevasi più anticamente, eravi la chiesa di s. Martino, di s. Maria, di s. Lorenzo, ed un altare dedicato a s. Adriano.
S. GIOVANNI IN BARAGGIA (baracia apud robianum) - la canonica di s. Giovanni apostolo. - Chiesa certamente allora la più importante della pieve dopo la plebana in quanto era canonicale. Ed è appunto citata anche in fine del Liber fra le canoniche della diocesi: " sanctus iohannes in barcia "cioè in bar(a)cia o in Baraggia. Oggi è frazione della parrocchia di Robbiano.
" IN BERNEDO " - chiesa di s. Maria. - Quale località in pieve di Agliate vi corrisponda al presente non saprei dire.
BESANA (besana) - chiesa di s. Pietro con s. Marcellino.
BRIOSCO (briosco) - chiesa di s. Vittore, di s. Ambrogio, di s. Gregorio, di s. Maurizio. Vi era inoltre un altare di s. Brandano, e un altro di s. Caterina nella chiesa di s. Ambrogio.
(CASTELLANZA DI BRIOSCO) (castelantia de briosco) - chiesa di s. Michele. Località evidentemente presso Briosco, e che ci ricorda un castello.
BRUGORA (burgora, brugora monasterio) - chiesa di s. Pietro apostolo con altari a s. Maria, a s. Nicola, a s. Caterina, ed un'altro di s. Pietro martire nel monastero. - L'indice toponomastico del Magistretti distingue Burgora da Brugora monastero quasi fossero due località distinte: in realtà è una sola cioè il monastero la cui chiesa era dedicata a s. Pietro apostolo. È frazione di Montesiro.
BOSCHETTO DI CARATE (ad buscetum de carate) - chiesa di s.Salvatore. Questa località, assegnata nel testo alla pieve di Agliate, corrisponde all'attuale cascina di s. Salvatore oggi in parrocchia di Seregno. Questa chiesa e l'annessa cascina era anticamente di proprietà dell'ospedale di Carate fondato dal beato Zapelli.
CALO' (calloe, caloe) - chiesa di s. Vitale e Agricola, di s. Maria.
CAPRIANO (capano) - chiesa di s. Michele con s. Stefano. CARATE (carate) - chiesa di s. Ambrogio, di s. Simpliciano, di s. Michele, di s. Sisino. - Vi era un altare di s. Maria nella chiesa di s. Ambrogio. Anche s. Simpliciano, oggi scomparsa, fu per molto tempo parrocchiale, poiché due erano le parrocchie di Carate. Caduta in rovina, i due curati funzionarono parrocchialmente nella chiesa di s. Ambrogio, finché coll'erezione in prepositura collegiata della chiesa di s. Ambrogio, il parroco di s. Simpliciano divenne semplice teologo della collegiata.
CAZANO (cazano) - chiesa di s. Clemente. È frazione di Besana.
CORREZANA (corroziana) - chiesa di s. Desiderio. Già frazione della parrocchia di Lesmo, e ultimamente elevata a parrocchia. Se Correzana al tempo del Liber apparteneva alla pieve di Agliate e Lesmo a quella di Vimercate, oggi nel 1968 formano un solo Comune, e le sue parrocchie fanno parte del Vicariato foraneo di Casatenovo. Potrebbe anche darsi che Correzana in pieve di Agliate sia una svista di Goffredo. Oggi Correzana forma un sol comune con Lesmo, ma ecclesiasticamente Lesmo lo troviamo nel Liber in pieve di Vimercate nel 1398 e altrettanto nel 1584. CORTENOVA (cortenova) - chiesa di s. Michele. L'indice del Magistretti la pone in Valsassina, ma probabilmente qui si tratta di Cortenova Brianza, già frazione della parrocchia di Besana, oggi parrocchia in luogo, dove esisteva anticamente una chiesetta di s. Michele. - In Cortenova di Valsassina la chiesa era dedicata a s. Ambrogio con un altare di s. Maria ed un altro di s. Protaso: la parrocchia è oggi dedicata a s. Gervaso e Protaso. In Cortenova Brianza la nuova parrocchiale fu dedicata al SS. Redentore.
GIUSSANO (gluxiano, guxano) - chiesa di s. Filippo e Giacomo, di s. Stefano, di s. Damiano. L'indice del Magistretti distingue gluxiano da guxano, ma sono una medesima località. S. Stefano e s. Damiano erano due chiesette campestri ora scomparse: la prima sorgeva dove ora c'è il cimitero comunale, e l'altra alla cascina s. Damiano.
" INCICON " (?) - chiesa di s. Giovanni apostolo. Dove si trovasse questo luogo, così specificato nel testo in pieve d'Agliate, non saprei.
MONTESIRO (monte, monti) - chiesa di s. Ambrogio, di s. Andrea, di s. Nazaro, e un altare di s. Siro ed un'altro di s. Michele nella chiesa di s. Ambrogio. Di monte e monti l'indice ne fa due luoghi distinti, ma non sono che uno solo. La parrocchiale è ora dedicata a s. Siro.
RANCATE (in burgo rancate) - chiesa di s. Caterina. - L'indice identifica questo luogo con Rancate in pieve di Agliate. Ma forse qui si tratta di una località di Milano o sue immediate vicinanze, poiché il testo parla delle chiese e altari di Milano. Se la chiesa fosse stata in pieve di Agliate l'avrebbe certamente elencata più sopra colle altre chiese e altari di s. Caterina esistenti nella pieve o quanto meno fra le chiese foresi dedicate a questa santa.
RENATE (retenate) - chiesa di s. Donato.
" RIVORA " - chiesa di s. Giorgio con un altare di s. Cristoforo. Non saprei indicare con certezza la località oggi corrispondente. Forse Riverio, frazione di Costa Lambro? o meglio Rigola, frazione di Villaraverio?
ROBIANO (robiano, robiate) - chiesa di s. Quirico con un altare di s. Apollinare. Il testo ha erroneamente robiate e così pure l'indice fa con errore di robiano e robiate in pieve d'Agliate due luoghi distinti.
SOVICO (somovico) - chiesa di s. Fedele. La parrocchiale odierna è dedicata a s. Simone e Giuda apostoli: di una chiesa allora dedicata a questi due santi apostoli in Sovico non vi è cenno nel Liber.
TORNAGO (tornago) - chiesa di s. Salvatore. La chiesa era forse là dove ora s'innalza il maestoso sepolcreto marmoreo della famiglia dei duchi Visconti-Modrone. Senonché Tornago è frazione di Renate (quindi pieve d'Agliate), mentre s. Salvatore lo è di Cassago (pieve di Missaglia).
TRIUGGIO (tredugio) - chiesa di s. Antonino milite.
TREGASIO (tregax) - chiesa di s. Stefano. La nuova parrocchiale è dedicata a s. Gervaso e Protaso.
TREMOLADA (tremorata) - chiesa di s. Faustino e Giovita. È frazione della parrocchia di Veduggio.
VALLE GUIDINO (valle) - chiesa di s. Maria.
VEDUGGIO (vedugio) - chiesa di s. Martino. L'indice pone un punto interrogativo riguardo alla sua appartenenza alla pieve, ma è realmente Veduggio in pieve di Agliate.
VERANO (veirano) - chiesa di s. Nazaro, di s. Faustino e Giovita, di s. Faustino e Sigismondo, di s. Tomaso apostolo, di s. Giorgio con s. Vincenzo. - Il titolo di s. Giorgio aveva annesso un beneficio che poi passò a far parte del beneficio parrocchiale di Robbiano.
VERGO (vergo) - chiesa di s. Protaso con un altare di s. Caterina ed un altro dedicato a s. Stefano.
VIANO' (viganore) - chiesa di s. Alessandro. - Vianò nelle antiche carte si diceva appunto Viganore o Vianore. È frazione della parrocchia di Renate. La chiesa od oratorio di s. Alessandro fu anticamente la prima parrocchiale di Renate ed aveva annesso un beneficio di circa 250 pertiche.
VILLARAVERIO (villaravè, villaraverio) - chiesa di s. Eusebio, di s. Maria. Villaravè e Villaraverio non sono due località distinte, come vuole l'indice, ma una sola.
ZUCCONE (zuchono franco) - chiesa di s. Biagio. Oggi è frazione della parrocchia di Tregasio e del comune di Triuggio.
ZUCCORINO (zucorino) - chiesa di s. Zenone. È frazione della parrocchia di Vergo.

Da un'altra pubblicazione del Magistretti, e cioè dal Notitia cleri mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem, si rileva che la plebana di Agliate aveva un prevosto e dieci canonici con 22 cappelle o chiese sparse nei villaggi della pieve, un ospedale ed una casa di Umiliati a Carate, un monastero di Benedettine a Brugora, e una casa di Umiliate a Briosco.
Di ciascun beneficio è dato il relativo accertamento d'estimo, e sono probabilmente, almeno per molti, i cespiti che col tempo dovevano diventare i benefici parrocchiali. La lira imperiale usata nel milanese si divideva in 20 soldi, e il soldo in 12 denari.
Quale fosse nel 1398 il valore della lira imperiale non sarebbe facile precisarlo: stando al computo fatto dal Pagani nel 1888 equivaleva nel 1334 a lire 150 delle nostre, e andò deprezzando fino a lire 100 nel 1409. Equivalenza che necessariamente oggi andrebbe proporzionata al valore corrente della nostra moneta.

Canonica S. Petri de Aliate L. S. D.

D. Prepositus dicte Canonice 3 7 2

Pbr. Iohannes de Gluxiano 1 13 7
D. Antonius de Gaytonibus. 1 15 7
D. Iohannes de Vicecomitibus 1 13 7
D. Enrichus Confanonerius 1 8 -
Christoforus de la Strata 1 8 -
Pbr. Antonius Confanonerius - 5 1
Christoforus de Gluxiano - 5 7
Georgius Canda - 5 7
Petrinus de Giochis - 5 7
Antonius de Nava - 5 7

Capellani de Aliate.
Capella SS. Protaxii et Gervaxii de Besana 3 18 3
" SS. Petri et Marcellini ut supra 8 7 9
" suprascripte ecclexie 8 7 9
" de Bruschoe (65) 1 12 6
" de Viganore (66) 3 12 3
" de Castelantie (67) 2 4 9
" de Briuscho 4 - 4
Capella de Trongio (68) - 16 10
" de Valle 2 4 9 " de Villarapario 1 13 7
" de Caloe 2 4 9
" de Vergo 3 18 4
" de Monte 5 - 5
" de Cazano 2 4 9

" de Sovico 2 13 7
" de Habiate (69) 2 4 9
" S. Simplitiani de Carate 2 15 1
" S. Ambrosij ut supra 3 3 2
" Capelle de Bazijs (70) 2 - 8
" de Verano 2 15 11
" de Robiano 3 7 2
" de Gluxiano 3 18 4

Domus suprascripte plebis:
Domus fratrum humiliatorum de Carate 29 1 7
Monasterium de Brugola 28 - 2
Domine humiliate de Brioscho 3 1 6
Hospitale de Carate 13 7 11

E, a costo di annoiare il lettore, voglio riportare un terzo ed ultimo elenco delle chiese della pieve di Agliate del 1564. Lo ricavo dal " Liber Seminarii Mediolanensis " ossia catalogo del clero della città e diocesi di Milano, colla tassa da pagarsi da ogni rendita beneficiaria per la sostentazione dell'erigendo Seminario, compilato in quell'anno.
Di questi cataloghi ce ne furono poi parecchi, ma questo del 1564 ha, dal punto di vista del quale si tratta, un'importanza speciale in quanto fu compilato prima che S. Carlo assumesse personalmente il governo della diocesi e vi operasse trasformazioni.
Non è tuttavia sempre preciso nella distinzione fra cappelle e rettorie e nel nome degli investiti dei benefici, almeno per quanto riguarda la nostra pieve.

Canonica de Santo Petro d'Aliate. L. S. D.
PP.ra de Santo Petro d'Aliate divixa in dua parte 4 6 -
una de d.no Annibal Tagliabò, l'altra de
d. no Andrea de Clapis . .
Canonicato alias de d.no Benar (sic) Massaglia - 17 -
Rettoria de Santo Gervasio et Prothasio de d.no
Francesco di Riboldi 3 12 -
" de Santo Petro et Marcelino de Bexana:
per una portione de d.no Ambr.o da Corte 18 - -
l'altra portione de la sudetta rettoria de
d.no Iulio da Riva 17 - -
Item per la cappella de Santa Catherina 16 - -
Cappella de Santa Catterina de Bruscò cum Tabiagho
de d.no Gaspar di Maueri 1 4 -
" de Santo Martino Castelatio (71) de d.no
Petro martire Confanonerio 5 - -
Rettoria de Santi Ambrosio et Vittore de Briosco
de d.no Hieronimo Cassiano 7 12 10
" de Santo Antonio de Trivultio (72) de d.no
Georgio Scotto 2 5 -

Rettoria de Valle de d.no Micino da Caxate 1 11 3
" de Villa Raparia de d.no Franc.o Riboldo 3 - -

Cappella sive Rettoria de Caloe de d.no Dionisio
Boldizono 1 4 -

Rettoria de Santo Gervaxio et Prothaxio de Vergo
seu Santa Catharina de Vergo de d.no
Francesco Besozo 9 2 -

Rettoria de Santo Sirro de Monte de d.no Io: P.ro
Lombolato 11 - -
" de Cazano de d.no Io: Maria Tonsi 2 16 -
" de Sovico de d.no Francesco Iximbardo 1 4 -

Cappella de Santa Maria ne la detta chiesia 1 6 -

Rettoria d'Albiate de d.no Orlando Pelizaro 5 10 -
" de Santo Simpliciano et Ambrosio de
Caratte divixa in due parte: una de
d.no Annibal Taliabò et l'altra de
d.no Ambr.o Scolla 10 - -

Cappella de quelli di Bugi in detta chiesia
de d.no Francesco Perbono 8 14 -

Rettoria de Santo Nazario et Celso de Verano
de d.no Dionisio Giussano 8 - -

Item per la cappella de Santo Ioanne in
Baladia (73) 18 - -

Cappella de Santa Maria de Caladroe (74)
de d.no Xph.o Briosco 3 8 -

Rettoria de Santa Maria de Vedugio de d.no Io:
Petro di Soldi 1 12 -

Cappella de Verano con la cappella de Santo Quirico
de d.no Io: Andrea Giussano (75) 2 16 -

Rettoria sive cappella de Santo Iacomo et Filippo
de Giussano de m. Marc'Antonio Giussano (76) 5 6 -

Cappella sive rettoria de Santo Stephano de Giussano
de d.no Francesco Giussano (77) 9 12 -

È da ricordare che il territorio della vasta pieve fu diviso in due parti dal cardinal Gaisruck con decreto del 25 aprile 1838, non lasciando al parroco locale che la sola dignità prepositurale.
Alla chiesa di Carate, già prepositura capitolare in luogo fino dal 1760, furono aggregate le parrocchie di Briosco, Costa Lambro, Verano, Robbiano, Giussano, Albiate, Sovico, Rancate, Triuggio; alla chiesa di Besana, eretta in prepositura in quell'occasione essendovi parroco D. Giovanni Corti che poi fu vescovo di Mantova, le parrocchie di Calò, Canonica, Capriano, Monte, Renate, Valle, Veduggio, Vergo, Villaraverio.
La ragione di questo provvedimento fu che Agliate era luogo troppo piccolo e scaduto dall'antica importanza, mentre Carate e Besana erano divenuti i paesi preminenti della pieve. Del resto San Carlo stesso aveva divisato di trasferire a Carate il centro della pieve.
Il card. Ferrari, dietro supplica del prevosto D. Luigi Colombo, ritenne invece opportuno richiamare all'antica matrice le parrocchie di Briosco, Costa Lambro, Vergo e Calò con decreto del 28 ottobre 1901, conferendo quindi al prevosto, come di uso, la carica di Vicario Foraneo.
In Robbiano non conosco memoria più antica di chiese all'infuori di quella di S. Quirico dataci dal Liber sopracitato.
Tuttavia va ricordato che nell'agosto 1910, mentre si facevano gli scavi per l'allungamento del coro della parrocchiale, si scoperse ad un metro di profondità dal terreno sovrastante, un tratto di muro dell'altezza di circa un metro dalla base, con l'intonaco affrescato.
Il muro composto di calce, ciottoli, tufo e grossi mattoni, correva diritto da sud a nord per qualche tratto poi volgeva a semicerchio.
Su la parte diritta del muro, l'affresco, con alto zoccolo dai colori verde e nero, era a linee geometriche di colore rosso sul bianco. L'intonaco della parte a semicerchio invece recava dipinte tracce di quattro figure umane nella posa di chi cammina, su uno sfondo di pavimento affrescato a bianco e nero dal quale si innalzava una colonna: lo zoccolo di 20 cent. d'altezza era disegnato a grossi e larghi mattoni. Ben conservati erano i piedi delle figure calzate di sandali e la parte inferiore di una figura con la vestaglia color rosso scarlatto.
Quel tanto di pavimento rimasto, sul quale si appoggiava il muro, era formato di un impasto di calce, sabbia e mattone pesto: ben levigato alla superficie, aveva un sottofondo di grossi ciottoli.
Si trattava evidentemente di un locale absidato.
Chiamai per un sopraluogo l'archeologo dott. Antonio Magni di Calpuno, il quale, giudicando dal materiale di costruzione e specialmente dal tufo, dedusse trattarsi probabilmente di una antica chiesuola cristiana con abside forse del secolo VIII o IX.
Si noti, per altro, che il tufo è un prodotto della vicina valle del Lambro, un materiale quindi che si poteva avere in ogni tempo facilmente sottomano; e che gli avanzi di quell'affresco non avevano la forma secca e stilizzata delle pitture cristiane medioevali, ma, chiari e vivi, rassomigliavano per la tecnica a quelli del Rinascimento.
In ogni modo il muro cogli affreschi non venne distrutto ma di nuovo interrato, e si trova davanti all'ultima finestra della chiesa che guarda nel cortile presso il portico della casa parrocchiale.
Inoltre nel 1912, scavandosi le fondamenta della nuova casa coadiutorale, al di là della strada, di fronte al coro della chiesa, vennero alla luce due pavimenti di stanze pure impastati con calce, sabbia e mattone pesto, frammezzati da un grosso muro maestro corrente da sud a nord: i pavimenti poggiavano su grossi ciottoli e sotto a questi stava uno strato di carbone di legna, certamente messovi per tener lontano l'umidità.

