Don Lorenzo Milani: un prete
schierato con il Vangelo
di Piersandro Vanzan
A 40 anni dalla morte che sopraggiunse a liberarlo
dalle terribili sofferenze del tumore (Firenze, 26 giugno 1967), il
fascino di don Lorenzo Milani e l'originalità del suo messaggio restano
più vivi che mai. Perché gli scritti e le dure battaglie che affrontò
scuotono tuttora le coscienze intorpidite, mettendole di fronte alle
ingiustizie e alle connivenze o miopie. In breve, la sua ribellione
obbediente — peraltro tuttora fonte di opposte valutazioni, come del
resto si fa con altri «profeti» di quel tempo1 — è lì a ricordarci che
soltanto dall'interno, anzitutto di noi stessi, è possibile cambiare i
meccanismi perversi anche delle istituzioni. Come sacerdote profetico e
lungimirante, fu osteggiato per il suo voler rimanere al di sopra delle
divisioni politiche e ideologiche che laceravano l'Italia nel secondo
dopoguerra, mentre fu altrettanto incompreso come uomo folgorato
dall'utopia evangelica, che volle realizzare nella Chiesa schierandosi
dalla parte degli ultimi.
Concretamente, don Milani tentò gli esperimenti di avanguardia del
regnum Dei prima tra gli operai e i contadini di San Donato, proprio
quando, colmata l'ignoranza che li estraniava dal resto della società
civile, prendevano coscienza del loro valore di uomini; e poi nella
sperduta canonica di Barbiana, in mezzo a un gruppetto di bambini che,
divenuti famiglia accogliente in una scuola non discriminata, imparavano
un sapere globale, tipico dell'umanesimo integrale cristiano, e
preparavano cosi un futuro migliore: per sé e per la polis. Scriveva
infatti: «La scuola siede tra passato e futuro e deve averli presenti
entrambi. [...] E allora il maestro deve essere per quanto può
"profeta", scrutare i "segni dei tempi", indovinare negli occhi dei
ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi oggi
vediamo solo in confuso» 2.
Mistero di una conversione
L. Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923, da una ricca e colta
famiglia borghese. Il padre Albano, laureato in chimica, e la mamma,
Alice Weiss — di origine ebraica, da giovane era stata a lezione
d'inglese da James Joyce —, entrambi agnostici, si erano sposati nel
1919 soltanto col rito civile, e non battezzarono i figli — Lorenzo,
Elena e Adriano — fino al 1933, quando, con l'inizio della persecuzione
razziale in Germania, decisero di celebrare in chiesa sia il battesimo
di tutta la famiglia sia le nozze. Nel 1930, a causa della crisi
economica, si trasferirono a Milano, dove Lorenzo poi si iscrisse al
Berchet, mostrando subito un'indipendenza e audacia fuori dal comune.
«Era diverso da tutti noi: spregiudicato, bastiancontrario. Si
comportava come scriveva: senza curarsi della punteggiatura» 3, racconta
uno dei compagni, e a 18 anni, contro il parere dei genitori, non si
iscrisse all'Università, ma frequentò l'Accademia delle Belle Arti di
Brera: una scelta — influenzata dal pittore fiorentino Hans Joachim
Staude, conosciuto nell'estate del 1941 — rivelatasi decisiva per la sua
futura vocazione, esattamente come i mesi passati un anno dopo nella
tenuta di famiglia a Gigliola, fuori Firenze. Proprio qui infatti, nella
cappellina sconsacrata, trovò un vecchio messale che lesse d'un fiato,
scrivendo poi all'amico Oreste del Buono: «Ho letto la Messa. Ma sai che
è più interessante di Sei personaggi in cerca d'autore?»4.