CAPO II

Formazione delle odierne parrocchie rurali - Visita pastorale di S. Carlo alla parrocchia di Robbiano - Misero stato della chiesa parrocchiale - Divozioni e usanze - Visita pastorale di Federico Borromeo - Suoi decreti - Erezione della parrocchia di Paina.


Nel 1466 troviamo già una buona parte delle antiche cappelle delle nostre pievi trasformate in parrocchie, o per dire meglio rettorìe, come si raccoglie dallo Status Ecclesiae Mediolanensis di quell'anno; e con decreto del 26 settembre 1468 l'arcivescovo Nardini riservava a sé per l'innanzi l'approvazione dei sacerdoti eletti a benefici in cura d'anime.
Non erano tuttavia parrocchie nel pieno senso giuridico odierno della parola; lo erano di fatto ma non di diritto, poiché la plebana continuava ancora nella legislazione ecclesiastica ad essere considerata la vera parrocchia. Il Concilio Tridentino riconobbe poi anche canonicamente la nuova situazione ch'era venuta formandosi, e in tal modo le parrocchie dei villaggi lo furono altresì di pieno diritto.
L'assestamento definitivo, poiché c'era molto disordine e confusione, verrà impresso da S. Carlo coi suoi sinodi provinciali e diocesani, in base ai decreti del sopradetto Concilio, il quale aveva perciò concesso ai vescovi facoltà straordinarie per le riforme richieste dai bisogni locali, e via via perfezionato, sulle sue orme, dagli arcivescovi successori.
Benché non manchi, dalla fine del secolo XIII in poi, qualche esempio di parrocchia eretta canonicamente, nondimeno si deve ritenere che - in generale - le parrocchie odierne si formarono per naturale e necessaria evoluzione, in correlazione allo svolgersi della vita sociale e religiosa, dove prima e dove dopo, a seconda dell'importanza dei luoghi, della popolazione, e dei mezzi economici al loro funzionamento.
Il procedimento evolutivo dall'antico ordinamento parrocchiale plebano verso il nuovo dev'essere incominciato, quasi inavvertito, molto tempo prima del 1466 per estendersi gradatamente, perché tutte le istituzioni prima di giungere a maturità passano attraverso un lavorìo più o meno lungo di evoluzione, e tanto più quelle ecclesiastiche, essendo la Chiesa per sua natura tenace delle antiche consuetudini.
Né in questo può fare difficoltà, a mio avviso, la Notitia cleri del 1398, nella quale non vi è segnata parrocchia alcuna all'infuori della plebana o canonica, sia perché trattandosi di un estimo il compilatore può aver seguìto il metodo di simili lavori anteriori senza preoccuparsi di cose non inerenti al suo scopo. sia perché le parrocchie odierne erano sul formarsi e non ancora canonicamente riconosciute.
A Giussano, per esempio, in un documento del 29 novembre 1367 il sacerdote Andrea Ghiringhelli (De giringelis), è dichiarato beneficiato e rettore (beneficialis et rector) della chiesa dei santi Filippo e Giacomo. Il rettore fu qualchecosa di mezzo, difficile a precisare nelle sue attribuzioni, tra il semplice cappellano e il parroco propriamente detto dopo la riforma Tridentina.
I tempi del Rinascimento per un complesso di cause, segnarono un rilassamento nella fede e nei costumi, nonostante lo splendore delle lettere e delle arti. Ne avvenne, tra l'altro, che mentre prevosti e canonici, investiti talora di più benefici, non facevano per lo più residenza, e il cattivo esempio scendeva dall'alto perché facilmente vi si assentavano anche i vescovi e gli arcivescovi, dall'altra la cresciuta popolazione più non voleva saperne di portarsi per le funzioni parrocchiali alla lontana plebana. Per necessità di cose i beneficiati, addetti alle cappelle o chiesette dei villaggi, incominciarono ad essere e ad operare indipendentemente dal pievano.
Originarono in tal modo le rettorìe di campagna, e, poiché mancava naturalmente un piano prestabilito, sorsero caoticamente e per lo più senza quanto era necessario al culto.
Si era giunti al punto che in ogni località, anche di pochissimi abitanti, dove c'era un prete beneficiato, si prese a funzionare parrocchialmente.
S. Carlo dovette perciò con misure radicali, non solo provvedere alla restaurazione della disciplina ecclesiastica, ma operare unioni di benefici, traslazioni di titoli, soppressioni ecc., tanto da avere parrocchie discretamente dotate per il loro funzionamento. Persino a Brugora, presso Montesiro, nella chiesa delle monache si battezzavano dal cappellano i coloni dipendenti dal monastero.
Lo sfasciarsi dell'antico ordinamento plebano aveva inoltre recato un grave danno all'educazione e istruzione del clero, perché quando la pieve era effettivamente l'unica parrocchiale di tutto il suo territorio, presso la matrice si formava regolarmente il proprio clero e dal pievano stesso riceveva gli ordini minori.
Nel periodo di transizione dall'antico al nuovo regolamento parrocchiale Tridentino, il clero delle campagne veniva invece, per forza di cose, e nel migliore dei casi, per lo più reclutato fra i giovani che prestavano più o meno servizio presso le chiese, e singolarmente dalle loro famiglie avviati al sacerdozio senza la debita preparazione ed istruzione.
Un clero così fatto non poteva essere all'altezza del suo compito. Di qui la ragione per cui una delle opere più urgenti cui pose mano S. Carlo fu l'erezione dei Seminari.

S. Carlo, creato arcivescovo di Milano nel 1560, facendovi permanente residenza dal 1565 fino alla sua morte avvenuta nel 1584, trovò la sua diocesi, come tutte le altre della provincia ecclesiastica milanese, quanto mai bisognosa di riforme.
Da oltre mezzo secolo la nostra diocesi più non vedeva i suoi arcivescovi; nominati si accontentavano di riscuoterne le rendite, delegando ad altri il governo immediato della diocesi. Il clero, specialmente nelle campagne, lasciava molto a desiderare per scienza e zelo sacerdotale, mentre il popolo vegetava in una fede spesso offuscata dall'ignoranza e dalla superstizione. Molti beni di chiese erano andati usurpati o danneggiati, e le chiese stesse trascurate e mancanti, più o meno, di quanto era necessario al divin culto e all'amministrazione dei Sacramenti.
Alcuni biografi di S. Carlo dipingono a più fosche tinte le condizioni religiose e sociali del tempo, probabilmente per dare maggior risalto all'opera di riforma svolta dal santo, generalizzando cose e fatti particolari, quasi non bastasse quel molto che già esisteva nella realtà. Ma non bisogna esagerare, giudicando superficialmente una situazione sociale e religiosa complessa nelle sue cause e nei suoi effetti.
Ad ogni modo, se in generale il nostro clero di campagna non brillava per scienza, capacità e zelo, e non poteva essere altrimenti mancando ancora i Seminari, era tuttavia, nel complesso, di buona condotta morale relativamente ai tempi; d'altra parte il popolo si conservava moralmente sano forse più che ai nostri giorni, per quanto nei suoi doveri verso Dio avesse non poca parte l'ignoranza e la superstizione, e non mancassero qua e là, come anche nella nostra pieve, certi disordini quali il lavorare in giorno di festa, il ballo, il giuoco, ecc. Disordini del resto, più o meno, di tutti i tempi.
Se mai il vero marcio era più in alto.
Necessitava, più che altro, per rialzare il tenore della vita religiosa, un arcivescovo energico riformatore e organizzatore, e questi fu per noi provvidenzialmente S. Carlo.


S. Carlo Borromeo

Il santo arcivescovo si mise tosto all'opera per porvi rimedio.
Mandò suoi delegati di fiducia in ogni pieve della diocesi per una ricognizione onde emanare i più urgenti decreti (78), e quindi intraprese personalmente la visita pastorale.
La nostra pieve fu da lui visitata nell'agosto del 1578. Aveva già iniziata la visita, incominciando da Agliate, quando impegni urgenti lo richiamarono a Milano. Ma desiderando finire l'opera incominciata, il 24 agosto, ch'era in domenica, partì da Milano arrivando a Desio, (hora una cum dimidia noctis), dove pernottò. Al lunedì di buon mattino giunse alla parrocchiale di Giussano ricevuto dal parroco, dai cappellani, dai nobili e dal popolo del luogo. Compiute le sacre cerimonie della visita, celebrò la messa, distribuì la comunione ai fedeli e amministrò la cresima a circa 400 persone.
Parroco era D. Francesco Crespi dell'età di 27 anni, ordinato sacerdote da S. Carlo il 17 dicembre 1575, e successo il 4 gennaio 1576 al curato D. Amadio Durado cremonese (79). La parrocchia contava circa 850 anime in 130 focolari o famiglie.
La chiesa parrocchiale, di recente costruzione, fu trovata abbastanza ampia ma ancora incompleta. Quella vecchia, ch'era stata atterrata per dar posto alla nuova, era stata consacrata dal vescovo Ferragata.
Tra i non pochi decreti lasciati dal santo arcivescovo riguardanti la chiesa, le confraternite o scuole, gli oratorii, i legati, ecc., meritano di essere ricordati quelli per una saggia ed oculata amministrazione dei beni dei poveri. Questa scuola o cassa dei beni dei poveri, che si trova in quasi tutte le parrocchie di allora, si è poi trasformata col tempo, attraverso varie vicende, nelle attuali laiche Congregazioni di Carità.
Nel medesimo giorno se ne venne a Robbiano accolto dal parroco e dal popolo, compiendovi la sacra visita. Tenne un sermone, diede la benedizione solenne, e, dopo amministrata la cresima, non essendovi la casa parrocchiale, si recò senz'altro a Verano (ubi pervenit hora una cum dimidia noctis), ricevuto presso la chiesa da quel parroco, da alcuni altri sacerdoti e dal popolo: compiute le sacre cerimonie della visita si ritirò nella casa del curato (cum iam esset quasi hora tertia noctis). Il giorno seguente celebrò la messa, distribuì la comunione e cresimò circa 200 persone (80).
In luogo del campanile vi stava un pilastrello arcuato al disopra della facciata della chiesa con una campanella. Non mancava la scuola del SS. sacramento (eretta nel 1575) e della Dottrina Cristiana, per quanto questa fosse più frequentata dalle donne che dagli uomini. Il cimitero si stendeva a sinistra della chiesa ma non cintato. Reggeva la parrocchia Gio: Pietro Giussani, della nobile stirpe dei Giussani di cui un ramo dimorava in Verano, ordinato sacerdote il 23 maggio 1562 e fatto parroco l'8 giugno di quell'anno stesso per libera rassegnazione della parrocchia fattagli dallo zio Gio: Battista Giussani. Era poco o niente istruito, dicono gli atti di visita, e inetto alla cura d'anime: non predicava ma leggeva in chiesa il catechismo romano in volgare. La popolazione della parrocchia era di circa 400 anime suddivise in 55 famiglie.
Uno stato d'anime del 1574 ci dà anime 376 con 55 focolari: le frazioni di allora erano la Caviana con una famiglia di 17 persone; S. Giorgio con una famiglia di 7 persone; Morigiola con una famiglia di 8 persone; cascina degli eredi di messer Lattuada con una famiglia di 7 persone. Sul Lambro, cioè nella valle, vi erano 11 molini e 16 famiglie di complessive 133 persone. Perciò nel centro del paese dimoravano 204 persone e 172 nelle frazioni. Professioni?: c'erano 13 molinai, un oste, un mercante di panni, un calzolaio, un ciabattino, due tessitori di lino, un ferraio, due prestinai dei quali uno nella valle, un battilana, un cavallante: il restante della popolazione, tranne alcuni nobili, erano contadini. Come dappertutto, anche per Verano S. Carlo lasciò non pochi decreti.
La chiesa di Robbiano, indecente e mancante della necessaria suppellettile al divin culto, fu trovata presso a poco nelle medesime condizioni verificate dal Sormani e dal Cermenati. Di nuovo non c'era che il legname pronto per soffittare la chiesa (81). Il beneficio, di circa 160 pertiche di terra, non dava che la rendita di circa 250 lire, ma il curato godeva inoltre il beneficio semplice di S. Iacobo e Cristoforo in Giussano.
La popolazione contava 140 anime distinte in 25 famiglie (82).
S.Carlo vi eresse lui stesso la scuola del SS. Sacramento, raccomandando al parroco l'iscrizione di molti confratelli; impose di tenere continuamente nella chiesa il SS. Sacramento sotto pena di 25 scudi; di erigere nel termine di quindici giorni la scuola della Dottrina Cristiana sotto pena di altri 10 scudi; di rifare il battistero secondo le istruzioni generali fra sei mesi; di provvedere i necessari paramenti; di costruire una nuova sagrestia e un nuovo altar maggiore secondo le regole prescritte; di edificare la casa parrocchiale, ecc. Ordinò infine agli eredi del q. sig. Gio: Angelo Elli, obbligati a far celebrare un annuale di 10 messe nella chiesa di Robbiano di presentare il documento relativo, e altrettanto impose agli eredi del q. sig. Quirico Fabrica, tenuti essi pure ad un annuale di altre 10 messe, sotto pena di multa e di scomunica.

Dopo la visita pastorale mandò a verificare l'esecuzione o meno dei decreti.
Da una relazione si rileva che a Robbiano nei giorni festivi, prima della messa si cantavano in chiesa dal popolo le litanie. In quasi tutte le feste, specialmente nelle principali, non mancavano uomini e donne che si accostavano alla comunione, mentre gli scolari del SS. Sacramento si comunicavano la seconda domenica del mese. Subito dopo il desinare si insegnava la Dottrina Cristiana, e si cantava il vespero colle litanie. Quanto ai funerali, i parenti del defunto invitavano quanti preti loro accomodava, dando al curato 32 soldi e la cera, e 10 agli altri sacerdoti; per gli infanti soldi 15 e il parroco ci metteva la cera. Per gli uffici da morto si davano 20 soldi al parroco e 10 agli altri sacerdoti: al prevosto quando interveniva soldi 15. Durante il trasporto del cadavere dalla casa alla chiesa la maggior parte dei parenti piangevano e gridavano.
Questa usanza del piangere e gridare immoderatamente, la quale ci ricorda gli antichi usi pagani e che l'arcivescovo volle tolta, era diffusa in molte altre parrocchie. Il curato di Casiglio presso Erba, ad esempio, nel 1574 informava l'arcivescovo che riguardo all'uso dell'immoderato piangere sopra il corpo dei morti non si era potuto in tutto levare, soggiungendo di essere invece riuscito a far sì che la benedizione delle puerpere si facesse in chiesa, che alle medesime più non si desse pane azimo, che quando alla messa si faceva l'oblazione più non si sporgesse la patena agli offerenti, che gli infanti battezzati più non si ponessero sull'altare.
A Montesiro, quando si levava il cadavere per portarlo in chiesa, le donne facevano uno strepito indiavolato: " magno cum strepitu et clamoribus rem sacerdotalem perturbant, videntur quodammodo insanire velle, et non solum clamant, verum etiam percutiunt ellevantes corpus ipsum ", e nel passato si usava porre col defunto una gallina nera in una cassetta. E, sempre in fatto di funerali, aggiungerò che il prevosto Riva di Missaglia notificava per la sua pieve che, portandosi i morti a seppellire, alcuni curati, anzi la maggior parte, appena entrati in chiesa aspergevano il popolo coll'acqua benedetta, così che questo se ne andava per i fatti suoi senza assistere oltre al funerale, e i preti ne traevano motivo per spegnere tosto le candele.

Morto S. Carlo nel 1584 nell'età di 46 anni, e dopo un decennio di intermezzo con Gaspare Visconti, fu eletto arcivescovo di Milano Federico Borromeo, il quale nel lungo pontificato di 36 anni lavorò a completare la riforma nelle parrocchie già bene avviata da S. Carlo. Erano cugini, ma benché diversi per temperamento, molto si rassomigliarono per santità di vita e zelo nell'adempimento dei loro doveri episcopali.
Con questi due santi uomini le parrocchie di campagna, a furia di sorvegliare, insistere, minacciare, vennero man mano assestandosi così che alla morte di Federico la riforma Tridentina era sostanzialmente compiuta, e dava i suoi frutti nel popolo mediante un clero colto e zelante che veniva educandosi nei Seminari.
Gli arcivescovi successori trovarono ormai superate le maggiori difficoltà e spianata la via ad un sempre migliore perfezionamento secondo le necessità dei tempi.
Il card. Federico visitò la pieve di Agliate in diverse riprese. A Robbiano arrivò il 15 settembre del 1606 (83).
La nostra chiesa continuava ad essere così tanto trascurata che l'arcivescovo nei suoi decreti proibì che si avesse a conservare la SS. Eucaristia e ad amministrare il Battesimo, se fra un mese la popolazione non si obbligava con pubblico istrumento a provvedervi nel termine di due anni, e cioè a riedificare nella forma prescritta le cappelle dell'altar maggiore e del battistero, e a provvedervi un tabernacolo più decoroso.
E poiché la navata centrale bastava da sola a contenere il popolo, suggerì che tra il primo arco della nave minore si costruisse una sagrestia, e nell'arco seguente una cappella in onore della Beata Vergine, e nel terzo la cappella del battistero, il tutto eseguito mediante architetto e previa approvazione del disegno da parte dell'Ill.mo e Rev.mo Mazenta prefetto delle fabbriche ecclesiastiche. Prescrisse che davanti alla porta maggiore della chiesa si innalzasse un vestibolo a volta sorretto da due colonne per le cerimonie previe al battesimo; che i muri della chiesa fossero completamente imbiancati di calce; che il pavimento, di lastroni tutti sconnessi, fosse rifatto; che vi si collocasse un vaso di pietra per l'acqua santa ad uso del pubblico, e un nuovo confessionale di noce secondo le prescrizioni.
Volle inoltre che si cintasse il cimitero onde non avessero a penetrare gli animali, specialmente dalla parte della pubblica strada, che in esso vi si erigesse una colonna di sasso sormontata dalla croce, e che vi si estirpassero le piante, permettendo soltanto i gelsi ad uso del beneficio verso la pubblica via e purché fossero distaccati dalle fosse dei poveri morti.
Intimò che si avesse ad ultimare al più presto la casa parrocchiale con cantina sotto il locale della cucina. La popolazione doveva mantenere un chierico ascritto al clero, o per lo meno un fanciullo laico che servisse ai divini uffici, diversamente proibiva al parroco di celebrare. Raccomandò poi vivamente di richiamare in vita la scuola del SS. Sacramento.

L'argomento ci porta a far cenno di alcuni decreti per le vicine parrocchie di Giussano e di Verano.
Per Giussano ordinò che per le processioni si avesse a provvedere un ostensorio d'argento come esigeva l'importanza del luogo e i molti nobili che vi dimoravano: Giussano era infatti allora e adesso, dopo Carate, la parrocchia di maggior popolazione della vasta pieve di Agliate. Nelle processione le aste del baldacchino dovevano essere portate dai nobili oppure dai primari fra il popolo, deposte però prima le armi. Raccomandò che si avesse ad ultimare il campanile, la chiesa, l'ossario, e che il cimitero fosse chiuso con muro da ogni parte.
L'innalzamento della torre campanaria è del seicento inoltrato. Incominciata fin dal tempo di S. Carlo era rimasta incompiuta: " Campanile satis insigne est inceptum iuxta Capellam maiorem in cornu Epistolate, sed imperfectum, habetque duas campanas ". (Atti di visita di S. Carlo).
Tralasciando i decreti riguardanti la sagrestia, il battistero, i legati, gli oratorii, le scuole o confraternite, ecc., ricorderò invece come per la casa parrocchiale prescrisse che i locali si accrescessero in modo di averne tre superiori più un portico a pian terreno, e che a questo scopo si acquistasse l'annessa casa di proprietà della Cassa dei poveri. Volle ancora che fosse tolta dal giardino parrocchiale l'acqua che riceveva dal tetto della casa confinante del sig. Ercole Giussani (84). Impose al parroco di rivendicare un pezzo di terreno del beneficio usurpato dal sig. Gio: Battista Giussani, e di esigere tutta la decima del vino da chi era tenuto secondo il diritto o la consuetudine, e non di un vino qualunque, ma il crodello, pena la scomunica ai renitenti.
Tutto questo riportiamo per far rilevare le sagge e vive sollecitudini del cardinale. Oggi Giussano ha una nuova chiesa ben più ampia e una nuova casa parrocchiale fornita di tutte le comodità moderne, come richiede l'importanza della parrocchia che oggi sorpassa le 7 mila anime.
Fra i Giussanesi si praticavano allora due pie consuetudini. La prima era quella di santificare i tre giorni consecutivi alla solennità dell'Epifania in onore dei santi Re Magi, e l'altra, per un voto fatto dalla comunità in occasione di calamità (probabilmente per le peste del 1576), di recarsi ogni anno in processione al Sacro Monte di Varese. Il cardinale impose che fossero da tutti osservate, e che nessuno per qualsiasi pretesto si avesse a sottrarre.
La prima consuetudine nel 1759 la vediamo già tramutata nella divozione delle SS. Quarantore e, attraverso i secoli, si mantenne sino al presente. L'altra invece durava ancora in quell'anno, ma il cardinal Pozzobonelli ordinò al parroco, che verificandosi comunque abusi o disordini, ricorresse a lui che avrebbe commutata tale consuetudine in altra opera di pietà. (Atti di visita del 1759). E così avvenne poco tempo dopo. D'altronde ben si comprende che per quei tempi l'andata di gran parte di una popolazione fino al Sacro monte di Varese, e colà fermarsi a riposare la notte per poi ritornare il giorno seguente, doveva essere un affar serio non scevro di pericoli o di disordini (85).
Anche a Verano non mancava la pia usanza di venerare i santi Re Magi, e il card. Federico prescrisse di ultimare la cappella a loro dedicata, che per contribuzione del popolo si stava costruendo in chiesa. Similmente in occasione della peste del 1576, i veranesi avevano fatto voto, legalizzato con istrumento rogato in Monza dal notaio Casati e firmato dai nobili sig. Tiberio Giussani, Fieramonte Bizozzero, Giorgio Giussani e Giuseppe Sirtori, di erigere in chiesa una cappella in onore di S. Sebastiano e S. Rocco. Ma passato il pericolo, il voto non fu mai eseguito, tanto che il cardinal Federico, richiamando il popolo alla necessità di restaurare a sue spese la cappella dell'altar maggiore, lo assolveva completamente dal voto, anche dal far cantar messa nel giorno di quei due santi, se ciò avesse fatto.
Tra i non pochi decreti per Verano vi è quello di erigere il campanile del quale si erano appena gettate le fondamenta, e perché lo si innalzasse al più presto concedeva al popolo di concorrere nei lavori in giorno di festa dopo il vespro. Raccomandava di aggiungervi un'altra campana perché tutte le chiese parrochiali dovevano averne almeno due. Nota il cardinale come fosse cosa indecente che la campana stesse più a lungo appesa alle pile arcuate erette anticamente sul tetto sopra la porta della chiesa.
Per tutte le parrocchie della pieve lasciò numerosi decreti accompagnati talora da fior di multe in caso di non esecuzione. Ma simili in questo alle gride del governo spagnuolo, rimanevano in buona parte senza effetto immediato specialmente nelle parrocchie più piccole, date le misere condizioni economiche del popolo e del clero di campagna.

La prima parrocchia che si formò nell'attuale territorio del comune di Giussano fu quella di Giussano, quindi quella di Robbiano, e più tardi quella di Paina. Questa, con Brugazzo e le annesse cascine, fu eretta nel 1597 distaccandola dalla parrocchia di Mariano (86).
Gli abitanti, desiderando di avere di continuo in luogo un sacerdote che provvedesse alla salute delle loro anime, si radunarono nel giardino della casa padronale od ospizio che i monaci della Certosa di Garegnano tenevano in Paina, e stabilirono alla presenza del console di Paina (Giovanni Antonio Besana) e di quello di Brugazzo (Beltramo Garimberti) di impegnarsi alla sostentazione del sacerdote, di edificare la sagrestia e la casa parrocchiale con orto, salvo sempre al priore pro tempore della Certosa di Garegnano il diritto di scelta del parroco a parrocchia vacante, giacché egli cedeva la chiesa di S. Margherita di sua proprietà. Si fissò pertanto una rendita annua di lire 360 imperiali da pagarsi in parti eguali da Paina e da Brugazzo, sovvenzione la quale doveva essere versata al parroco metà alle calende di agosto e l'altra nella festa di S. Michele. Per le riparazioni presenti e future della chiesa si dovevano usare le offerte che venivano fatte alla chiesa. E tutto questo con istrumento rogato seduta stante l'8 agosto 1597.
Inoltrarono quindi supplica al card. Federico di voler erigere la chiesa di S. Margherita in parrocchiale "cum fonte Baptismali, Cruce, et alijs parochialibus insignibus ". La domanda fu esaudita, fermo però l'obbligo al parroco di Paina di consegnare ogni anno nella festa di S. Stefano, durante la messa solenne, un cero bianco del peso di una libra alla chiesa plebana di Mariano in memoria dell'antica sudditanza. Il primo parroco di Paina fu il milanese don Pietro Caggiada (87).
Il card. Federico vi compì la visita pastorale nove anni dopo, e cioè nel 1606: la parrocchia, con una popolazione di 272 anime, fu trovata discretamente in ordine.
Colla soppressione della Certosa di Garegnano avvenuta nel 1783, il diritto di scelta del parroco passò al governo di allora e quindi nei successivi; e questa è la ragione per cui il parroco di Paina fino a qualche anno fa era di nomina governativa: anticaglie ormai finite cogli accordi Lateranensi del 1929 tra il Vaticano e l'Italia.
I monaci della Certosa affermarono di avere loro stessi edificata la chiesa di S. Margherita, ma in quale anno non ho trovato. Se così, la costruzione dev'essere avvenuta dopo il 1349, per il fatto che da quest'anno data la fondazione della Certosa di Garegnano, e probabilmente nel secolo seguente quando i monaci incominciarono a possedere fondi in Paina e nei dintorni (88).
Nella chiesa di S. Margherita, prima che divenisse parrocchiale si celebrava talvolta la messa e vi si seppellivano i morti. Per le funzioni religiose Paina dipendeva da Mariano dopo il 1568. I monaci risiedevano nel monastero di Garegnano: in Paina non vi dimorava in permanenza alcun padre, ma qualche converso. Solamente di tanto in tanto veniva un padre sopraintendente ai fondi, dimorando il tempo necessario nella casa padronale che talora serviva anche da ospizio per i poveri ed i pellegrini.
I possedimenti della Certosa vennero man mano aumentando in tal modo che al momento della soppressione dell'Ordine, la sezione fondiaria di Paina contava un totale di 3580.18 pertiche, delle quali ben 2683.13 nel solo territorio di Paina e di Brugazzo. I fondi furono messi all'asta e comperati dal conte Andrea Lucini Passalacqua, patrizio e decurione comasco, feudatario di Rovello, per la somma di lire 518 mila.
Nei tempi passati, in confronto dei nostri, le terre costavano relativamente poco, ma se ne ricavava anche meno. Così ad esempio, da un'investitura di affitto per 9 anni fatta dai padri il 7 novembre 1495 ad Antonio Galimberti di Brugazzo di pertiche 515, situate alla cascina dell'Oca, l'investito doveva pagare moggia 2 di frumento e moggia 13 di mistura per ogni cento pertiche.
Erano però terreni di qualità scadente, allora ben più che non oggi. L'Antonio era figlio di un Giovanni abitante " in Cassinis de Brugatio prope comune de Payna ".
Da un'altra investitura dell'8 marzo 1413 in Ambrogio Missaglia di alcuni fondi situati in territorio di Paina, si ha che questi doveva pagare per l'affitto " sichallem et millium, marona et castaneas, nuces et galfioni seu cerexa ", e cioè segale e miglio, maroni e castagne, noci e galfioni ossia ciliege, il che ci prova come ben misere erano allora le coltivazioni granarie, e che presso a poco durarono sino alla soppressione dei Certosini.
Oggi il territorio di Paina e di Brugazzo dà un reddito agrario di gran lunga superiore, specialmente dopo che si venne in questi ultimi anni introducendo la piccola proprietà. Paina e Brugazzo, situati lungo la nuova strada provinciale, sono inoltre in continuo sviluppo edilizio per cui formano ormai un unico aggregato di case. Molto sviluppata vi è poi l'industria.
Segno evidente di prosperità e di benessere.


Carta topografica manoscritta della pieve di Agliate. È senza scala e d'ignoto autore. Misura cm. 76x67. Molto guasta. La tecnica è solita del '500. Nella pieve vi è compresa la chiesa di Paina. È da riferirsi probabilmente all'epoca di S. Carlo, e forse al sesto decennio di quel secolo, poiché Paina nel 1568 fu da S. Carlo distaccata ecclesiasticamente dalla pieve di Agliate e unita a quella di Mariano. In ogni modo non può essere posteriore al primo decennio del secolo seguente.

CAPO III

I parroci di Robbiano: D. Andrea Giussani - D. Giacomo Pellegatta - D. Giacomo Frigerio - D. Giovanni Galbesi - D. Giovanni Casati - Legato Bianchi per la Madonna del Transito - Aspra e lunga vertenza per i terreni ecclesiastici in comune di Verano - Questione di viciniorato - D. Antonio Canali - Visita pastorale del card. Federico Visconti.


D. Andrea Giussani (... - 1570) (89). È il rettore più antico ch'io abbia trovato della nostra parrocchia. Nel 1564 era stato tassato in favore dell'erigendo seminario in lire 2 e soldi 10 per il beneficio di S. Giorgio in Verano e per quello di S.Quirico in Robbiano, costituenti la prebenda della rettoria o parrocchia di Robbiano (90).
Nel 1558 aveva rinunciato alla rettoria in favore di D. Giacomo Pellegatta, colla riserva del diritto di vicario e del godimento della prebenda. Ma il 14 novembre 1569 il Cermenati, visitatore delegato da S. Carlo, impose al Giussani, ormai decrepito e incapace, di rassegnare totalmente la rettoria nelle mani dell'arcivescovo. E poiché mancava la casa parrocchiale volle che la si edificasse coi frutti del beneficio, e, costruita, subito venisse ad abitarla il parroco successore.
Il Giussani dimorava in Giussano e tenne per molti anni la rettoria di Robbiano.

D. Giacomo Pellegatta (1570 - 1608). Oriundo del Pian d'Erba fu ordinato sacerdote nel 1552. Nel 1554 al 22 di novembre fu investito dai patroni della cappellania di S.Iacobo e Cristoforo eretta nella chiesa di S. Filippo e Giacomo in Giussano; cappellania dotata di una sessantina di pertiche di terra situate in Albese e di una piccola casa in Giussano nella quale dimorava il cappellano (91). Dal 1558 fu coadiutore mercenario del Giussani con diritto di successione, e col 1570 effettivamente parroco.
Nella sua qualità di coadiutore e poi di parroco ebbe le visite del Sormani nel 1566, del Cermenati nel 1569, di S. Carlo nel 1578, di Seneca nel 1584, del Cepolla nel 1597, del Clerici nel 1604, e finalmente di Federico Borromeo nel 1606.
Dagli atti di visita risulta che non brillava affatto per scienza, capacità e zelo, che anzi lo dicono di corta intelligenza, ignorante, trascurato nella cura d'anime. Frequente è il lamento dei visitatori per l'abbandono in cui era lasciata la chiesa e per la nessuna premura nell'eseguire i decreti emanati.
Tipico, ad esempio, il caso della scuola del SS. Sacramento. L'aveva eretta personalmente S. Carlo coll'obbligo di tenere in chiesa continuamente il SS. Sacramento. Il Pellegatta non si curò di sostenerla, così, che nel 1584 il visitatore Seneca la trovò quasi estinta, nè più si conservava il SS. Sacramento. Il visitatore impose al curato di iscrivervi tutti gli uomini la prossima domenica, e lui stesso ne iscrisse parecchi nel giorno stesso della sua visita. Invece tutto continuò come prima: nel 1589 era ridotta a 25 uomini e a 30 donne.
La Confraternita aveva diritto alle offerte che si raccoglievano nelle domeniche e nelle altre solennità, escluse le sette principali dell'anno nelle quali le offerte erano di spettanza del parroco. La confraternita con quelle elemosine manteneva la lampada del SS. Sacramento e provvedeva alle altre occorrenze della chiesa. Qualche anno dopo la confraternita si estingueva per una seconda volta.
D. Giacomo negli ultimi anni di sua esistenza divenne acciaccoso, gli tremavano le mani e le labbra, e talora vaneggiava. Lo stato desolante nel quale venne allora a trovarsi la parrocchia, lo si ha dagli atti di visita del Clerici del 1604, nei quali si dice che il curato non celebrava durante la settimana, non predicava, non insegnava la dottrina cristiana, non c'era nè il SS. Sacramento, né alcuna confraternita o scuola, né piviale, né baldacchino, ecc., e che tutto era sporcizia in chiesa: habet omnia immunda, plena sordibus.
Fu perciò, data la sua età e i suoi malanni, esonerato dal celebrare la messa e dalla cura d'anime. Questa venne disimpegnata interinalmente dapprima dal curato di Giussano e poi da quello di Verano. E perché potesse vivere gli fu lasciato il reddito del beneficio.
Perché mai, domanderà qualche lettore, se così incapace non fu per tempo rimosso dalla cura d'anime, lasciandolo semplice cappellano? Se S.Carlo e Federico Borromeo non lo fecero devono aver avuto le loro buone ragioni.
Innanzi tutto era un sacerdote moralmente ineccepibile nella sua condotta: a questo riguardo non gli si fa alcun rimarco. In secondo luogo i preti di campagna, non esclusi quelli della nostra pieve, e incominciando dallo stesso prevosto Annibale Tagliabue e dal curato di Verano Gio: Pietro Giussani, ordinati prima che S. Carlo assumesse il governo della diocesi e fondasse i seminari, erano nella maggior parte presso a poco della stessa portata in fatto di istruzione, zelo e capacità. Tuttavia è da osservare che il bisogno dell'istruzione non era in quel tempo così sentito e diffuso come oggi giorno: non solo il popolo ma fior di ricchi e di nobili erano analfabeti o quasi. Ad ogni modo era stato chiamato a Milano per un esame e fu trovato sufficiente.
D'altronde con una parrocchia di 140 anime, e per di più tutta di poveri contadini senza risorse per la loro estrema povertà, cosa poteva fare quel povero curato? quali mezzi poteva disporre? quali confraternite o associazioni religiose potevano vivere? Il Pellegatta era povero e i redditi della cappellania e della prebenda parrocchiale gli bastavano appena per vivere. Degli straordinari che poteva percepire in parrocchia non è nemmeno il caso di parlare con sì poca e povera gente. Figurarsi che quando battezzava non gli si dava per paga che un fazzoletto!
Ora tutti sappiamo che se col denaro si può fare molto male, senza denaro si può far poco o niente di bene.
E giustizia poi precisare che i riferimenti sui preti che si hanno nelle visite pastorali, nelle relazioni vicariali e sinodali, negli stati del clero, ecc., vanno presi cum grano salis, come si suol dire.
Non sempre si era sereni e oggettivi in quello che si riferiva dai parroci riguardo ai loro cappellani o dai vicari foranei intorno ai parroci e sacerdoti della pieve, tanto che S.Carlo e Federico Borromeo ne tenevano conto fino ad un certo punto. Da quelle vecchie carte infatti affiora qua e là la piccineria e il pettegolezzo. Del resto in queste faccende, allora e sempre, nil sub sole novi... Homines sumus!...
Certamente che se, spinte o sponte, si fosse potuto edificare la casa parrocchiale, o comunque avesse dimorato in parrocchia in una casa d'affitto (92), il Pellegatta avrebbe forse avuto più amore e impegno per la sua chiesa e per la sua parrocchia. Invece trovò comodo abitare sempre in Giussano, attraversando calmo e sereno tutte le bufere delle visite, tanto da morire colà poco meno che nonagenario.
Col Pellegatta la parrocchia entrò in possesso del primo legato perpetuo di un annuale di dieci messe, compresa quella in canto, lasciato dal robbianese Gerolamo Brenna con suo testamento rogato il 26 aprile 1580, onerando a questo scopo un appezzamento di terra nel comune di Verano, detto campo marcio, di circa 22 pertiche. Il legato doveva essere eseguito subito dopo la sua morte innanzi tutto dalla sua moglie usufruttuaria, poi dalla figlia erede, e quindi dai proprietari successivi, diversamente rimaneva in facoltà del parroco pro tempore di Robbiano di far proprio il fondo per l'esecuzione di detto legato. Col medesimo testamento lasciò pure un campo di tre pertiche alla scuola di S. Maria Pura in Verano, riservandone però l'usufrutto alla moglie.