Quell'interesse si rafforzò talmente che, da semplice attrazione verso
la dimensione esteriore della religione, si trasformò in una così
profonda ricerca dei significati del sacro e delle sue ragioni profonde
da scatenargli in cuore — nei toni massimalisti a lui propri — un forte
travaglio interiore, che trovò parziale requie alla fine degli studi da
pittore e il rientro a Firenze, nella primavera del 1943. Dopo alcuni
mesi incontrò don Raffaele Bensi, un prete molto amato dai giovani
fiorentini5, il quale, di fronte ai suoi foglietti zeppi di problemi,
pensò d'indirizzarlo a don Mario Lupori. Lorenzo si recò a trovarlo, con
una fitta serie di interrogativi, ma le risposte ottenute non lo
convinsero, tanto che se ne andò affermando: «Si vede che lei non è
preparato!»6. E tornò da don Bensi, il quale — stupito di ritrovarselo
davanti — gli disse che non poteva ascoltarlo in quel momento, perché
doveva correre al capezzale di un prete moribondo. Alle insistenze di
Lorenzo, gli propose di seguirlo. Camminarono insieme per un'ora e mezza
e, racconta don Bensi: «Arrivati dal prete lo trovammo morto. Lorenzo lo
guardò e dopo un lungo silenzio disse: "Io devo prendere il suo
posto"»7. Era il 3 giugno 1943. Dopo una settimana ricevette la cresima,
e per tutta l'estate approfondì i tesori della fede cristiana; poi a
settembre, durante un pranzo, comunicò ai genitori di essere stato
accettato in seminario. L'annuncio ovviamente lasciò tutti sorpresi e
provocò, insieme al dispiacere, varie obiezioni; ma nessuno ostacolò la
sua vocazione.
Entrò nel seminario di Cestello in Oltrarno, nel quartiere popolare di
San Frediano, proprio mentre l'Italia era in piena guerra, sperimentando
subito una povertà alla quale non era abituato: fame, freddo e
privazioni. Eppure quella vita materiale così dura non lo scoraggiò,
perché aveva trovato quanto istintivamente cercava: una ragione assoluta
per vivere. Lorenzo fu sempre fedele a una forma di vita molto austera —
la cella era spoglia, con un tavolo e il letto senza materasso — e a una
scrupolosa osservanza delle regole. Ma ciò non gli impedì di esprimere
quella sua marcata autonomia nei confronti del seminario e delle
strutture ecclesiastiche in genere, che lo avrebbe contraddistinto per
tutta la vita. Fin da allora imparò a distinguere la fede dai
comportamenti dei suoi custodi terreni, non di rado scontrandosi con gli
insegnanti, ai quali diceva tutto quel che pensava; mostrava
insofferenza verso gli esercizi spirituali, «non lasciava nessuno
indifferente: o lo si amava o lo si odiava!» 8.
Alla madre, che in una lettera gli parlava della perdita di libertà,
rispondeva: «Quando uno Uberamente regala la sua libertà è più libero di
uno che è costretto a tenersela. Chi regala la sua libertà si libera dal
peso di tenersela. [...] Io per esempio mi son preso tutte le libertà
possibili e immaginabili e poi mi sono accorto che c'era una grande cosa
(la più grande) che potevo fare. Prima di morire mi voglio prendere
anche questa libertà di dir Messa»9. Il 13 luglio 1947 fu ordinato
sacerdote nel duomo di Firenze e l'indomani celebrò la prima messa a San
Michele Visdo-mini, nella chiesa dell'amato don Raffaele Bensi. Ma
subito dopo iniziò la via crucis: dove collocare quel prete, così fuori
dalle righe? Provvisoriamente la Curia lo mandò cappellano a
Monte-spertoli, finché mons. Tirapani, ricordando le insistenze di don
Pugi, parroco di San Donato a Calenzano — una pieve millenaria, tra
Prato e Firenze —, gli scrisse: «Abbiamo un tipo che nessuno vuole: un
ragazzo d'una famiglia mezza ebrea, che già in seminario ha fatto molto
confondere. Se tu te la senti di prenderlo e di provare...». Don Pugi
rispose: «A me va bene in tutti i modi, purché dica Messa e confessi»10.