D. Giacomo Frigerio (1608 - 1634). Era milanese. Nel 1606 quando arrivò in visita pastorale Federico Borromeo egli era ancora studente a Brera. Nel 1600 il Pellegatta gli aveva rinunciato la cappellania di S.Iacobo e Cristoforo. Il Frigerio faceva necessariamente disimpegnare gli oneri annessi per mezzo di un cappellano mercenario, mentre nella casa continuava ad abitare il vecchio Pellegatta. Ordinato sacerdote, nel 1608 lo abbiamo parroco di Robbiano.
I registri parrocchiali di battesimo, di matrimonio e di morte datano da questo parroco: i primi due incominciano col 1608, l'altro col 1616. Il primo suo atto di registro è del 24 giugno 1608. Dai decreti di S. Carlo risulta che pure il Pellegatta teneva i registri di battesimo e di matrimonio benché non in forma regolare: probabilmente saranno andati perduti alla sua morte, dimorando egli in Giussano.
Nel 1618 ebbe la visita del Pezzano, e nell'anno successivo i decreti emanati da Federico Borromeo per le singole parrocchie della pieve. Non essendo ancora edificata la casa parrocchiale il Frigerio dimorava in Giussano nella casa della cappellania.
Ma col parroco non residente la chiesa e la parrocchia non potevano avviarsi in meglio, come ne fanno fede i decreti del 1619 di Federico Borromeo. Nè potevasi dire che il Frigerio, sacerdote istruito e di condotta irreprensibile, fosse trascurato nei suoi doveri parrocchiali, perché da una relazione del 1611 del vicario foraneo Ambrogio Casati si ha che il Frigerio non adempiva all'onere della messa festiva e di altre due messe in settimana presso la cappella di S. Iacobo e Cristoforo, non trovando chi lo supplisse, essendo egli obbligato nella sua parrocchia. Da questo si vede ch'egli ci teneva innanzi tutto ai doveri parrocchiali. La ragione del non potere far di più, a mio avviso, è da ravvisarsi probabilmente nella mancanza di mezzi.
Quando finalmente sia stata eretta la casa parrocchiale, punto di partenza per l'esecuzione degli altri decreti e il rifiorire della parrocchia, non ho trovato. Forse dal Frigerio stesso dopo il 1619.
Pochi anni prima della sua morte ebbe il dolore di vedere il suo già piccolo gregge decimato dalla peste.
Manca l'atto del suo decesso nei nostri registri. Nondimeno, poiché l'ultimo suo atto sottoscritto è del febbraio 1634, si può ritenere ch'egli passasse a miglior vita in Robbiano qualche tempo dopo, e che il suo decesso, per dimenticanza, non sia stato annotato, perché dai registri di morte della parrocchia di Giussano non risulta che sia colà morto, e nemmeno mi consta che abbia rinunciato alla parrocchia.

D. Giovanni Galbesi (1634 - 4 ottobre 1639). Di questo parroco morto nella giovane età di 33 anni nulla ho trovato.

D. Giovanni Casati (1640 - 11 maggio 1683). Era milanese e la morte lo colse improvvisamente a 73 anni. Con questo parroco, sia che spendesse del suo patrimonio privato sia che fosse aiutato dalla nobile famiglia Bianchi, perché dalla popolazione ben poco poteva aspettarsi, la nostra parrocchia va sistemandosi in meglio.
Nel suo primo anno di parrocchialità la chiesa ebbe riparazioni e ampliamenti notevoli: constat tamen anno 1640 fuisse insigniter restauratam (Atti di visita del card. Pozzobonelli 1759).
Tra l'altro in quell'anno fu costruita la sagrestia imposta da S. Carlo e da Federico Borromeo. Questa piccola sagrestia occupava lo spazio attuale del vano dell'altar maggior a ridosso del campanile, e durò fino al 1902 nel quale anno ne fu eretta un'altra più ampia sull'area delle vecchie case coloniche ricostruite altrove.
Il sig. Giovanni Bianchi, contrascrittore all'Ufficio delle Munizioni dello Stato di Milano, figlio del q. Mattia, abitante a Milano in Porta Nuova, ma che da anni villeggiava a Robbiano, con suo testamento rogato il 20 agosto 1649 (93) lasciava in perpetuo una messa da celebrarsi ogni sabato nella cappella della B. Vergine del Transito, eretta nella parrocchiale di S. Quirico in Robbiano, e da lui provvista di un'icona co' suoi ornati. Altri donativi aveva già fatti alla chiesa, e tra l'altro uno stendardo coll'immagine della B. Vergine del Transito da portarsi ogni anno in processione nella seconda domenica di agosto, nel qual giorno si celebrava la festa presso detta cappella. Desiderava perciò che il parroco presente e quelli pro tempore raccomandassero al popolo partecipante alla processione di recitare un'Ave Maria a suffragio dell'anima sua.
Per l'elemosina della messa settimanale del sabato il testatore assegnò un reddito annuo di lire 70 imperiali da pagarsi dalla città di Milano quale suo credito verso di essa. Qualora però la città redimesse l'onere, o per qualunque altra causa il reddito venisse a diminuire, obbligava in perpetuo i suoi eredi a reintegrarlo fino alla predetta somma.
Il parroco pro tempore doveva sempre consegnare al vicario foraneo, quando veniva in parrocchia in qualità di visitatore e celebrasse la messa in detto giorno alla cappella secondo la mente del testatore, l'elemosina di lire 3.
Il vicario doveva inoltre verificare se quella messa fosse stata o no sempre celebrata. Per questo volle che si ponesse dagli eredi una lapide marmorea con iscrizione che ricordasse gli obblighi da eseguire: fu collocata infatti su una parete della cappella e ci sta tuttora.
Da ultimo stabilì che il suo cadavere fosse seppellito nella parrocchiale di Robbiano davanti alla cappella del Transito, e vi si costruisse dagli eredi un sepolcro in cui essere deposto.
La festa del Transito o Dormizione della B. Vergine, da non confondersi con quella dell'Assunzione, la si celebra ancora la seconda domenica di agosto, e fu sempre, per il passato, dopo la patronale la più importante, e i parroci si facevano premura di ottenere l'indulgenza ad septennium per i fedeli.
Il 6 luglio 1662 fu ricostruita la scuola del SS. Sacramento, e undici anni dopo la signora Barbara Garzoni maritata Gallazza, proprietaria della cascina ancora oggi chiamata Gallazza, lasciava erede de' suoi beni la sopradetta scuola coll'obbligo di date funzioni in suffragio dell'anima sua, sempreché venisse a mancare la sua discendenza tanto nei maschi quanto nelle femmine, per cui quella eredità condizionata, attraverso le mutazioni giuridiche dei tempi rimase nulla.
Durante la sua parrocchialità il Casati si trovò coinvolto, sia pure indirettamene, in un'aspra e lunga contesa tra il parroco e il comune di Verano per una questione riguardante i beni ecclesiastici situati in quel comune.
A Verano sin dalla morte del curato Gio: Battista Proserpio (1626), e sotto i successori Zavattoni, Garimberti e Giudici, non erano mancate questioni col volere imporre la metà dei carichi ai fondi del beneficio parrocchiale di Verano e di Robbiano. Tuttavia i terreni continuarono a godere dell'immunità od esenzione; immunità, si noti bene, sancita dalle leggi ecclesiastiche e riconosciuta dalle leggi civili allora vigenti, nè potevano aver valore consuetudini in contrario o errori catastali.
Nel clima fiscale odierno sarebbe un assurdo la pretesa che i fondi ecclesiastici, in quanto tali, non avessero a pagar tasse, ma allora non era così.
Venuto parroco a Verano nel 1647 Gio: Ambrogio Inzago, trovò che il nobile cavaliere Gio: Battista Crivelli, signorotto del paese, aveva dato ordine di aggravare i sopraddetti beni della metà delle imposte. A questa ingiusta pretesa si oppose il curato in difesa dei diritti della sua chiesa, facendone osservare al Crivelli l'ingiustizia; ma il signorotto non si dette per inteso. L'Inzago si trovo perciò nella necessità di dover ricorrere al card. Monti, arcivescovo di Milano, che energicamente seppe difendere le ragioni del curato, e la faccenda parve finita.
Morto l'arcivescovo (1650), la questione si riaccese con maggior veemenza e ostinazione, risoluto il signorotto, come don Rodrigo, a volerla spuntare ad ogni costo contro il parroco, che dimostrava di non essere un don Abbondio di manzoniana memoria.
Oltre il puntiglio c'entrava anche l'interesse.
Il momento era dei più propizi: la sede arcivescovile era vacante. Che influenza poteva mai contare in alto un povero parroco di campagna in quei tempi? Il Crivelli, di nobile e potente famiglia, aveva invece aderenze tanto in curia, i cui membri erano in gran parte nobili, quanto nel Senato.
Ma da furbo intelligente, comprendendo che si avventurava in una causa scottante e gravida di conseguenze se l'andava male, egli si serviva dell'autorità comunale, vera burattina nelle sue mani. Perciò, infischiandosi dei monitorii intimati in merito altre volte alla comunità di Verano, nel 1651 obbligò i terreni del benificio al versamento della quota di lire 132 imperiali, e facendo imprigionare alcuni coloni renitenti dal barisello di Vimercate.
Il parroco ricorse al Vicario Generale (l'arcivescovo Alfonso Litta sarà eletto l'anno seguente): console e deputati si videro intimata la rifusione dei danni sotto pena della scomunica e dell'interdetto. Ma invece di sottomettersi e riparare al mal fatto, vedendosi indirettamente sostenuti dalla suprema autorità civile dello Stato di Mlano, giacché il Senato nicchiava nel dare ordine di rilasciare i prigionieri e di restituire le 132 lire, inoltrarono un contro ricorso all'autorità ecclesiastica diocesana, ottenendo che fosse sospesa l'esecutorietà della sentenza e che la causa fosse discussa con altri giudici.
La lotta si fece viepiù serrata tra il parroco e le autorità comunali, o diremo meglio col Crivelli, con alterni ricorsi. Final.mente il curato ottenne un Breve che annullava tutti i precedenti per la sospensione della causa, e fu intimato e letto al console e ai deputati del paese. Costoro risposero col far sequestrare e vendere le bestie dei coloni del parroco di Verano e di Robbiano.
Per questo nuovo atto di violenza venne costituito un nuovo processo; console e deputati furono ancora una volta condannati a rifondere il danno pena la scomunica e l'interdetto locale e personale con cedole rilasciate dal palazzo arcivescovile in data 22 marzo 1655. Più che mai furenti fecero imprigionare sei coloni del curato di Verano ed un'altro del curato di Robbiano.
L'Inzago esasperato da questo procedere, il 4 maggio, mentre ancora prendevano le trattative a Milano tra l'autorità civile e religiosa per un accomodamento, rese esecutiva la scomunica e l'interdetto. I colpiti si difesero coll'inoltrare il giorno seguente regolare appello al Vicario Generale contro l'azione del parroco. L'esecutorietà effettiva rimase in tal modo sospesa, e le trattative continuarono.
Intanto, com'è facile immaginare, tutta la popolazione si mise in subbuglio: il curato minacciato di morte dai più scalmanati dovette per precauzione allontanarsi dal paese. Della cura d'anime si diede incarico al parroco più vicino ma i veranesi non ne vollero sapere. Fu necessario mandare sul luogo un sacerdote come vice-parroco.
Il curato se l'ebbe a male quasi fosse un disconoscere i suoi diritti. Il 15 luglio osò tornare alla sua chiesa e celebrarvi. Non l'avesse fatto! Tre di quegli scomunicati irruppero nella chiesa armati di archibugio: i fedeli fuggirono spaventati, ed il curato, lasciando incompiuta la messa, si rifugiò serrandovisi sul campanile, dal quale poi nascostamente si calò per mezzo di una corda delle campane.
Vedendosi da ogni parte incompreso o perseguitato, e non volendo fare la fine di frate Cristoforo dei Promessi Sposi, di essere cioé per via di un compromesso, tra l'autorità civile e diocesana, allontanato dalla parrocchia come uomo ostinato e perturbatore, pensò di recarsi personalmente a Roma per meglio difendere le sue ragioni presso il Papa Alessandro VII e la Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche.
Senonché l'autorità comunale di Verano, in luogo di rimettersi sulla via della calma e del buon senso, si fece oltremodo vendicativa col danneggiare e coll'impedire la lavorazione dei terreni in contestazione, tanto che l'11 di novembre, per ordine del Vicario Generale, venne canonicamente affisso dal prevosto e vicario foraneo di Agliate l'interdetto e la scomunica.
Il fatto doveva essere legalizzato da un notaio, ma nessuno volle prestarsi per timore di rappresaglie o di qualche archibugiata nella schiena; perciò dovette fungere da notaio il curato di Robbiano.
L'Inzago si fermò a Roma circa due anni in qualità di confessore a S. Carlo al Corso, o dei Lombardi come si diceva allora, e delle monache e zitelle di S. Filippo Neri. Dalla suprema autorità ecclesiastica ottenne ordini replicati diretti all'arcivescovo Alfonso Litta di rimettere il parroco nella sua parrocchia col godimento de' suoi diritti come prima.
Finalmente i dirigenti del comune si sottomisero, e nell'aprile del 1657 con istrumento rogato sulla pubblica piazza si obbligarono con giuramento a ricevere il parroco alle primiere condizioni, a non più aggravare per l'avvenire i fondi del beneficio di Verano e di Robbiano in quanto terreni esenti per l'immunità ecclesiastica, e a riparare i danni causati nel passato. Quindi, per autorità apostolica, fu tolta la scomunica e l'interdetto (94).
Il curato ritornò da Roma, rientrando in Verano il 18 agosto, dopo aver fatto una quarantena durante il viaggio, per causa di contagio nel territorio di Rimini presso Cattolica.
L'Inzago non sopravisse molto alla lunga e strenua lotta sostenuta; lotta la più grossa sorta nella diocesi, dicono i documenti, da S. Carlo in poi per ragioni d'immunità prediali ecclesiastiche: tre anni dopo moriva. Ma la lezione servì per tutti i signorotti e prepotenti vicini e lontani, dimostrando che i parroci di campagna, in quel secolo nel quale si svolge la trama dei Promessi Sposi, non erano poi tutti della stoffa di don Abbondio.


Alla morte del Casati sorse la questione del diritto di viciniorato tra il parroco di Giussano e quello di Verano. Sì l'uno che l'altro vantavano la maggior vicinanza, e il parroco di Giussano, don Francesco Brambilla, diceva di avere per di più in suo favore la consuetudine.
Gli amici dei due curati si interposero per un'amichevole composizione, ma quello di Giussano non ne volle sapere. Intervenne allora l'autorità diocesana, la quale il 19 maggio 1683 diede le relative istruzioni da eseguire al vicario foraneo. Questi, avvisate le parti, alla presenza di testimoni fece misurare dall'agrimensore Biffi di Seregno la strada, per la quale ordinariamente si passava col carro, da Robbiano a Giussano e da Robbiano a Verano. Si trovò che la maggior vicinanza spettava a Verano. Venne pertanto deciso che la vicarìa coi diritti di viciniore toccasse al curato di Verano. Tuttavia per conservare la pace col suo collega, il curato don Polo Camillo Crivelli lasciò che quello di Giussano avesse ad esercitare la vicarìa di Robbiano ma per quella volta tanto.
Tale decisione dev'essere poi stata cambiata, poiché trovo che i parroci di Giussano continuarono ad esercitare il diritto di viciniorato alla morte dei curati di Robbiano e viceversa. Non mancò qualche contrasto per tale diritto alla morte del curato Pini di Verano, diritto rivendicato da quello di Robbiano. Ma poi si ritornò come prima. Questioni ormai sorpassate e cadute in disuso nella disciplina ecclesiastica odierna.
Il Casati, morendo, aveva disposto per sé e successori un particolare sepolcro presso i cancelli dell'altar maggiore.

D. Antonio Canali (1683 - 19 gennaio 1697). Era nativo di Oggiono e morì nell'età di 43 anni.
Nel 1688 riceveva in visita pastorale il cardinale Federico Il Visconti. Dagli atti di visita si rileva che la chiesa era di recente architettura e fornicata (recentioris architecturae, fornicata) (95). Conteneva tre altari: il maggiore, quello del Transito di M. Vergine, e l'altro di S. Antonio di Padova in cornu evangeli. La suppellettile della chiesa fu trovata sufficiente.
La parrocchia contava 332 abitanti.
La chiesa non aveva redditi propri, ma era sostenuta colle offerte degli abitanti (sed de omnibus ad divinam peragendam necessarijs manutentionem pietate incolarum dicti loci singulis annis ex omnibus fructibus).
Non c'era altra confraternita che quella del SS. Sacramento, e nessuna S. Reliquia. Il legato lasciato da Gerolamo Brenna era passato, per l'adempimento, in Giovanni Bianchi come da istrumento del 16 marzo 1645, e nel 1688 era soddisfatto dal figlio Giuseppe Bianchi.


CAPO IV.

D.Giuseppe Gerolamo Brenna - La cascina Colciaga - D. Giuseppe Maria Frigerio -
D. Giuseppe Mazzucconi - D. Bernardo Cesari - Visita pastorale del card. Pozzobonelli- D. Venceslao Sevesi - Trapasso delle cascine Gallazza e Tanzi dal diritto parrocchiale di Giussano a quello di Robbiano -D. Antonio Maria Staurenghi - D. Francesco Saverio Meregalli - I primi coadiutori - D. Giuseppe Pifferi - Sue benemerenze - D. Giuseppe Gaffuri -D. Alfonso Minorini - D. Anacleto Santambrogio - D. Francesco Tanzi - D. Rinaldo Beretta - D. Mario Meroni.


D. Giuseppe Gerolamo Brenna
(1697 - 13 gennaio 1723). Il nobile Ottavio Bianchi nel 1706 aveva trovato conveniente edificare una cascina sopra i suoi fondi situati in comune di Verano, ma vicini a Robbiano. Sorse perciò questione tra il curato di Verano e quello di Robbiano a chi spettasse la parrocchialità del nuovo cascinale. Il curato di Verano la pretendeva per sé ad ogni costo. Intervenne tra i due litiganti il vicario generale Mons. Neri, il quale, studiata la cosa, con decreto del 29 aprile 1707 diede parere favorevole al parroco di Robbiano, intimando a quello di Verano, qualora molestasse il suo collega, la pena della scomunica e una multa di 500 scudi d'oro da versarsi ai luoghi pii di Milano.
La cascina in questione era l'attuale Colciaga, così chiamata perché i primi ad abitarla furono i fratelli Colciago.
Come abbiamo più sopra ricordato, gli atti di visita del 1688 annotavano per la nostra parrocchia la mancanza di S. Reliquie. Il parroco Brenna provvide a colmare questa lacuna, e nel 1710 fu delegato dal pro-vicario generale alla ricognizione di esse. In memoria del fatto si usò poi sempre celebrare la festa delle SS. Reliquie la seconda domenica di ottobre.
Col parroco, D. Francesco Tanzi, tal festa venne, secoli dopo, trasportata alla prima domenica di maggio, per il motivo che colla seconda domenica di ottobre volle iniziare la funzione delle SS. Quarantore, la quale prima si faceva alla terza di novembre.
Ricorderemo come le reliquie di S. Giustino e di S. Urbana furono donate alla parrocchia nel 1709 dal monaco olivetano padre Sebastiano Bianchi, il quale le ebbe in dono dal card. Gaspare di Carpegna vicario del pontefice, e provenivano dal cimitero di S. Callisto.
Il nob. Ottavio Bianchi donava poi nel 1735 la reliquia di S. Croce, avuta a sua volta in dono dal sac. tortonese D. Giovanni Chiodo che l'ebbe nel 1719, colle debite autentiche, da Mons. Giulio Resta vescovo di Tortona. La sacra reliquia proveniva dal monastero degli Eremiti di S. Agostino della stessa città.
I monaci della certosa di Garegnano pagavano ogni anno alla nostra parrocchiale sei staia di segale, ma nel 1712, consenziente il curato Brenna, si liberarono di tale prestazione versando in denaro l'equivalente capitale di lire 300 al 4%, che venne livellato sopra un appezzamento di terra in comune di Verano.
Col parroco Brenna incominciano i registri di entrata e uscita della chiesa. Da questi risulta che si impegnò non poco per la sua chiesa: nel 1700 rifece il campanile, nel 1704 procurò l'organo, nel 1709 fece costruire la cappella di S. Eurosia, nel 1722 provvide la vasca di marmo per il fonte battesimale, e il lavabo pure di marmo per la sagrestia, ecc.
Non va dimenticato che con questo curato abbiamo in parrocchia la divozione dell'esposizione del SS. Sacramento durante la settimana grassa o carnevale.
Morì nell'età di 53 anni.

D. Giuseppe Maria Frigerio (1723-1736). Era nativo di Moiana. Dopo tredici anni di parrocchia, passò prevosto a Brivio, dove morì nel 1765.
Eresse canonicamente la confraternita del SS. Sacramento come da decreto dell'Odescalchi 13 gennaio 1731. Migliorò i terreni del beneficio con numerose piantagioni di gelsi, e le case coloniche con riparazioni. Nel 1726 non dubitò di recarsi a Milano presso la Real Giunta del Censimento per difendere l'esenzione di alcuni fondi del beneficio.
Molto fece per la chiesa: da ricordarsi, tra l'altro, la costruzione in marmo dell'altar maggiore; costruzione ultimata nel 1735. È un discreto lavoro, in stile barocco del tempo, di Giuseppe Giudici di Viggiù presso Arcisate.
Lasciando la parrocchia il Frigerio lasciò scritto: La partenza mia, così da Dio voluta, non fu accompagnata da verun disgusto non avendo ricevuto dal popolo di Robbiano nel corso di tredici anni una parola contraria. Dio così conceda a chi succede, come spero per l'integrità del mio successore già a tutti nota.

D. Giuseppe Mazzucconi (1736 - 5 novembre 1757). Nativo di Laorca presso Lecco, venne parroco a Robbiano, dopo aver rinunciato alla parrocchia di Villa Raverio, e vi morì nell'età di 63 anni.
Il 9 ottobre 1742 ebbe in visita il Calchi, visitatore regionale. I confratelli del SS. Sacramento non indossavano ancora alcun abito particolare, e perciò il Calchi raccomandò che almeno nelle processioni coloro i quali portavano le aste del baldacchino usassero l'abito rosso.
Al Mazzucconi la chiesa va debitrice di sacri paramenti, di uno stendardo, di panche, di un confessionale, di un armadio per la sagrestia, ecc. Questi mobili di stile barocco sussistono ancor oggi; dei paramenti non rimane che una pianeta e un piviale di broccato d'argento a diversi colori, ma ormai consunti.

D. Bernardo Cesari (1758 - 1772). Nacque a Milano il 9 agosto 1728. Studiò lettere e teologia laureandosi all'università di Brera. Ordinato sacerdote nel 1751 ottenne la parrocchia di Robbiano nel 1758. Aveva seco i genitori e due sorelle. Fu sacerdote, oltre che pio e zelante, molto colto e ordinato.
Di lui abbiamo una relazione della visita del cardinal Pozzobonelli. Scrive il Cesari che la mattina del 29 maggio 1759 si portarono clero e popolo a ricevere, sotto un bell'arco trionfale, il desiderato pastore sui confini della parrocchia a mezzo miglio circa tra Verano e Robbiano (96). Al rombo dei mortaretti e al suono delle campane fu accompagnato processionalmente alla chiesa.
Premessa l'adorazione al SS. Sacramento e data quindi la benedizione al popolo, il cardinale interrogò non solo i ragazzi e le ragazze ma altri di maggiore età e li trovò bene istruiti nella dottrina cristiana. Del restante della visita incaricò il convisitatore.
Tutto fu trovato in buon ordine. Bene organizzata la scuola della Dottrina Cristiana e quella del SS. Sacramento, benché questa non portasse ancora l'abito proprio.
Gli abitanti, in numero di 376 dispersi in 12 cascine, erano tutti brava gente: " omnes bene morati " (97).
La chiesa, lunga braccia 20 larga 10 alta 16, constava di una sol nave con tre cappelle: della madonna del Transito, di S. Eurosia e di S. Antonio di Padova.
La chiesa conteneva quattro sepolcri: uno per i parroci presso i cancelli dell'altar maggiore coll'iscrizione "R..dj Parochi Iohannis Baptistae Casati ac successorum ultima sedes ", un secondo della famiglia Bianchi presso i cancelli della Madonna del Transito, e gli altri due nel mezzo della chiesa, per il popolo: uno per gli uomini e l'altro per le donne. Nel cimitero, ossia sacrato davanti alla chiesa, più non vi si seppelliva alcun morto. Addossato ad un angolo del muro del cimitero stava l'ossario.
Il Cesari accenna ad un quadro di S. Barbara egregiamente dipinto: è infatti un bel barocco rappresentante il martirio della santa, l'unico di un certo valore che conservi la chiesa. Chi sia l'autore e donde provenga non ho trovato.
Oltre la festa patronale si celebrava con rito solenne la festa del Transito della B. Vergine (Beatissimae Virginis terrenam huius mundi lucem deserentis), e l'anniversario della traslazione delle Reliquie. Per antica consuetudine si festeggiava S. Antonio di Padova, S. Barbara e S. Eurosia.
Due processioni si facevano durante l'anno in occasione di SS. Quarantore: la prima alla prepositura di Agliate il terzo giorno delle solennità Pasquali, l'altra la mattina dell'Epifania alla chiesa di Giussano. Nel mese di dicembre si celebrava l'Officio Generale per i defunti della parrocchia.
Saggio amministratore curò i beni del beneficio. Così, fra l'altro, essendo state gravate dell'imposta prediale alcune terre del beneficio presso S. Giovanni in Baraggia di recente unite, col nuovo catasto di Maria Teresa, al comune di Giussano per concorrere all'estinzione di vecchi debiti, il Cesari ricorse a chi di ragione per l'esenzione, non sembrandogli giusto che i nuovi terreni concorressero all'estinzione di debiti antecedentemente contratti dalla comunità di Giussano, in quella stessa maniera che si ritengono rilevati da questo sopracarico li Beni dell'Abazia di S. Giovanni in Baraggia perché recentemente aggiunti allo stesso comune di Giussano.
Da un'altra carta del Cesari si ha che per antico possesso immemorabile gode il curato di Robiano il luogo nanti il Cimitero detto Piazza, ove vi sono moroni in parte vecchi, in parte piantati da me curato Cesari in luogo di tre piccole piante di noce che vi erano. Il curato godeva pure la spoglia di due altre piante situate nel cimitero.
Da questo si rileva che la piazza davanti al cimitero era da tempo immemorabile terreno di proprietà della chiesa, e ne richiamava i diritti contro l'usurpazione. Nel nuovo catasto la piazza non era stata contrassegnata nella mappa da un numero distinto, ma segnata collo stesso colore della strada quasi fosse di ragione pubblica. L'errore non fu corretto.
Perciò quando nel 1841 il curato Pifferi tentò di rivendicare quel luogo come proprietà della chiesa, continuando egli a godere dodici vecchi gelsi ivi piantati e a fare nuove piantagioni, si aprì una vertenza col comune di Robbiano chiusa dopo tre anni colla dichiarazione governativa che quella piazza si doveva ritenere di dominio comunale.
Del Cesari manca l'atto di decesso nel registro dei morti, ne mi risulta d'altra parte che siasi trasferito altrove.

D. Venceslao Seveso (1772-1779). Sotto questo parroco abbiamo il trapasso delle cascine Gallazza e Tanzi, oggi chiamate col solo nome di Gallazza, dal diritto parrocchiale di Giussano a quello di Robbiano.
Era infatti una vera anomalìa - né ho trovato come si introducesse - questo diritto della chiesa di Giussano su cascine situate nel centro della parrocchia di Robbiano e per di più in comune di Verano.
In occasione della visita fatta dal primicerio Antonio Verri fu trovato espediente che le due cascine passassero alla parrocchia di Robbiano allo scopo che quelle anime con maggior comodo potessero intervenire a tutte le sacre funzioni, e ricevere più prontamente i Sacramenti nei casi d'infermità.
Questa traslazione, approvata dalla curia arcivescovile il 7 settembre 1774, fu eseguita di comune accordo fra il parroco di Giussano e quello di Robbiano. Il trapasso effettivo avvenne il 1° gennaio 1775.
Nel gennaio 1779 D. Venceslao passò parroco a Verano.

D. Antonio Maria Staurenghi (1779 - 1783). Dopo tre anni circa lasciò la nostra parrocchia per quella di Mazzonio nel Pian d'Erba.

D. Francesco Saverio Meregalli (1784 - 20 luglio 1827). Nacque a Costa Lambro, o come dicevasi allora Costa d'Agliate, e morì a 84 anni colpito d'applopessia. A Robbiano era già stato vicario durante la vacanza della parrocchia per la morte del Cesari.
Resse la nostra parrocchia in un periodo quant'altro mai agitato per le riforme e i cambiamenti di governi (98).
A norma delle regie sanzioni nel 1784 si costruì un nuovo cimitero alquanto lontano dall'abitato, e l'arcivescovo il 7 giugno concedeva al parroco la facoltà di benedirlo. Il piccolo cimitero, ridotto poi a prato ed ora a giardino cintato della Società Anonima Imprese Seriche di Mariano proprietaria del setificio locale, era situato là dove ora s'innalza la colonna di serizzo sormontata dalla croce.
Nel 1786 invocò dal governo un coadiutore per una seconda messa festiva in parrocchia, e coll'obbligo di insegnare a leggere e scrivere ai figliuoli ed aiutare il parroco nel ministero. Ma poiché la chiesa non era altrimenti sovvenuta che dalle volontarie ma scarse offerte del popolo, così solamente la provvida mano del governo poteva rimediarvi coll'assegnare uno di quei benefici che in altri luoghi abbondavano.
La sua domanda non fu esaudita.
La popolazione era aumentata a 405 persone, delle quali 118 nel centro del paesello e le altre disperse nelle cascine. Finalmente nel 1815, settuagenario e infermo, otteneva un assegno di 300 lire milanesi, e nel resto doveva supplirvi col proprio, onde procurarsi un sacerdote in aiuto. Da quell'anno fino al 1817 ebbe come coadiutore D. Giuseppe Leoni, nel 1818 D. Stanislao Prati, e dal 1818 al 1827 D. Antonio Galeazzi che fece poi da vicario alla morte del curato. Colla morte del Meregalli cessò anche quel misero assegno governativo.
Nel 1798 il Meregalli fornì la chiesa di un nuovo organo con violoncello, lavoro di Alessio Amati di Monza, e nel 1813 introdusse in parrocchia la divozione della Via Crucis.
Il Meregalli erroneamente chiamò festa dell'Assunzione della B. Vergine, invece che del Transito, quella della sconda domenica di Agosto. E così pure la dichiarò il curato Pifferi suo successore.
Forse, benché a torto, doveva sembrare loro strana una simile divozione, trovandosi più comune presso i fedeli quella dell'Assunzione. Dico a torto, perché la festa del Transito, o della Dormizione come si diceva fin dai primi tempi cristiani, è antichissima nella Chiesa specialmente presso gli orientali. Nell'occidente è in particolare onore tra gli spagnuoli. E in questa errata persuasione si pose quindi nella cappella il simulacro di Maria Vergine raffigurante la sua Assunzione.
Il 14 febbraio 1810 il sig. Carlo Bonanome di Verano, seguendo la premura che i suoi antenati avevano sempre dimostrata per la chiesa di Robbiano, ed anche avuto riguardo ai demeriti di chi regge questa nostra chiesa di Verano (si vede che, a torto o a ragione, col curato di Verano non aveva buon sangue), regalò alla nostra chiesa una pianeta con ricco ricamo d'oro su fondo bianco di seta. È la pianeta più bella, o meglio, più preziosa che ancor oggi possiede la chiesa.