Missionario per le strade di San Donato
Don Milani arrivò a San Donato il 9 ottobre 1947, in una sera di fitta
pioggia, e trovò ad accoglierlo il suono delle campane, don Pugi11 e una
quindicina di giovani. Fin dall'inizio il suo obiettivo fu abbattere i
muri divisori tra Dio e i non credenti, tra il Vangelo e i «lontani»,
tra il prete e i poveri, e capì subito che per raggiungerlo non doveva
stare in parrocchia, ma andare a cercare gli «infedeli» nelle case,
nelle fabbriche, nelle Case del popolo e farsi, come insegna san Paolo,
«tutto a tutti» {1 Cor 9,22): non solo povero tra i poveri e orfano tra
gli orfani, ma anche, in un mondo ormai avviato verso la guerra fredda,
operaio tra gli operai e «comunista tra i comunisti» 12. Per questo
prese la bicicletta e diventò missionario del Vangelo, girando per le
campagne e le fabbriche di San Donato, dove tra i 1.200 abitanti — in
gran parte operai nelle aziende tessili di Prato, ma anche contadini,
muratori e artigiani —, forte era la divisione politica tra
democristiani e comunisti: i primi frequentavano la parrocchia,
specialmente i circoli Acli, e i secondi, ben più numerosi, si riunivano
nella Casa del popolo. Prima sua preoccupazione fu di essere credibile
agli occhi dei parrocchiani, e in tale ottica avvertì ben presto che i
mezzi usati, specie per attirare i giovani, non erano quelli giusti. Non
serviva il ping pong, né il pallone e ancor meno il circolo ricreativo
per convincere un giovane a venire in parrocchia. Anzi, col suo tipico
massimalismo, giudicò quei mezzi «indegni di un prete» 13. Era
necessario combattere la mancanza di cultura: vero ostacolo sia
all'evangelizzazione, sia all'elevazione morale del popolo.
Inoltre, nel fare catechismo ai parrocchiani riscontrò che non solo la
cultura religiosa del popolo era quasi nulla, nonostante le tante ore
dedicate all'insegnamento della religione nella scuola statale 14, ma
che addirittura mancava una vera e propria istruzione di base.
Conclusione: prima di esercitare il ministero sacerdotale, doveva farsi
maestro, e la scuola serale sarebbe diventata il mezzo per colmare
l'abisso culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo.
Andò a cercare i giovani contadini e operai di San Donato, entrò nelle
loro case, sedette alle loro tavole, convincendoli a frequentare la
scuola popolare serale. Infatti, secondo don Milani, il vero bene dei
poveri, come dei lavoratori, non si promuoveva col pallone o il gioco
delle carte, bensì con l'istruzione, per rendere possibile una
rivoluzione nell'ordine sociale. Osservava infatti: «La povertà dei
poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma sul grado di cultura e
sulla funzione sociale», così come la distinzione in classi sociali «non
si può fare sull'imponibile catastale ma sui valori culturali» 15.
Quindi, attraverso la cultura si poteva raggiungere un duplice
obiettivo: consentire al povero di elevarsi al rango dei benestanti e
aiutarlo a comprendere l'insegnamento religioso.
L'insegnamento puntava sulla lingua e la parola, che considerava una
chiave di accesso al mondo delle classi elevate, ma anche sulla musica,
sul disegno, sull'attualità; tanto che ogni venerdì arrivava uno dei
suoi amici a far lezione. Il Vangelo vissuto e predicato con estremo
rigore divenne per don Milani la chiave di volta per dipanare le
intrigate vicende italiane. Lui era per tutti, comunisti compresi,
benché sapesse che in un'Italia lacerata dalle divisioni politiche e
sociali non era possibile tollerare, né tanto meno comprendere, scelte
autonome. Per chiarire la sua posizione, nel 1950 scriveva a Pipetta, un
giovane attivista comunista che pensava fosse dei suoi: «È un caso sai
che mi trovi a lottare con te contro i signori. Ma il giorno in cui
avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata
insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta,
non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non
resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente
[dato che tu allora sarai nei palazzi] a pregare per te davanti al mio
Signore crocifisso»17.
Furono proprio le elezioni politiche del 1953 a creargli le prime gravi
tensioni, perché, sulla base delle esperienze fatte, anziché seguire le
istruzioni della Curia fiorentina e invitare a votare De, fece una netta
distinzione tra cattolici e non credenti. E se ai primi chiese un voto
ragionato — ossia scegliere tra i candidati Dc quelli che avrebbero
potuto difendere meglio gli interessi dei poveri —, ai secondi non diede
alcuna indicazione18. Questo atteggiamento alimentò il dissenso nei suoi
confronti, e mons. Timpani, non comprendendo quelle innovazioni — che
anticipavano la distinzione di Giovanni XXIII tra errore ed errante
fatte nella Pacem in terris —, lo accusò di fare il gioco delle
sinistre. A peggiorare la situazione si aggiunse nell'estate del 1954 il
funerale di Libero, un operaio comunista, durante il quale i
rappresentanti del Pei esposero in chiesa una bandiera rossa19. Don
Lorenzo non se la sentì di reagire in quel momento, ma questo fatto
infuocò ancor più il clima, e quando il 2 settembre 1954 morì don
Daniele Pugi, fu chiaro che non lo avrebbero lasciato a San Donato 20.