D. Giuseppe Pifferi (1828 - 18 gennaio 1871). Nacque a Fabbrica Durini: fu parroco di non comune zelo e intelligenza, dal tratto nobile e severo. Amava andare a passeggio cavalcando.
Tra i suoi primi propositi fu quello di sistemare in meglio la Confraternita del SS. Sacramento, provvedendola di un nuovo baldacchino ad otto bastoni e di otto torchie di rame colla spesa complessiva di 4 mila lire, e imponendo a tutti i confratelli di portare il rocchetto rosso nelle processioni.
Allargò la chiesa nel 1831, come da relativo disegno conservato nell'archivio parrocchiale, trasformandola in parte: vi aggiunse le due piccole navi laterali, e trasportò la cappella del Transito al centro della navata destra di chi esce dalla chiesa.
Se le navi laterali si fossero allora tenute più larghe, e quindi di maggiore capienza, sarebbe stata una vera provvidenza, perché la chiesa è divenuta insufficiente per una popolazione di 1500 anime, per quanto nel 1874 le siano state aggiunte due arcate. Ma nessuno allora poteva prevedere un così rapido aumento di popolazione in confronto al passato.
Il cardinal Schuster nella visita pastorale del 1934 raccomandò vivamente di rimediarvi col prolungarla di due altre arcate. Raccomandazione che ha del ripiego momentaneo, perché fra non molti anni il problema non potrà a meno di essere risolto radicalmente con una chiesa nuova (99).
Nel 1836 a scongiurare il terribile flagello del colèra, oltre i rimedi e le precauzioni umane, il Pifferi fece che il suo popolo rivolgesse a Dio le sue suppliche, e vi istituì poi la festa dell'Esaltazione di S.Croce in ringraziamento per essere stati risparmiati.
L'anno seguente provvide un bel paramento rosso a spolino con pianeta, tunicelle, piviale, e del capo-cielo sopra l'altar maggiore. Contemporaneamente ottenne la costruzione di un nuovo cimitero, che poi fu allungato, innalzandovi una cappella mortuaria per sé e famiglia: nella cappella, sopra l'altare, vi fece affrescare la morte di S. Giuseppe: un lavoro di buona mano, probabilmente del Sabatelli.
Il sacerdote nobile don Ferdinando Sormani, investito del beneficio di S. Giovanni in Baraggia, tentò nel 1839 di sottrarsi all'obbligo della messa festiva col pretesto della mancanza delle tavole di fondazione. Il Pifferi ricorse alla Curia Arcivescovile e al Governo ottenendo la conferma di quell'obbligo.
Una grande attività spiegò poi dal 1842 al 1846 presso la Delegazione Provinciale perché si riparasse la strada che da Robbiano conduce a S. Giovanni in Baraggia, e i suoi sforzi non furono vani. Parimenti dal 1841 al 1844 non tralasciò, benché inutilmente come si è già accennato, di rivendicare la piazza in proprietà della chiesa.
La casa parrocchiale, fino allora molto trasandata, egli riparò assai bene, rendendola decorosa e civile. Né dimenticò le case coloniche del beneficio.
Ma il suo pensiero era di sempre meglio provvedere di suppellettili la sua chiesa: nel 1853 comperò dal Broggi di Milano, candelieri, turiboli, navicelle; nel 1859 un bel paramento di seta bianco ricamato in oro con pianeta, tunicelle, piviale, e una parata rossa per la chiesa di damasco e percallo; nel 1871, pochi giorni prima della sua morte, acquistò catene dorate per le lampade pensili. Non gli mancarono tuttavia in quegli anni momenti dolorosi, quali la ricomparsa del colera nel 1853 e nel 1856. Secondo il Cappellini il colera si ebbe ancora nel 1855 e nel 1866.
Né va dimenticata l'erezione della Compagnia del S. Cuore di Gesù nel 1857, e da lui provvista nel 1867 di uno stendardo da portarsi nelle processioni.
Desideroso di assicurarsi un coadiutore aveva inoltrata domanda al governo perché gli fosse continuato l'annuo assegno di 300 lire, ma il 9 giugno 1837 gli si rispose negativamente per essere venuto a mancare il fondo dei benefici vacanti dal quale era stata prelevata la somma assegnata al curato Meregalli.
L'aiuto venne dal veranese Giuseppe Pezzoni il quale nel 1845 lasciava alla nostra parrocchia un capitale di lire milanesi 3138 col frutto delle quali poter sussidiare un coadiutore. Per quanto non si avesse ancora un reddito sufficiente, tuttavia il Pifferi dal 1849 fino alla sua morte si mantenne un coadiutore. E cioè D. Giuseppe Camparada dal 1849 al 1851; D. Giuseppe Casati di Vergo dal 1851 al 1857; D. Giovanni Bonsaglio di Seregno dal 1857 al 1872.
Quest'ultimo concorse alla parrocchia dopo la morte del Pifferi e del successore Gaffuri ma senza riuscirvi: ottenne invece quella di Schianno sul Varesotto dove morì.
Il Pifferi era di idee patriottiche, o piemontesi come si diceva allora, e nel 1848, come da ricevuta in data 4 agosto, aveva consegnato alla zecca nazionale di Milano tanto di argento per il valore di lire 145.54.
Il 18 gennaio 1871, colpito da polmonite, moriva lasciando erede di tutto il suo la chiesa coll'obbligo di un'officio anniversario in perpetuo di dieci sacerdoti, e di provvedere stabilmente, se possibile, colla restante eredità ad una seconda messa festiva in parrocchia.
Durante la sua parrocchialità la chiesa entrò in possesso di vari legati oltre il sopracitato: legato Barbò, istituito in data 12 aprile 1828, di fiorini 22 per l'abitazione del sacerdote coadiutore e in mancanza di questo a beneficio della chiesa; legato Piola-Daverio nel 1852 a favore delle missioni da tenersi ogni sette anni, o per bisogni della chiesa; legato Benaglia, podestà di Monza, in data 30 ottobre 1850, di annue messe centoventi.

D. Giuseppe Gaffuri (1871 - 15 dicembre 1872). Nato a Brivio, e parroco per diciannove anni a Malgrate, passò alla cura di Robbiano dove morì un anno dopo la sua entrata.
Nella cascina di S. Giovanni in Baraggia era scoppiata la febbre petecchiale. Il curato Gaffuri e Antonio Forlanelli, sindaco del comune di Giussano, si fecero premura di visitare e confortare gli ammalati. Il sindaco qualche giorno dopo si mise a letto coi sintomi del terribile male. Il parroco lo avvicinò per dovere di ministero, e a sua volta ne rimase colpito: ad otto giorni di distanza morivano ambedue, vittime del loro dovere.
La petecchiale era già apparsa nel nostro paesello dal 6 dicembre 1801 al 18 aprile 1802: si ebbero allora cinque ammalati con un sol morto.

D. Alfonso Minorini (1873 -14 agosto 1891). Fu un parroco di molta pietà. Il 13 dicembre 1873 eresse, colla debita delegazione, la compagnia del Terz'Ordine di 5. Francesco; nel 1875 istituì la divozione delle SS. Quarantore; nel 1877 fece tenere dai padri oblati di Rhò la santa missione, e fece sostituire le vecchie incisioni colorate della Via Crucis con quadri ad olio del pittore Carlo Razunz; nel 1885 chiamò Mons. Ballerini, patriarca d'Alessandria e residente in Seregno, per la cresima; nel 1887 aggregò la compagnia del S.Cuore di Gesù al sodalizio centrale di S. Maria della Pace in Roma.
Ma per appartenere al sodalizio centrale, e quindi lucrarvi le indulgenze annesse, richiedevasi che fosse canonicamente eretta, ciò che dimenticò di fare il Pifferi. Il curato successore Anacleto Santambrogio, vi rimediò poi con licenza del card. Ferrari del 28 gennaio 1897.
Nel 1874 allungò la chiesa di due arcate mercè la generosità della signora Giovanna Razunz, vedova Forlanelli; e due anni dopo, assistito dall'avv. Casanova di Monza, tentò di rivendicare dagli Squarcia Giussani, possessori del beneficio di S. Giovanni in Baraggia soppresso colla nota legge del 1867, l'obbligo della messa festiva da celebrarsi nell'annesso oratorio, ma senza riuscirvi.
Rimase senza coadiutore fino al 1866. Con quell'anno ebbe D. Eugenio Colombo, nativo di Giussano: vi restò sedici mesi.
Subentrò D. Elia Dell'Orto, seregnese, il quale condusse seco il fratello Eliseo pure sacerdote, e rimase fino alla morte del Minorini.
Il 4 novembre 1890 si inaugurava in Giussano l'ospedale Borella per gli ammalati poveri dei comuni di Giussano e Briosco; opera munifica lasciata per testamento dal sig. Carlo Borella di Giussano morto nel 1882. Robbiano, facente parte del comune, veniva così a usufruirne.

D. Anacleto Santambrogio (1891 - 23 gennaio 1899). Nacque a Realdino di Carate Brianza nel 1854. Ordinato sacerdote nel 1877, trascorse sette anni come coadiutore a Costa Masnaga ed altri sette anni di parroco a S. Nazaro Valcavargna, finché nel 1891 venne eletto curato di Robbiano.
Nel 1892-93 rialzò il vecchio campanile a torre, dandogli una forma snella e slanciata a cuspide, e vi aggiunse tre nuove campane alle tre antiche preesistenti. Nel 1894 comperò per lire 675, in occasione dei restauri della basilica di Agliate, la bellissima balaustrata di marmo in stile barocco dell'altar maggiore. Nel 1895-96 fece decorare e affrescare la chiesa dal pittore Farina di Macherio, e contemporaneamente pensò alla costruzione dell'oratorio di S. Filomena, della quale era molto divoto, allo scopo di raccogliervi per la Dottrina Cristiana i figliuoli e le figliuole nei giorni festivi. Inoltre nella parrocchiale collocò nelle rispettive ancone la statua del S. Cuore di Gesù e quella dei patroni Quirico e Giulitta.


Don Anacleto Santambrogio

Altro meditava di compiere per la sua chiesa, quando lo colse la morte nella ancor giovane età di 45 anni. Fu sepolto nella cappella mortuaria Forlanelli-Razunz.
Nei sette anni di sua parrocchialità attese con impegno a coltivare la pietà nel suo popolo, introducendovi parecchie divozioni come la pratica del primo venerdì del mese ad onore del S.Cuore di Gesù, la divozione alla Sacra Famiglia, la pubblica adorazione del SS. Sacramento ogni terza domenica del mese, ecc. Nell'ottobre del 1895 eresse la compagnia di S. Luigi per i giovani, e quelle di S. Agnese per le giovani.
Durante la vacanza della parrocchia fece da viciniore e da vicario il curato di Giussano, D. Ferdinando Rivolta, come parimenti aveva fatto il Santambrogio nel 1897 alla morte del curato Silva di Giussano.
E' doveroso ricordare come nel 1898 la signora Teresa Razunz, facendo costruire a sue spese un asilo infantile e affidandone la direzione alle Suore di Maria Bambina, concedeva che il locale nei giorni festivi rimanesse aperto a ricreatorio per i ragazzi. Alla sua morte avvenuta il 17 ottobre 1907, avendo lasciato erede della sua sostanza le sopradette Suore, queste assestarono l'asilo nella casa padronale: il fabbricato dell'asilo passato in proprietà del parroco rimase totalmente a disposizione per i ragazzi dell'oratorio.
Nell'ampia casa, anni dopo, le Suore apersero inoltre un probandato del loro Istituto, chiamando un sacerdote a prestare i suoi uffici in qualità di cappellano, carica disimpegnata da Giuseppe Porro fino al 1915, quindi da D. Rocco Fontana, ex parroco di Fagnano Olona, fino alla sua morte avvenuta nel 1922; e presentemente D. Domenico Cecchetta, ex parroco di Montonate, ordinato sacerdote nel 1885 e compagno di corso del nostro parroco (100).
In quanto ai coadiutori, dopo D. Elia Dell'Orto, morto poi parroco di Perticato (Mariano), venne nel 1892 D. Pietro Figini. Dopo quattro mesi, per malattia dovette ritirarsi presso la casa paterna e vi moriva di tubercolosi. Successe D.Carlo Villa di Turro Milanese, divenuto poi prevosto di Casoretto, il quale giunto nel 1893 non si fermò anche lui che pochi mesi.


Don Domenico Cecchetta

La mancanza di una rendita sufficiente per vivere e di una casa decente per abitazione rendeva non facile la residenza ai coadiutori. Il parroco Santambrogio cercò di rimediarvi in parte coll'ottenere dalla signora Teresa Razunz una casa alquanto migliore con annesso un po' di terreno per orto o giardino. Troppo poco in verità perché la coadiutoria di Robbiano potesse dirsi definitivamente sistemata.
Al Villa subentrò D. Pietro Tenca, nativo di Margno in Valsassina, ordinato sacerdote nel 1880. Dalla coadiutoria di Monte Introzzo se ne veniva nel 1894 a quella di Robbiano, rimanendovi per circa quattro anni e mezzo.
Al Tenca, nel giugno 1898, seguì lo scrivente che vi rimane tuttora.

D. Francesco Tanzi (1899 - 8 febbraio 1938). Sortì i natali a Carate Brianza nel 1860. Ordinato sacerdote nel 1885, rimase tre anni coadiutore a Carugate, quindi passò curato-assistente all'ospedale dei cronici in Cernusco sul Naviglio. Ottenuta la parrocchia di Robbiano arrivò fra di noi il 16 luglio 1899 festosamente accolto dalla popolazione.


Don Francesco Tanzi

Testimoni del suo zelo, oltre la viva cura nel mantenere e accrescere la pietà nel suo popolo, sono il nuovo concerto di cinque campane in re maggiore della ditta Barigozzi (1899), le nuove case coloniche del beneficio e la nuova ampia sagrestia (1902), il ricco stendardo della confraternita del SS. Sacramento (1906), l'allargamento del coro (1910) e il relativo stallo in legno di noce (1914), la nuova casa del coadiutore (1912), il rifacimento del vecchio organo giusta le regole liturgiche per opera della ditta Recalcati di Sovico (1921), la mensa tutta in marmo dell'altar maggiore (1924).

D. Rinaldo Beretta (1938 - 31 luglio 1960). Nato a Barzanò il 26 febbraio 1875, fu ordinato sacerdote dall'arcivescovo card. Ferrari il 4 giugno 1898 e destinato coadiutore a Robbiano.
Passato a miglior vita nel febbraio dell'anno seguente il parroco Santambrogio, vi successe il Tanzi. Mentre questi si era impegnato in una migliore sistemazione della chiesa parrocchiale, il coadiutore d'accordo col parroco, intrapprendeva la fondazione e l'organizzazione di un oratorio per i ragazzi che poi diresse per molti anni, e al quale nel 1920 vi aggiunse la sezione robbianese dei Giovani Cattolici Italiani. Nello stesso tempo attendeva a trovare modo di sollevare le depresse condizioni della popolazione pressoché tutta di poveri contadini dispersi in vecchi cascinali, i di cui padroni dimoravano altrove.
Nel primo quarto del secolo XX correvano anni di depressione economica aggravata dalla mancanza di opere assistenziali. Predominava l'economia terriera e l'artigianato. In agricoltura vigeva per lo più l'affitto a grano. Molto diffusa la tubercolosi, e non rara la pellagra.
Pertanto, nel 1904 si eresse una mutua per il bestiame bovino sotto il titolo di S. Sebastiano. Quando ad un contadino veniva a mancare la mucca, ch'era allora un sostegno della famiglia, era una faccenda seria trovare i soldi per rimpiazzarla.
Nel 1907 si impiantò una mutua soccorso fra gli stessi contadini e operai (per malattia, invalidità, disoccupazione), confederandola con quella delle parrocchie di Paina e di Giussano.


Don Rinaldo Beretta

Due anni dopo si organizzò altresì una Cooperativa di consumo. Di esercenti non c'erano allora in Robbiano che due osterie, delle quali una con licenza di vendere sale e tabacco, e un prestinaio che col pane giallo (ordinario alimento, con la polenta e la minestra di riso con legumi) sfornava una cotta di pane bianco che finiva smaltita in parte fuori parrocchia.
Alla morte del Tanzi (1938) venne eletto parroco il coadiutore, che nella direzione spirituale della parrocchia seguì le orme del suo predecessore con la parola e con l'esempio. Coltivò la fede e la pietà nel suo popolo, mantenendo in fiore le pie associazioni (Terz'Ordine di S. Francesco d'Assisi, la Compagnia del S. Cuore di Gesù, la Confraternita del SS. Sacramento, ecc.).
Se la grande guerra del 1915-18 diede un primo scossone alla vecchia struttura economica e sociale, del quale trasse vantaggio il fascismo, fu dopo la seconda guerra mondiale del 1940-45 che si ebbe l'avvio ad una profonda evoluzione in tutti i settori, e tuttora in corso, verso un continuo miglior benessere. Sorsero via via nei nostri paesi grandi complessi industriali per il mobilio, la meccanica, la tessitura, ecc., con forte aumento di popolazione immigrata dal Veneto e dal Meridione. L'agricoltura passò in second'ordine: il lavoratore preferì la sicura busta paga all'onerosa ed incerta fatica dei campi.
Venne perciò ad imporsi anche per Robbiano l'acquisto di terreno per la costruzione di una più ampia chiesa parrocchiale e di un nuovo oratorio maschile conforme alle moderne esigenze ed alla più che duplicata popolazione. Il parroco comperò nel 1950 poco meno di una ventina di pertiche milanesi di terreno, che poi donò alla parrocchia, coll'intenzione di usarne un terzo per la nuova chiesa e casa parrocchiale, e due terzi per l'oratorio o casa del giovane.
Si è inoltre premurosamente occupato presso l'autorità civile affinché la nostra frazione avesse un capace edificio comunale per le scuole elementari, ed un nuovo cimitero dando per quest'ultimo gratuitamente il terreno: le due opere furono ultimate nel 1950.
A tempo libero, scrisse articoli e monografie storiche riguardanti per lo più la nativa Brianza: apprezzati lavori al dire dell'illustre prof. Giampiero Bognetti (Archivio Storico Lombardo, Milano 1957, p. 381). Con decreto ministeriale del 18 marzo 1938 ebbe la nomina di R. Ispettore Onorario dei monumenti, degli scavi, ed oggetti di antichità ed arte per i Comuni degli ex-mandamenti di Vimercate, Desio e Carate; nomina confermatagli successivamente dal nuovo Governo della Repubblica Italiana con altro decreto ministeriale del 16 gennaio 1948.
Il 24 dicembre 1957 gli veniva conferita dall'Amministrazione Provinciale di Milano la medaglia d'argento di benemerenza.
Data ormai la grave età e gli annessi acciacchi, nel 1956 domandò ed ottenne che il coadiutore fosse nominato suo vicario. Nel 1960 rinunciava definitivamente alla parrocchia, ritirandosi quiescente. Il 27 dicembre il Capo dello Stato, Antonio Segni, lo nominava Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Da ultimo fondava una borsa di studio per un robbianese chierico studente nei seminari diocesani.