I ricordi di quegli anni — degli amici incontrati, degli operai e dei
contadini che avevano frequentato la scuola, del metodo pastorale
utilizzato — divennero, il 25 marzo 1958, un libro dal titolo Esperienze
Pastorali, edito dalla Libreria Editrice Fiorentina con Y imprimatur del
card. Elia Dalla Costa, concesso dopo l'interessamento di don Raffaele
Bensi, di Giorgio La Pira e la prefazione del vescovo di Camerino, mons.
Giuseppe DAvack. In quello che lui stesso definì un «album di ricordi»,
don Lorenzo raccontò il tentativo fatto a San Donato di adattare la
pastorale imparata in seminario a una realtà sociale, culturale,
economica e religiosa del tutto impreparata ad accoglierla. Contro lo
spreco di tempo scriveva ai preti: «Se una notte qualcuno vi scrivesse
sulla porta del ricreatorio: "Luogo per il metodico sperpero d'uno dei
più grandi doni di Dio" che gli vorreste fare? Non vi resterebbe altro
ripicco che quello di andare la notte dopo a scrivere sulla porta del
ricreatorio comunista e delle case di tolleranza: "Luogo dove invece di
sperperare uno solo dei doni di Dio se ne sperpera più d'uno". Ma ci
sarebbe poca soddisfazione perché la differenza non è, in conclusione,
sostanziale».
E ancora, raccontando quel che aveva imparato facendosi missionario tra
la gente, affermava la priorità della lotta in difesa degli ultimi e dei
poveri, l'obbligo di abbattere il muro dell'ignoranza civile e la
volontà di mettere in atto una pastorale alternativa, fondata su
un'opera di promozione umana, che ponesse al centro l'insegnamento della
parola. Secondo don Milani i cristiani avrebbero dovuto avere un partito
che «tenesse per statuto il Magnificat», ma se questo rimaneva un ideale
utopico, allora il prete doveva avere la possibilità di «far lui scuola
con questo classismo ferreo. Un "classismo" da far paura al più
ortodosso dei comunisti», perché in fatto di problemi sociali e politici
«bisogna aver le idee chiare. [...] Non bisogna essere interclassisti,
ma schierati. Bisogna ardere dell'ansia di elevare il povero a un
livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell'attuale
classe dirigente. Ma superiore: più uomo, più spirituale, più cristiano,
più tutto»21.
Un messaggio di speranza chiamato Barbiana
Mons. Tirapani per don Lorenzo scelse Barbiana, un cumulo di case sul
monte Giovi nell'Appennino tosco-emiliano, frazione del Comune di
Vicchio di Mugello: un posto sperduto, senza acqua né energia elettrica,
abitato soltanto da montanari e pastori. Partì da San Donato il 6
dicembre 1954, ma perfino il trasloco fu arduo: il camion non riuscì a
salire fino alla canonica, per le cattive condizioni della strada, tutta
fango e neve. Portate a piedi le poche cose che gli servivano, insieme a
Eda, la fedelissima governante, e ad alcuni amici, la mattina seguente
di buonora si recò a Vicchio, bussò alla porta del parroco, don Renzo
Rossi, e si fece accompagnare in municipio per comprare una tomba,
sostenendo che questo lo avrebbe fatto sentire «totalmente legato alla
sua nuova gente nella vita e nella morte»22. Don Milani volle subito
incontrare le nuove persone che gli erano state affidate: un centinaio
di contadini, montanari, gente povera e ignorante, che viveva ai margini
della società e col poco che strappava a un duro lavoro.
A quella vista, non resistendo a una così grande ingiustizia sociale e a
tanta povertà, donò loro tutto l'amore e la cultura che possedeva,
aprendo una scuola. Era infatti ormai chiara, per lui, questa idea-forza
e guida: a causa della povertà non si va a scuola, ma il non andare a
scuola genera povertà. E pure a Barbiana l'insegnamento era basato sulla
parola, come mezzo per affermare la propria identità e per essere
solidali con gli altri uomini e, ancor più che a San Donato, non volle
trasmettere ai ragazzi un annuncio religioso, ma un messaggio profetico,
il cui fulcro stava nel passaggio dallo stato d'inerzia a quello di
libertà, dallo stato di subordinazione a quello di autonomia, ma
soprattutto dalla timidezza radicata in quei montanari alla capacità di
affrontare il mondo.