D. Mario Meroni (1960 - ...). Trasse i suoi natali a Paderno Dugnano il 10 dicembre 1907. Ordinato sacerdote il 4 giugno 1939, fu assegnato coadiutore a Robbiano, dove vi divenne poi parroco il 1° agosto 1960.
Sull'esempio dei suoi predecessori svolge l'opera sua con attività e zelo sacerdotale, aiutato dal coadiutore D. Carlo Gaviraghi di Concorezzo ivi nato il 18-1-1939, ordinato sacerdote nel 1965 e destinato coadiutore a Robbiano.
Condusse a termine la grandiosa costruzione del nuovo oratorio maschile, iniziata nel 1959, della quale S. Ecc. Mons. Pignedoli aveva solennemente benedetta la prima pietra


Don Mario Meroni

con inclusa a ricordo un'iscrizione latina su pergamena dettata dal parroco D. Beretta. A lavori ultimati la fabbrica fu essa pure con non minore solennità inaugurata da S. Ecc. Mons. Oldani il 3 dicembre 1963. Rimane da risolvere il grave problema di una nuova chiesa parrocchiale, dato il continuo aumentare della popolazione.

Ad multos annos...


Don Carlo Gaviraghi



Chiesa di Robbiano



Casa del giovane



Casa del giovane



Sede Circolo Culturale



Sede Circolo Culturale



Bar e sala giuochi ragazzi



Bar e sala giuochi ragazzi


CAPO V

Chiesa di S. Giovanni Evangelista in Baraggia: sua antichità - Visita di S. Carlo e di Federico Borromeo - Eretta in Abbazia - Consistenza del beneficio - Soppressione dell'Abbazia - Ripristino della chiesa - Birone.

La chiesa di S. Giovanni in Baraggia nel secolo XIII era canonica, e ne fa menzione il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani colle parole: in plebe aliate canonica sancti iohannis apostoli in baracia apud robianum.
Forse, giacché non mi risulta altra canonica di questo nome in altre località della nostra diocesi, corrisponde a quella che nel Notitia cleri mediolanensis del 1398 è citata nel testo sotto il nome di S. Iulliani, ma che si deve leggere S. Iohannis come nella tavola premessa al codice, e il cui prevosto era tassato in lire 4, soldi 2 e denari 4, e gli altri quattro canonici in lire 2 e denari 8 ciascuno; e che più chiaramente è ricordata nello Status Ecclesiae Mediolanensis del 1466 (Canonica sancti Iohannis in Baragia habet Prepositum cum canonicis IIII.).
Ad ogni modo il Liber sopra citato dichiara in modo inequivocabile che S. Giovanni in Baraggia presso Robbiano era chiesa canonicale. Non solo, ma ci rimane un Breve di Pio II del 1463 nel quale è detta anche parrocchiale. Chiesa antichissima pertanto, la cui erezione si smarrisce nell'oscurità dei tempi medioevali.
Il nome di Baragia o Baraggia, che ricorre sovente in Lombardia, indica nelle vecchie pergamene terreno generalmente incolto (landa, sodaglia, ecc.). E infatti l'etimo del non lontano Brugazzo è da brugh (brughiera).
Nel secolo scorso, facendosi uno sterro dinanzi alla porta della chiesa, si rinvenne una tomba medioevale di serizzo, la quale andò distrutta senza che alcuno pensasse a raccogliere possibilmente qualche notizia intorno alla medesima. Rimane nondimeno ancora il grosso coperchio ma senza iscrizione.
Ossa di sepolti vennero alla luce nel passato in occasione di scavi presso la chiesa.

Al tempo di S. Carlo, e precisamente nel 1564, la chiesa di S. Giovanni la troviamo già ridotta a semplice cappella, del cui lauto beneficio era investito il prete Dionisio Giussani.
Attraverso quali vicende sia ciò avvenuto non mi fu dato di conoscere. Faceva allora parte della parrocchia di Robbiano: Membrum ecclesiae S. Quirici par. de Robiano dicono gli atti di visita del Cermenati (1569), e altrettanto risulta dagli atti di S. Carlo e suoi successori.
Non vide adunque giusto Vitaliano Rossi quando scrisse che S. Giovanni in Baraggia fu spiritualmente aggregato a Robbiano nel 1759 (101).
Riguardo al civile il luogo fece a sé fino al 1760: la sua autonomia si rileva, oltre che dal citato abbuono delle gravezze del 1621, anche da una carta del 15 maggio 1563. Dice il documento: Io P. Dionisio Giussano faccio fide si come la cassina di S.to Io: in Baraggia è comune de per sé et non ci sono altri che abbiano a far in esso comune che essa giesa: se leva stara 2 et quarto uno de sale. - Io P. Dionisio ho scritto et sottoscritto de propria mano. E ancora in operazioni d'estimo del 1726 il luogo di S. Giovanni è considerato come comunità indipendente; e nell'anno seguente un Pietro Colombo ed un Francesco Borgonovo risultano rispettivamente console e sindaco della comunità di S. Giovanni in Baraggia.
Fu nel 1760 che, in forza del nuovo catasto di Maria Teresa e del riordinamento dell'amministrazione dei comuni per cui i più piccoli furono uniti ad altri maggiori, venne definitivamente annesso al comune di Giussano.
Nella misura generale dello Stato di Milano del 1558 i beni di S.Giovanni in Baraggia furono descritti come ecclesiastici antichi della comunità di Giussano e censiti in testa al prete Battista Giussani. Errore evidente, perché il luogo di S.Giovanni nulla aveva a che fare con Giussano, e che poi fu corretto. Invece possiamo qui vedere come i Giussani usassero di tutti i mezzi per dichiararsi patroni del pingue beneficio.
Invano dal comune di Robbiano nel 1725 e nel 1760, consenzienti gli abitanti della cascina, si supplicò la Regia Delegazione di unire quel luogo a Robbiano dal quale già dipendeva ecclesiasticamente, tanto più che Giussano godeva già di un vasto territorio. Le buone ragioni a nulla valsero di fronte alle potenti influenze contrastanti.
L'antico comune di Robbiano, stretto dai contermini grossi comuni di Verano e di Giussano, dove risiedevano nobili famiglie le quali possedevano fondi su quel di Robbiano, fondi che negli antichi istrumenti pergamenacei sono dichiarati talvolta in comune di Robbiano e tal'altra in quello di Verano o di Giussano, a seconda della residenza dei proprietari, finì, in mancanza di antichi e precisi catasti, ad essere rosicchiato, per cui col catasto di Carlo V lo troviamo già ridotto presso a poco al perticato catastale di Maria Teresa.
E altrettanto avvenne per ciò che riguarda la parrocchia benché in minori proporzioni, come del resto ce lo prova anche in tempi più recenti il fatto, già ricordato, delle pretese del curato di Verano sulla cascina Colciaga, e l'anomalìa della cascina Gallazza spettante alla parrocchia di Giussano.
Si dice che il diritto è quello che crea o dovrebbe creare la forza, ma nella realtà troppo spesso ciò che crea il diritto è purtroppo il contrario, giusto il proverbio che il pesce grosso mangia o cerca di mangiare quello piccolo, e non viceversa. Se il comune di Paina poté sfuggire a questi abusi, lo deve in gran parte ai monaci della Certosa di Garegnano i quali erano i maggiori proprietari fondiari: gli ordini religiosi furono sempre precisi e tenaci assertori dei loro diritti e dei loro interessi.
S. Carlo visitò S.Giovanni in Baraggia il lunedì 25 agosto 1578. Investito del beneficio era il rev.do Giacomo Filippo Giussani, figlio del nobile Gerolamo, dell'età di 27 anni e di condotta poco esemplare. Faceva celebrare la messa festiva dal padre Nicolao dei Minori, guardiano del convento di S. Francesco in Mariano.
Il Santo emanò decreti per riparazioni alla chiesa e per provviste di paramenti, obbligando il titolare a spendere 50 aurei per la loro esecuzione, incominciando dal prossimo S. Martino fino a Pasqua, sotto pena del doppio.
I terreni del beneficio, allora di circa 600 pertiche, si potevano affittare a 35 soldi la pertica, e si coltivavano a frumento, segale, miglio e legumi, con numerose piante di castani, noci, viti ed altri alberi fruttiferi, per cui il prodotto granario era relativamente scarso. E questo spiega come allora presso S. Giovanni non vi fossero che due famiglie da massaro di complessive 21 persone, mentre ora ci vivono poco meno di 200 abitanti (102).
In più il beneficio godeva un livello di sette moggia di mistura e due di frumento sopra un molino e alcuni terreni situati presso il Lambro. Nell'ultimo decennio del secolo XV erano sorte liti e questioni tra il venerabile rev.do Beltramino de Nova, investito del beneficio della chiesa di S. Giovanni in Baraggia, e i signori fratelli Tomaso e Cristoforo Giussani, figli del q. Enrico, abitanti in Inverigo. Questi vantavano dei diritti su alcuni beni situati in territorio di Robbiano che il de Nova invece sosteneva di spettanza del suo beneficio. Finalmente con istrumento del 15 settembre 1498 si venne ad una transazione livellana perpetua: i due fratelli Giussani e successori si obbligarono a consegnare ogni anno sette moggia di mistura e due di frumento come fitto livellario di detti beni, i quali consistevano in un molino sul Lambro in territorio di Robbiano dove si diceva de Lacorcera (che poi fu chiamato molino Crivelli) con tre rodigini una per macinare il frumento e le altre due la mistura (segale, miglio, ecc.), e terreni annessi di circa 31 pertiche. La transazione fu approvata dalla Curia Arcivescovile di Milano con atto del 6 marzo 1499 (103).
Si noti che tanto nell'istrumento del 1498 quanto in quello dell'anno seguente non si fa parola di patronato da parte dei Giussani sopra detto beneficio, e nemmeno i due fratelli Giussani portano la specifica di Squarcia.
I nobili Giussani pretendevano il diritto di patronato. S. Carlo, prima di riconoscere tale diritto, volle vederci chiaro, dati i grandi abusi in materia invalsi nella Chiesa nel periodo precedente la riforma del Concilio di Trento.
Il rev.do Giacomo Filippo Giussani fu chiamato dal Vicario Generale il 14 febbraio 1575 a presentare gli atti riguardanti la fondazione del beneficio. Il titolare non potè a meno di dichiarare che non c'erano documenti, trattandosi di fondazione antica (antiquissima), ma che ciò nonostante lo si riteneva di patronato della casata Giussani.
Allo stesso Vicario, da persona che volle rimanere ignota, probabilmente per sfuggire a possibili rappresaglie da parte degli interessati, fu mandato un Breve di papa Pio II del 1463 col quale si provava che la chiesa di S. Giovanni era un tempo parrocchiale e niente affatto di patronato dei Giussani.
Il donatore del Breve accompagnò il documento con una lettera esplicativa nella quale, fra l'altro, diceva che detto beneficio in Baradia nel '400 lo godeva un prete de Giussani, donde è stato causato che la casata de Giussani lo occupa come beneficio semplice a titolo di iuspatronatus per diverse presentazioni, ma non vi è fondatione. Questa scrittura la presenta persona incognita a V. S. Ill.ma a fin che la detta chiesa restituatur in pristinum et la detta scrittura sia reposta nel Archivio. Chi sarà stata quella persona che volle restare incognita? Probabilmnte, dato il possesso del documento e la conoscenza della questione, qualcuno della parentela stessa dei Giussani. Comunque sia, ecco il Breve rimasto finora sconosciuto e che ho rinvenuto nelle carte dell'archivio della curia arcivescovile di Milano:

Pius papa II

Dilecti fily Salutem et apostolicam benedictionem. Exponi nobis fecit dilectus filius Andreas de Gluxiano presbiter Mediolanensis, quod ipse parochialem ecclesiam sancti Johannis in Baradia Mediolanensis diocesis tunc vacantem a nobis legitime impetravit, sibique de illa obtinuit provideri prout in litteris apostolicis desuper confectis latius continetur. Verum quia in eisdem litteris Abbas Monastery Sancti Simpliciani extra muros mediolanenses
executor deputatus extitit, qui antequam litteras ipsas exequeretur debitum nature persolvit, Supplicavit nobis dictus Andreas ut in premissis oportune providere dignaremur. Quo circa devotioni vestre per presentes committimus et mandamus quatenus, si est ita, ad executionem litterarum predictarum auctoritate nostra procedatis seu alter vestrum procedat iuxta ipsarum seriem et tenorem, proinde ac si vobis vel alteri vestrum directe extitissent. Non obstantibus premissis ac ceteris contrarys quibuscumque. Datum Rome apud Sanctum petrum Sub anulo piscatoris die VII february MCCCCLXIII, pontificatus nostri Anno Quinto.
Gregorius de Piccolominis.

(A tergo): Dilecto filio Alimento de Nigris notario nostro et vicario in spiritualibus generali venerabili fratris nostri archiepiscopi mediolanensis vel alteri eorum.


Fin che visse S. Carlo, energico difensore dei diritti della Chiesa, le pretese dei Giussani non furono riconosciute. Nel 1563 il Sommo Pontefice investì direttamente del beneficio D. Pietro Dell'Orto canonico di Desio. Morto il santo i Giussani ritornarono alle loro pretese, e, forti delle loro influenze nobiliari presso la corte pontificia, ricorsero alla S. Sede. In uno stato del clero della pieve di Agliate del 1589 si dice infatti che il beneficio di S. Giovanni pretenditur iuspatronatus (et lis pendet) illorum de Gluxiano.
Con sentenza in data 4 luglio 1597 la Sacra Romana Rota riconobbe il diritto passivo di patronato ai Giussani, riservando il diritto attivo alla S. Sede per quanto riguardava il sacerdote da investire coi relativi oneri. Sentenza di compromesso, come suol dirsi, che doveva avere le sue gravi conseguenze secoli dopo.
Dei decreti di S. Carlo ben poco, per non dir nulla, si era tenuto conto, così che Federico Borromeo nella sua visita pastorale del 1606 trovò la chiesa in tale stato di deperimento da ordinare che si avesse a restaurarla e ad ampliarla, accedendovi per un gradino; che nelle pareti laterali si aprissero due finestre a vetri munite di rete metallica; che all'altare vi si ascendesse per due gradini compresa la bredella, ecc.
Il tutto doveva essere eseguito dal titolare nel termine di sei mesi, sotto pena di sequestro dei frutti del beneficio che si diceva ammontassero a più di 400 aurei.
Volle ancora che in due anni, sempre coi redditi del beneficio, provvedesse la chiesa degli arredi sacri mancanti, di un vaso di pietra per l'acqua santa, di una sagrestia, di un armadio per niporvi i paramenti, di una tornicella con campana, ecc. Gli intimò di murare entro 15 giorni la porta che dalla chiesa metteva alle case coloniche (ma che non fu mai chiusa), e nello spazio di un mese togliere le sporcizie addossate ai muri della chiesa, sotto pena di 50 scudi da pagarsi alla parrocchiale di Robbiano.
E poichè aveva abusivamente asportato dai fondi del beneficio piante di noce, di castano ed altri alberi, comandò al Vicario Criminale di istituire il relativo processo per la rifusione dei danni.
Titolare era il chierico nobile Alessandro Casati, il quale suppliva all'onere della messa festiva mediante un sacerdote, e pagava lire 600 di pensione al rev.do Camillo Dell'Orto di Desio vita sua durante.
Si lamentava il buon arcivescovo che, nonostante i lauti proventi, la chiesa fosse tanto mal tenuta e a stento provvista di sacri arredi. Lamento che ricorre in tutti gli atti dei successivi visitatori diocesani: Tancredini nel 1683, card. Federico Visconti nel 1688, Calchi nel 1742, card. Pozzobonelli nel 1759.
Gli investiti, più che a porre in esecuzione i decreti, attendevano a godersi il grasso beneficio, e dal 1742 in avanti non mancarono di quelli che ritenevano di non essere obbligati alla messa festiva col pretesto della mancanza delle tavole di fondazione, per quanto la si celebrasse o facesse celebrare e si solennizzasse il giorno di S.Giovanni Evangelista con messa in canto e intervento di sei sacerdoti compreso il parroco di Robbiano.
E ben si comprende: essi erano figli di nobili per lo più senza vocazione sacerdotale, costretti dai parenti ad abbracciare la carriera ecclesiastica o quella militare per salvare il maggiorasco.
Non di rado poi avveniva che, per ottenere la loro presentazione, si obbligavano a passare un tanto sulla rendita beneficiaria ad alcuni dei patroni più poveri.
Se la soppressione di quel beneficio nel 1867 fu una cosa ingiusta contro i diritti della Chiesa, dall'altra ebbe per lo meno il merito di spazzare via per sempre questa sorta di ecclesiastici.
Meglio essere preti poveri che poveri preti.