Quella scuola, aperta 365 giorni l'anno, era caratterizzata da un
profondo legame con la vita e i problemi sociali — dallo sfruttamento
all'indifferenza —, e da una severità e apertura fuori del comune.
Lorenzo insegnava, insieme alle materie classiche, le lingue, la pittura
e la politica, ma anche la semplice consultazione degli orari del treno
o di una carta stradale. Spesso arrivavano amici, ospiti, personaggi più
o meno noti che, senza fare distinzioni, faceva accomodare tra i ragazzi
per poi sottoporli a una sorta di terzo grado, perché l'importante era
ascoltare e imparare qualcosa da ogni visita, da ogni parola così come
da ogni lettera ricevuta, che perciò veniva letta davanti a tutti. E fu
proprio a Barbiana che decise, pur temendo di non esser compreso, di
pubblicare Esperienze Pastorali23, il libro maturato nel periodo di San
Donato.
Inizialmente le reazioni della stampa cattolica furono positive24, o
almeno sorprese dai contenuti rivoluzionari di quest'opera, mentre
Arturo Carlo Jemolo, in La Stampa di Torino, scriveva: «Al credente dirò
che nessuna contingenza economica e storica può impedire che la lava
ardente della parola di Cristo continui a scorrere mediante la Chiesa,
pur sotto grossi strati di lava raffreddata e corrosa»25. Ben presto
tuttavia, a causa delle pressioni della Curia fiorentina sulla
Segreteria di Stato, il libro fu sottoposto alle pesanti critiche di
varie testate, culminate nell'articolo di Angelo Perego, sulla Civiltà
Cattolica del 20 settembre 1958 26, dove leggiamo: «Il libro non è sul
giusto binario, non corre nel senso dell'edificazione, non chiarisce le
idee, non convalida le buone volontà, ma al contrario, confonde le
menti, esaspera gli spiriti, scalfisce la fiducia nella Chiesa». La
pubblicazione di quelle pagine determinò un cambio di rotta nella stampa
ecclesiastica e filogovernativa, con giudizi prevalentemente negativi,
mentre il Sant'Uffizio aprì un'inchiesta, conclusasi il 10 dicembre 1958
con la condanna del libro e il suo ritiro dal commercio27.
Don Lorenzo, esattamente come dopo San Donato, mantenne un atteggiamento
di obbediente ribellione: continuò a vivere il Vangelo sine glossa e si
inchinò ai dettami della Chiesa rispondendo, a quanti gli chiedevano
come facesse: «Non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se
dovessi viverci in questo atteggiamento difensivo e disperato. Io ci
vivo, ci parlo e ci scrivo con la più assoluta libertà di parola, di
pensiero, di metodo, di ogni cosa. Se dicessi che credo in Dio direi
troppo poco perché gli voglio bene. E capirai che voler bene a uno è
qualcosa di più che credere nella sua esistenza!»28. Col tempo anche
quelle polemiche si placarono, ma quando il 12 febbraio 1965 apparve su
La Nazione una lettera dei cappellani militari, che definivano
l'obiezione di coscienza «un insulto alla patria e ai caduti», in quanto
espressione di viltà del tutto estranea al comandamento dell'amore
cristiano, don Milani avvertì l'impulso di non poter esimersi dal
rispondere pubblicamente.
«Lettera ai cappellani» e «Lettera a una professoressa»
Nella Lettera ai cappellani militari, spedita in 800 copie a tutti i
giornali cattolici e pubblicata per intero soltanto dal settimanale del
Pei, Rinascita (6 marzo 1965), si legge: «Non discuterò l'idea di Patria
in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete il diritto
di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel
vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo
in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati e oppressori
dall'altro». Richiamando poi l'art. 11 della Costituzione — «L'Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli» —, don Milani argomentò che in nome della Patria il nostro Paese
aveva combattuto una serie di guerre ingiuste, a eccezione di quella
partigiana, unica difensiva, per cui i cappellani militari non solo
avrebbero dovuto educare i soldati all'obiezione anziché all'obbedienza
— in questo preciso contesto va letta, pena gli equivoci che scatenò, la
frase: «L'obbedienza non è più una virtù» —, ma inoltre avrebbero dovuto
offrire sostegno ai giovani finiti in carcere, proprio «per aver
obiettato in nome di Dio». Di qui l'accorata esortazione finale ai
cappellani: «Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono
dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello
star dalla parte di chi ce li tiene» 29.
Ovviamente anche questo intervento scatenò polemiche e reazioni30,
sfociate nella denuncia, presentata da sei ex-combattenti, contro don
Milani e il direttore di Rinascita, Luca Pavolini, suo amico d'infanzia,
per incitamento alla diserzione. Già gravemente malato — fin dal 1960
apparvero i primi sintomi di quello che gli sarà diagnosticato, poco
tempo dopo, come morbo di Hodg-kin —, don Lorenzo non si recò
all'udienza fissata per il 30 ottobre a Roma, ma inviò uno scritto,
Lettera ai giudici^1, in cui, dopo aver parlato della scuola di Barbiana
e del suo ruolo di educatore e di parroco, affermava: «Devo ben
insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di
parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e
perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di
tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande "I Care". E
il motto intraducibile dei giovani americani migliori. "Me ne importa,
mi sta a cuore". E il contrario esatto del motto fascista "Me ne frego".
Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una
settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose
avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi»32.
C'era tutto don Lorenzo in quella difesa, e infatti fu assolto in primo
grado33. Nonostante il peggioramento delle sue condizioni di salute —
già da tempo faceva lezione seduto su una sedia a sdraio —, insieme ai
suoi allievi tornò a occuparsi della stesura di un dattiloscritto sulla
scuola, che, prendendo spunto dalle disavventure scolastiche di tre
ragazzi di Barbiana bocciati ingiustamente all'istituto magistrale,
denunciava i gravi problemi della scuola pubblica e la sua assoluta
mancanza di contenuti.
Il libro, Lettera a una professoressa — che uscì nel maggio 1967, un
mese prima della sua morte —, racchiudeva l'unicità della scuola di
Barbiana, il suo essere severa, impegnativa, attenta e aperta ai
problemi del mondo, espressione di una cultura collettiva in cui la
scelta di classe era in realtà condivisione, confronto e non prevalenza
del singolo come nella scuola pubblica. Infatti, all'interno di quella
canonica adibita ad aula scolastica non si accettava l'ingiustizia o
l'emarginazione dei deboli, ma ci si aiutava a vicenda, si era poveri e
uniti, impegnati e responsabili, perché soltanto in questo modo era
possibile diventare cittadini sovrani in grado di cambiare un mondo
ingiusto e selettivo.
Don Milani attribuiva alla scuola il fine grande e onesto di «dedicarsi
al prossimo», sosteneva l'esigenza di diffondere una cultura pronta a
difendere gli ultimi anziché abbandonarli: «Chi era senza basi, lento o
svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il
primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta per lui»34, e
ricordava a un Occidente ormai indifferente verso i più deboli che
«Barbiana non è un nome emblematico, Barbiana non è più in Mugello:
Barbiana è in Africa, è nel Medio Oriente, Barbiana è nell'America
Latina. Le Barbiane del mondo dicono che noi ci comportiamo come se il
mondo fossimo noi»35.
Ormai immobilizzato nel letto dalla sofferenza, don Lorenzo Milani non
solo volle essere circondato soltanto da quanti lo amavano
profondamente, ma rimase legato fino all'ultimo respiro al messaggio di
speranza che Barbiana rappresentava, a quell'ostinato 'I care'36 che
aveva guidato ogni sua battaglia. E quando il 25 aprile 1967, costretto
a lasciare Barbiana e a rientrare in famiglia, per l'aggravarsi della
malattia, bruciò molti documenti e ordinò ai suoi ragazzi di chiudere la
scuola, perché il suo «segreto pedagogico non era esportabile», troviamo
qui il nucleo del suo messaggio. Purtroppo, proprio questo suo
testamento venne trascurato o frainteso da vari suoi epigoni,
compromettendo l'anima profonda dell'eredità di don Milani. Un'eredità
sostanzialmente incentrata nell'amore per gli ultimi, che lo aveva
trasformato in uno di loro, ma sopratutto in quella fede che gli aveva
permesso di restare sempre e comunque, addirittura faziosamente, dalla
parte del Vangelo.