Il card. Federico Visconti visitò la chiesa nel 1688. Godeva quel beneficio semplice sive Abbatia nuncupatum il rev.do Gio: Claudio Giussani, presentato dai patroni laici della famiglia Squarcia-Giussani, ed approvato il 20 ottobre 1683.
A proposito del titolo di abbazia negli atti di visita del Calchi del 1742, si ha che sopra la porta della chiesa stava murata una lapide, la quale diceva che l'abbate Pietro Paolo Giussani nel 1662 la eresse in abbazia: Petrus Paulus Gluxianus abbas Alexandro VII pontifice anno MDCLXII pietate et expensis propriis erexit in Abbatiam. Perciò si riteneva di patronato passivo dei discendenti di Pietro Paolo Giussani, ossia degli Squarcia-Giussani, perchè l'attivo spettava alla S. Sede.
Non saprei quanto di vero ci sia in questa iscrizione, non essendomi venuto sott'occhio memoria alcuna che mi potesse recare qualche schiarimento in riguardo.
È certo nondimeno che nelle carte dei secoli seguenti il beneficio è detto abbaziale, e patroni gli Squarcia-Giussani (104).
Il parroco Meregalli, obbligato nel 1803 per legge governativa a notificare la situazione economica della parrocchia e quindi anche dell'abbazia di S.Giovanni, si rivolse allo steso investito Ill.mo e Rev.mo Giovanni Filippo Scotti Gallarati (105), per le relative informazioni.
Dalla risposta, avuta dall'agente di casa Scotti Gallarati, si ha che il beneficio contava allora in tutto pertiche milanesi 1585 e tavole 13 estimate scudi 2796.4.5, esistenti nei comuni di Giussano, Verano, Paina e affittate al sacerdote Raffaele Mariani per annue lire 3600, più lire 380 per imposte rimaste a carico del titolare.
La messa festiva, che si celebrava sempre a carico del commendatario, importava annualmente la spesa di lire 226, e la festa di S. Giovanni lire 35. L'arcivescovo card. Gaisruck, anni dopo, stabilì in lire 600 annue l'elemosina totale delle messe festive: provvedimento più che giusto di fronte alla pingue rendita beneficiaria.
A titolo di elemosina si pagavano ogni anno lire 150 ad alcuni poveri della famiglia Squarcia-Giussani.
Rimessa all'asta il 18 maggio 1820 l'affittanza dei fondi, essa fu deliberata al miglior offerente sig. Carlo Giuseppe Brenna di Robbiano per l'annuo canone di lire 3323.

Il 5 agosto 1867 venne sancita la liquidazione dell'asse ecclesiastico. Legge statale ingiusta per più ragioni. Gli Squarcia-Giussani, quali patroni, pensarono di svincolarne i beni. La mancanza delle tavole di fondazione fu riconosciuta con sentenza 3 febbraio 1871 del Tribunale di Monza, e con altra del 12 gennaio 1872 della Corte d'Appello di Milano.
Il nobile sacerdote D. Ferdinando Sormani, successo allo Scotti-Gallarati, venne il 6 giugno 1873 ad una transazione cogli Squarcia-Giussani, rinunciando ad ogni diritto che sulla sostanza gli potesse spettare (106), ritenendosi però nello stesso tempo svincolato da ogni responsabilità per la messa festiva e la solenne funzione nel giorno di S. Giovanni Evangelista. Gli Squarcia entrarono in tal modo definitivamente nel pieno possesso dei beni rivendicati, ma più non si curarono dell'onere della messa festiva esistente da tempo immemorabile, e sempre fino allora adempiuto come risulta dagli atti ecclesiastici e civili da S. Carlo in poi.
Il curato Minorini nel 1876 tentò, come si è detto, contro i nuovi padroni di far rispettare quest'obbligo, ma la causa, patrocinata dall'avv. Casanova di Monza, fu impostata, com'ebbi a constatare dagli atti relativi, senza la necessaria ricerca di tutti i possibili documenti d'archivio anteriori a S. Carlo, i quali avrebbero dichiarata la natura di quell'antichissimo beneficio e di conseguenza gli oneri annessi.
Condotta diversamente, ricorrendo se del caso al supremo Tribunale di Cassazione, la causa avrebbe forse avuto esito favorevole. Dico forse perchè in quei momenti imperversava la follìa liberale e massonica del sopprimere ad ogni costo.
Il Casanova in base all'articolo 5 della legge del 1867 che diceva salvo l'adempimento dei pesi, se e come di diritto, cioè annesse alle fondazioni medesime, sostenne, e giustamente, essere buona massima di giurisprudenza che, quando siano andate perdute le tavole di fondazione di un'antica istituzione, si può chiarire la natura dell'istituzione stessa, ed affermare i diritti e gli oneri ad essa inerenti facendo appoggio alle nomine degli investiti, agli atti di immissione, ai decreti dell'autorità ecclesiastica e civile, alle visite degli ordinari diocesani, e più di tutto all'immemorabile e continua osservanza. Poiché l'antichissima consuetudine costituisce essa stessa il miglior titolo di possesso giusta la sapienza romana e canonica che possessio immemorabilis est melior titulus de rnundo.
E vi allegava in prova gli atti ecclesiastici, civili e privati da S. Carlo in poi.
Nel caso si trattava, come ognun vede, di una consuetudine immemorabile più che legittima.
Ma tutto questo, a mio avviso, doveva avvenire in séguito, e cioè dopo avere innanzitutto dimostrata la ragione della mancanza delle tavole di fondazione, della quale si facevano forti gli avversari. Se ciò si fosse fatto, ricercando diligentemente i necessari documenti anteriori a S. Carlo negli archivi milanesi e vaticani, si sarebbe potuto probabilmente dimostrare che le tavole non erano andate perdute, ma bensì che non esistevano, per la ragione che si trattava di un'antichissima chiesa canonicale e parrocchiale le cui origini si perdevano nel buio dei tempi.


Altare di S. Giovanni

E che non esistessero per S. Giovanni in Baraggia lo ha dichiarato, al tempo di S. Carlo, il possessore del Breve consegnato al Vicario Generale, e nel 1575 il titolare investito del beneficio.
Che la fondazione di quel beneficio spettasse ai Giussani non è provato nemmeno dalla sentenza della Sacra Romana Rota del 1597, in quanto che i Giussani fondavano le loro pretese di patronato non sull'atto di erezione, ma sul diritto consuetudinano di parecchie presentazioni fatte da loro.
L'istrumento del 9 febbraio 1471 rogato in Lurago, e pertanto posteriore anche al Breve da noi riportato, nel quale un compiacente notaio dichiarava Pietro Giussani patrono di S. Giovanni in Baraggia (107), ma senza nominare l'atto di fondazione o dire quando e come i Giussani avessero eretto tale beneficio, ci prova nient'altro che l'invadenza dei nobili Giussani che S. Carlo non volle mai riconoscere.
E questo ci dice, in fatto di diritti, di quali gravi conseguenze possono essere causa certe consuetudini abusive non protestate a tempo.
L'arcivescovo card. Ferrari nella sua visita pastorale del 1901, impedito dagli Squarcia-Giussani di visitare la chiesa, l'interdisse.
Finalmente il 1 luglio 1924, con istrumento a rogito Gian Carlo Vismara, gli Squarcia-Giussani Giovanni, Vittorio, Erminia e Rachele, figli di Giusto, alienarono quanto loro rimaneva di proprietà in S. Giovanni in Baraggia.
La fabbriceria di Robbiano colse l'occasione per acquistare la chiesa al prezzo di lire seimila. Restaurata, fu riaperta di nuovo al culto con gran contento di quegli abitanti. L'altare conserva una buona tela rappresentante S. Giovanni Evangelista.

Non dispiacerà al lettore ch'io chiuda questa raccolta di notizie con qualche cenno sull'oratorio pubblico di S. Macario e Defendente in Birone, tanto vicino a S. Giovanni in Baraggia (108).
Se Birone fino al 1870 fece parte del comune di Paina, da tempo antico era e rimase sotto la giurisdizione parrocchiale di Giussano.
In pergamene del secolo XIV e XV è chiamato Burono: ... in cassinis de burono... in territorio de burono, e vi possedevano fondi, tra gli altri, anche i Giussani.
Nel secolo XVI vi sorgeva un piccolo oratorio campestre dedicato a S. Macario e a S. Defendente. Quando sia stato eretto non mi consta. Non vi è cenno nemmeno nel Liber più volte citato: probabilmente non dev'essere molto antico, per quanto certamente anteriore a S. Carlo.
Nel 1566 fu visitato dal Sormani, il quale ordinò che si avesse a ripararlo o a demolirlo tanto era in disordine. Da successiva visita del Cermenati e Pessina (1569) sappiamo ch'era lungo 10 passi e largo 7 col tetto tutto sconnesso, senza pavimento, senza campana, colle pareti scrostate, lasciato aperto giorno e notte: non conteneva che un piccolo altare disadorno. Quanto mai misera la dotazione dei sacri arredi. Non aveva annesso alcun reddito. Proibì perciò che si avesse a celebrare fino a tanto che non si fossero eseguite le necessarie riparazioni.
S. Carlo stesso nel 1578 mantenne tale proibizione se prima non si fosse ricostruito un altare più decente, pavimentato e soffittato l'oratorio, provveduta una campana e i necessari paramenti.
Dalle visite successive del Seneca (1584), del Cepolla (1597), e del Clerici (1604) si vede che dei decreti di S. Carlo nulla si era eseguito: l'oratorio stesso minacciava ruina.
Il card. Federico nel 1606 lo trovò in condizioni tali da esortare vivamente il sacerdote D. Pietro Giussani ad allungarlo nella parte anteriore così da raggiungere i sedici cubiti, e cioè nella misura prescritta dalle istruzioni generali e dal Concilio Provinciale 4°, diversamente non poteva tollerare che in esso vi si celebrasse. Ingiunse di rinnovare l'immagine della B. Vergine dipinta sulla parete verso mezzogiorno, di coprire il pozzo situato dietro l'oratorio, di estirpare le piante di noce addossate alla chiesa, ecc.
Raccomandò agli abitanti, dopo che tutto fosse riparato e provvisto del necessario, di raccogliere offerte in modo da far celebrare la messa tutti i giorni, e non soltanto due volte la settimana come dal lascito di un Giovanni Tosetti di Birone, però solamente in rito ambrosiano e con facoltà scritta dall'Ordinario; legato che allora gli eredi non si facevano premura di soddisfare e che non lo fu mai nonostante i richiami dei visitatori diocesani.
Successivamente un Giovanni Antonio Besana detto il Marino, con testamento del 15 gennaio 1631, dispose cento messe annue perpetue, e con codicillo del 28 luglio 1638 tre messe perpetue alla settimana, compresi i giorni festivi, da celebrarsi nell'oratorio di S. Macario di Birone.
Senonché con altro codicillo del 20 settembre 1639 annullava quanto aveva precedentemente lasciato, e stabiliva invece un legato di duecento messe annue fino alla somma di lire 1800 imperiali, e non oltre, da celebrarsi in detto oratorio. Per cui erogata quella somma in tante messe di duecento all'anno, il legato doveva ritenersi estinto, come ebbe a dichiarare il Vicario Gerolamo Negri con decreto del 5 giugno 1706.
Sembra che qualche cosa siasi fatto da D. Pietro Gìussani dopo la visita del card. Federico, perchè negli atti di visita del card. Federico Visconti del 1688 l'oratorio lo si descrive lungo 16 cubiti e largo 10 con paramenti sufficienti, e che in esso nei giorni festivi gli abitanti, con offerte raccolte fra di loro, facevano celebrare per divozione la messa da un padre francescano del convento di Mariano.
Forse per queste riparazioni i nobili Giussani pretesero poi di esercitarvi il diritto di patronato, poiché negli atti del Calchi del 1742 sta scritto che quell'oratorio lo si riteneva (censetur) di patronato Giussani. Pretesa con tutta probabilità abusiva, perché infatti mentre da una parte non vi è cenno di tale diritto negli atti di visita precedenti, dall'altra non esisteva alcun atto legale che lo dichiarasse di spettanza della famiglia Giussani.
Il card. Pozzobonelli nella sua visita del 1759 trovò quell'oratorio ancora molto piccolo. Questo lascia sospettare che forse non raggiungeva in realtà i 16 cubiti di lunghezza prescritti. Aveva, per altro, una campanella sulla sommità del tetto la cui corda scendeva presso la facciata a sinistra entrando. Sopra l'unico altare, aderente alla parete, stava appeso un quadro rappresentante la B. Vergine, S. Macario e S. Defendente.
Non essendovi annesso alcun legato antico di messe, pochi erano i paramenti sacri, e questi erano provveduti colle spontanee offerte della popolazione, la quale a sera amava raccogliersi nel suo oratorio per le orazioni vespertine.
Mancava la sagrestia, ma era vano il pensarci, osservano gli atti di visita, per la mancanza di luogo e di mezzi per costruirla; perciò fu prescritto di conservare i paramenti non presso persone private, ma in una cassa da collocarsi nel lato dell'epistola (109).
L'oratorio lo si asserisce (asseritur) di patronato della casa Magenta, in quanto era successa per via di eredità all'estinta famiglia dei Giussani, e alla quale quindi sarebbe spettata la manutenzione (110).
Ma la Divina Provvidenza pensò anche ai buoni terrieri di Birone.
L'anno prima che arrivasse il card. Pozzobonelli, il sacerdote D. Natale Marino con testamento del 21 marzo 1758 aveva disposto, per comodità di quella grossa frazione molto lontana dalla parrocchiale, una messa festiva perpetua, assegnando in dote un fondo di 35 pertiche con casa da massaro situata al Dosso di Birone.
Amministratore del legato dichiarò il parroco di Paina pro tempore, il quale, oltre celebrare o far celebrare innanzitutto in detto oratorio la messa festiva, era tenuto ad un ufficio anniversario nel giorno della morte del testatore con una messa in canto e intervento di un numero di sacerdoti compatibile coll'annua rendita del fondo. Non è tuttavia espressamente specificato in quale chiesa si dovesse celebrare detto anniversario.
Il legato, benchè ormai insufficiente allo scopo, sussiste tuttora, e nel secolo scorso diede origine a contrasti, sui quali sorvoliamo, tra qualche parroco di Paina, che cercava di interpretare un po' a modo suo la volontà del testatore, e quello di Giussano che insisteva perché non venisse a mancare per qualsiasi motivo la messa festiva a quei di Birone (111).
Un'altro oratorietto privato sorse al Dosso per merito della famiglia Marini (112).
Il sacerdote D. Filippo Marino, con testamento del 21 febbraio 1681, lasciò in perpetuo sei messe alla settimana, compresi sempre i giorni festivi, coll'elemosina di lire 300 imperiali, aggravando a questo scopo alcune sue proprietà, colla dichiarazione che erigendosi un oratorio al Dosso le dette messe dovessero celebrarsi nell'oratorio stesso, e nel caso che tale oratorio non si erigesse, e comunque prima che venisse eretto, avessero a celebrarsi in quella chiesa o chiese che i suoi eredi avessero preferito a loro arbitrio.
Tra le altre condizioni vi era che qualora il prescelto fra i suoi discendenti fosse ancora chierico, ma coll'intenzione di farsi sacerdote, poteva nondimeno essere investito del legato e usarne per le spese a compimento degli studi: ordinato sacerdote avrebbe quindi incominciato a celebrare le messe.
Nel 1688 l'oratorio non era ancora stato eretto dagli eredi come risulta dagli atti di visita del card. Federico Visconti, nonostante i precedenti ordini del visitatore regionale Tancredini del 1683 il quale aveva imposto al parroco di Giussano di adoperarsi perchè tutto fosse fatto secondo le disposizioni testamentarie, sotto pena ai diversi eredi di essere esclusi dai Sacramenti, e che edificato l'oratorio in esso non vi si celebrasse che in rito ambrosiano.
In quale anno precisamente sia poi sorto non mi risulta.
Il Calchi nel 1742 lo dice di recente costruzione ma assai piccolo, benché tutto fosse secondo le norme ecclesiastiche e ben provvisto di arredi sacri. Vi erano alcune Reliquie e tra queste quella di S. Croce.
Di patronato dei fratelli Formenti, era dedicato a San Giuseppe e a S. Gioachino, titolo che in seguito fu cambiato in quello di S. Atanasio.
Diciasette anni dopo, all'arrivo del card. Pozzobonelli, l'oratorio annesso alla casa padronale, ma sempre ben tenuto e provvisto, lo troviamo di patronato del comasco conte Monticelli.
Investito del legato era invece il figlio ed erede del q. fisico Marino, al quale dopo la morte di D. Filippo Marino erano pervenuti per successione ereditaria i sopradetti beni cogli oneri annessi. E poichè quel figliolo di 8 anni aveva appena iniziato gli studi per essere un giorno ordinato sacerdote, rimaneva perciò sospesa la celebrazione delle messe.
D. Carlo Filippo Marino, parroco di Figino, considerando che le 300 lire lasciate dallo zio erano insufficienti a costituire una bastevole congrua per la sostentazione del sacerdote, aveva imposto ai suoi eredi, con testamento del 20 aprile 1735, di aggiungervi in perpetuo altre 60 lire annue, così da rendere quotidiana la messa.
Nel 1868 il dott. Giuseppe Marini de Besana, discendente dei fondatori, affrancò le 360 lire depositando l'equivalente in cartelle del Debito Pubblico.
Con le sopravvenute svalutazioni monetarie quei due legati finirono col ridursi praticamente a zero.


Robbiano, Parrocchiale